Recensione a Il fascino dell’idiozia – Compagnia Zaches Teatro
Le “pitture nere” di Francisco Goya sono alcune delle rappresentazioni più libere dell’artista spagnolo: sono scene di stregonerie, esorcismi e inquisizioni, avvolte in un’oscurità da incubo. Le pitture del ciclo – esterne ad ogni commissione – ricoprono le pareti della sua casa di periferia.
Una densa oscurità e una potente forza suggestiva ed immaginifica scaturiscono da questi dipinti che la giovane Compagnia Zaches Teatro sceglie come punto di partenza da indagare per la creazione de Il fascino dell’idiozia. Spettacolo nato con la volontà di dar forma ad un lavoro sulla “percezione costretta dalla menomazione dei sensi” in cui l’idiozia è intesa come “visione del mondo come universo personale, anzi privato e inafferrabile, e quindi incompreso”. Questo interessante lavoro testimonia una ricerca di un linguaggio affascinante e pulito: dal buio emergono arti, schiene, parti del corpo nude assemblate disordinatamente, tra le quali appaiono anche dei volti che staccandosi dal buio diventano teste sospese, in un meccanismo presto monotono, seppur affascinante. Pochi, infatti, sono i quadri davvero sorprendenti e inaspettati di sconosciute combinazioni anatomiche in trasformazione.
Sfruttando la luce a pioggia tagliente tipica della tecnica su nero (che lascia emergere solo ciò che si vuol mostrare, lasciando le altre parti del performer nell’oscurità), la coreografia di Luana Gramegna scandisce con rigore le suggestive apparizioni, in una danza onirica amalgamata da un suono rituale e coinvolgente realizzato con musica elettronica dal vivo da Stefano Ciardi. Il flusso di apparizioni complessivamente si allontana dalle suggestioni del pittore spagnolo, puro punto di partenza, che non riemerge mai in modo riconoscibile e neanche vagamente allusivo.
Nonostante la specificità della suggestione di partenza, Il fascino dell’idiozia risulta complessivamente un lavoro disomogeneo: all’affascinante flusso di apparizioni iniziale seguono brevi differenti scene a sé stanti, danze ed infine la visione di una donna animale realizzata con silouette in controluce e proiezioni. Ma le diverse fasi di linguaggio, seppur potenzialmente efficaci ed indipendenti, mancano di consistenti elementi di continuità e fanno emergere una generale debolezza drammaturgica: la dimensione narrativa non prende vita, quando avrebbe potuto respirare ampiamente una folle atmosfera visionaria o disordinatamente onirica come proprio solo in un incubo sarebbe concesso vivere, all’interno della sua libera natura inconscia e perturbante.
Visto al Teatro PIM Spazio Scenico, Milano.
Agnese Bellato