Recensione a Annibale non l’ha mai fatto – TAM Teatromusica
Durante la stagione 2009/2010, diversi appuntamenti hanno trasformato il palcoscenico del Teatro delle Maddalene in un luogo dove la diversità potesse cercare un contatto con l’Altro, con ciò che le è estraneo. Partendo da In cammino (TAM Teatromusica) e passando per Kish Kush (Teatrodistinto) si è giunti ad Annibale non l’ha mai fatto, nato dal progetto TAM Teatrocarcere, condotto da Andrea Pennacchi e M.Cinzia Zanellato. Il progetto, che quest’anno festeggia il 15^ anno di attività, parte dal presupposto che “il teatro in carcere sia necessario a chi è dentro, ma anche a chi sta fuori” (Michele Sambin, direttore del TAM). Protagonisti, due performer: Andrea Pennacchi e Kessaci Farid, attualmente detenuto presso il carcere Due Palazzi di Padova.
Essere consapevoli della reclusione che Farid sta scontando permette allo spettatore di esplorare nuovi schemi interpretativi e accedere a chiavi di lettura inedite. La scena si carica di significati che, nella nostra quotidianità, nella nostra normalità, ha perso molto tempo fa. Il palco improvvisamente si ritrasforma in un luogo di libertà: Farid e Andrea ci ricordano con la loro presenza come le quinte, il pavimento, il soffitto rappresentino uno spazio mentale che, nonostante la concretezza dei confini, è in grado di espandersi raggiungendo luoghi, punti di vista e prospettive lontani. Uno spazio in cui il tempo può essere percorso come un labirinto, per salti e sospensioni, in ogni direzione: partendo dal percorso di Annibale e della sua storica traversata delle Alpi, Andrea e Farid, nel ruolo l’uno di Arba, elefantessa matriarca, e l’altro del proprio nonno, 37 nonni fa, ricostruiscono le vicende di un’affinità, di un’unione che sa di integrazione e comprensione. Due diversi mondi sono chiamati non solo a comunicare, ma anche a cooperare per poter superare difficoltà apparentemente insormontabili: l’attraversamento del fiume, la discesa delle Alpi innevate e la battaglia rappresentano quindi momenti chiave per la comprensione di un processo di integrazione che investe la società in cui viviamo e che si concretizzano sulla scena attraverso il rapporto tra l’animale e l’essere umano.
Dal palco trasuda un bisogno di osservare la nostra realtà quotidiana da un punto sopraelevato per poter risolvere le incomprensioni legate all’incapacità di comunicare, ritrovando un senso d’umanità ormai dimenticato. È infatti un viaggio che si muove per direttrici verticali quello che compiono Arba/Andrea e il nonno di Farid/Farid. Una verticalità suggerita, e all’occorrenza enfatizzata, dalla scenografia, costituita da pochi elementi estremamente funzionali: coni di telo bianco si trasformano, grazie ai video realizzati da Raffaella Rivi, in fiumi, cieli, pagine di libri, zampe di elefante, scenari in grado di completare e dare un senso al racconto dei due performer, le cui parole, elemento centrale della narrazione orale, acquistano un maggior senso di verità attraverso le azioni sceniche che li mettono alla prova. Non a caso, sono due scale gli oggetti attraverso cui vengono suggeriti gli spostamenti e le condizioni di viaggio dei due protagonisti: esplorandone le componenti e sperimentandone le posizioni, i due performer suggeriscono allo spettatore quelle montagne, quei fiumi e quelle pianure che tappezzano il viaggio di Annibale e dei suoi uomini. Questo moto verticale trova compimento solo sul finire dello spettacolo, quando Arba cede alla battaglia perdendo la propria vita. In questo momento di morte trova però spazio la descrizione di una fraternità rinata: il radunarsi degli animali attorno alla loro simile non può che ricordare a noi esseri umani quanto sia necessario essere presenti nel momento della sofferenza, chiunque essa colpisca. È quindi il concretizzarsi dell’anima di Arba sulla scena, personificata da Claudia Fabris, che costringe lo spettatore a fare i conti con una tensione ascensionale travolgente, trasformando lo spettacolo in un’esperienza che realmente può contribuire alla crescita personale di chi partecipa a questo rito collettivo.
Servendosi di immagini semplici e immediate, ancora una volta TAM Teatromusica riesce quindi a scavalcare i limiti fisici del teatro per parlarci di cose concrete e che costellano la nostra vita quotidiana. Grazie al progetto Teatrocarcere la scena si carica di nuovi significati, in grado di creare un punto di contatto tra il pubblico e il palcoscenico, rompendo quella barriera che troppo spesso poniamo tra la realtà e la finzione, tra l’arte e la vita.
Visto al Teatro delle Maddalene, Padova
Giulia Tirelli