Recensione a La prima periferia – Pathosformel
In un silenzio dai tratti rituali, all’interno di un quadrilatero chiaro, tre figure sono impegnate a far muovere altrettante creature, che vanno a costruire, successivamente, immagini e (più di rado) azioni. Si presenta quella che si può intuire come una serie di tableaux vivants, anche se gran parte delle composizioni non sono immediatamente riconoscibili o riconducibili alla figura originaria. Ma non è (solo) questo l’importante: La prima periferia è uno spettacolo di una delicatezza particolare, che condensa il coinvolgimento emotivo e percettivo del singolo spettatore attraverso una esile leggerezza visiva, la precisione delle linee compositive e – non ultime – la cura e l’attenzione quasi affettiva di cui è permeata ogni azione.
Protagonista è la fatica che sottende ogni movimento, anche il più piccolo: lo stridere delle articolazioni – che ognuno riconosce, ma nessuno sa – è un leitmotiv acustico talmente efficace da sovrastare il tessuto sonoro abbastanza convenzionale su cui si sviluppa lo spettacolo; mentre, allo stesso tempo, lo sforzo implicito nella cinetica umana si esprime anche a livello visivo: tre persone possono non bastare a farne inginocchiare una quarta, qui “interpretata” da un modello anatomico umano a grandezza naturale. Proprio in questa dimensione si colloca uno dei tratti di questo lavoro, che – come anche altri di Pathosformel – interroga direttamente lo spettatore (riguardo gli automatismi della propria visione) e il performer (sulle emergenze della propria azione).
Di più, La prima periferia è la prima creazione in cui sono presenti attori tout court: tre performer, appunto, impegnati a comporre i movimenti e le pose dei modelli anatomici. Qui la ricerca sull’intuizione e l’immaginazione dello spettatore per cui l’ensemble si è distinto fin dall’inizio è sviluppata secondo un percorso estremamente interessante: smascherata, l’interrogazione sulla percezione e l’interpretazione si amplia fino a coinvolgere ulteriori livelli del discorso performativo e non solo, aprendo quesiti sulla collocazione dello sguardo, sul suo rapporto con l’immagine e sull’azione attoriale che travalicano i limiti della singola creazione. In Volta, come ne La timidezza delle ossa o La più piccola distanza, l’innesco concettuale – pur estremamente affascinante e coinvolgente sia a livello ideativo che nella sua concretizzazione in scena – rimaneva legato ad un dispositivo dichiaratamente spiazzante, destinato a mettere in crisi il ruolo dello spettatore, a interrogarlo e a condurre ognuno a ridefinirlo; la focalizzazione della percezione, pur interrogata e stimolata, restava in qualche modo legata al dispositivo con cui era prodotta, alla “magia” dell’accadimento e, forse, anche alla curiosità che suscitava. Ne La prima periferia invece, complice la presenza fisica dell’attore, sono messe in discussione l’azione e la visione stessa: cosa accade? L’azione (i movimenti dei manichini) o le forze che la determinano (quelli dei performer)? Il quesito posto da questa performance – capace di rivalutare o, quantomeno, di indicare altre possibilità di sviluppo per lo spettacolo live – è a dir poco calzante, soprattutto in questi anni di addomesticamento ai meccanismi televisivi, di fruizione scontata, di co-autorialità invocata ma mai realizzata, anzi sempre più circoscritta anche (e soprattutto) attraverso le ultime frontiere comunicative del web, dagli innumerevoli blog ai social network a youtube e wikipedia. In questo panorama che lavora (consapevolmente o meno) all’omogeneizzazione dell’individuo, La prima periferia è una performance che si inoltra nelle esperienze (attuali e passate) di ogni spettatore, andando ad invocare la singolarità dello sguardo: al di là di qualsiasi approfondimento concettuale, la dimensione emotiva, l’inclusione irriducibile, l’affondo personale sono senza dubbio al centro di questo spettacolo, che riesce a concentrare una così ampia varietà di dimensioni in azioni semplici dall’espressività artigianale. Quando il profilo del pavimento, a fior di palcoscenico, comincia a brulicare di un formicolio di minuscoli oggetti in movimento e, insieme, giganteschi, performer e manichini li osservano e tentano di afferrarli, si compie un’attenzione irriducibile, in una coincidenza fra agente e agito di un certo impatto e coinvolgimento emotivo, di grande resa scenica e di rara lucidità creativa.
Visto a B.Motion, Bassano del Grappa
Roberta Ferraresi