Recensione a Le nombre d’or (Live) – Compagnie Marie Chouinard
Il concetto di sezione aurea è stato indagato e saccheggiato abbondantemente nel corso dei secoli, ma continua ad essere tutt’oggi un’influente calamita per chi si vuole confrontare con gli scogli di granito dell’armonia e della proporzione. Quest’anno, alla Biennale Danza di Venezia, è la volta di Marie Chouinard, che presenta una creazione fresca di debutto, Le nombre d’or (Live), in tandem con l’assolo Gloire du matin, danzato dalla stessa coreografa canadese dopo vent’anni di assenza dal palcoscenico.
Il nombre d’or è essenzialmente il numero irrazionale che esprime la sezione aurea, nel quale viene riconosciuto un canone di armonia che ha fatto perdere la testa all’arte innumerevoli volte. Ciò che, in questo caso, la coreografa recupera dall’idea di numero aureo, è il suo essere indicativo del rapporto tra due lunghezze diseguali legate da un rapporto proporzionale.
L’inizio dello spettacolo slitta su due livelli: mentre gli spettatori raggiungono i loro posti, l’ensemble dei danzatori si scalda sul palcoscenico, in tuta, come se fosse in sala prove. Giunta l’ora, i ballerini si avviano verso le quinte con nonchalance, sistemando gli oggetti di scena. Si spengono le luci e lo spettacolo inizia: due enormi lampade metalliche con il fusto piegato a quarantacinque gradi, manovrate dai ballerini, puntano il loro occhio su due danzatori avvolti in un manto di seta rigida e trasparente, che pian piano ne escono come due pulcini dall’uovo. Gradualmente la scena viene popolata dagli altri ballerini: un folto gruppo di creature bislacche con calzamaglie a rete color crema, frange da cowboy sulle gambe e parrucche bionde spettinate ad aculei. Giocano, sorridono, curiosano, come una comitiva di alieni ingenui e beffardi che ha appena messo piede sulla Terra. Alcuni indossano l’intelaiatura nera di un paio di occhiali, sproporzionata e fuori luogo. Il gruppo dei danzatori instaura un vivace dialogo con alcune telecamere, piazzate in diversi punti del palco e collegate a schermi, che restituiscono la coreografia da differenti angolazioni, causando qualche sfasamento nella percezione. Ridono e piangono fastidiosamente, si provocano, si accoppiano, si infilano grandi maschere con volti di anziani, con evidenti effetti comici o satirici, per poi arrivare ai neonati, terminando su due danzatori nudi che indossano volti da bimbo pasciuto, annegando l’atmosfera in una lieve linea di tenerezza. Gli accoppiamenti hanno sempre un forte sapore animale, di voluttà guerriera e spinosa, con un retrogusto di dolore. La coreografia sembra quasi scandire il tempo biologico di questi esseri estranei e infantili, che dal nulla modulano la propria età e la propria vitalità a seconda della faccia che indossano o del rapporto con il partner. Unico spacco in mezzo al delirio di corpi travestiti, il brillante assolo di Carole Prieur, unica a mostrarsi senza maschera, che con i capelli umidi e sciolti lancia frasi dall’aria strafottente contagiando meravigliosamente lo spazio con la forza del suo corpo.
La confezione visiva è avvolgente, ma manca una precisa connessione con il titolo. Se effettivamente si legge l’intero spettacolo come modulazione di legami tra grandezze diverse e proporzionali, si avverte che nell’aria manca qualcosa, una pasta più densa che sia in grado di fare da collante strutturale a un’operazione coreografica dotata comunque di un suo vigore.
Visto al Teatro Toniolo, Mestre
Agnese Cesari