Recensione a Sapore di sale — Centro Internazionale Arti Contemporanee e l‘Italia s’è desta — Teatro delle donne
Sapore di sale, del Centro Internazionale Arti Contemporanee, voleva essere uno spaccato sull’Italia degli anni Sessanta. Voleva parlare di una tematica difficile, quella del boom economico e di tutte quelle storie di uomini che dal Sud Italia salgono al Nord per lavoro, e voleva farlo in modo leggero.
Poche battute pronunciate in un materano quasi incomprensibile raccontano la storia di Roberto, un pastore, che dopo aver perso il suo gregge va a Torino per lavorare alla Grande Fabbrica. Una scena vuota su fondale bianco fa da scatola agli elementi – sedie, tavolo, macchinine, pecore che di volta in volta popolano il palco. Gli attori si muovono nello spazio comunicando con brevi scambi di battute, il vero dialogo è quello dei corpi che si spostano in scena precisi disegnando un immaginario del Sud contadino in cui fanno irruzione intermezzi danzati vicini al musical. Un contrasto continuo tra la realtà popolare e la modernità che avanza. L’immagine è curata, fin nei minimi particolari: i costumi di stampo naturalistico trasportano lo spettatore in pieni anni Sessanta. La scrittura scenica è minimale e a volte prevedibile: qualche battuta, coreografie anni Quaranta su musiche evergreen e poi buio, e così via. Nella sua semplicità lo spettacolo scorre lentamente, ottanta minuti ad un ritmo costante e scandito dai cambi di scena che risulta essere ripetitivo. Nonostante tutto c’è da riconoscere che parte del pubblico è rimasta affascinata dalle atmosfere, divertita dalle coreografie hollywoodiane, forse colpita da una tematica che la tocca nel profondo.
Di tutt’altro stampo L’Italia s’è desta. Scritto da Stefano Massini e interpretato dal Teatro delle Donne, il testo-indagine tratto direttamente dalla cronaca italiana, è un catalogo sull’Italia del 2010. Se sfogliassimo le pagine dei giornali ritroveremmo, uno per uno, tutti i fatti di cui testimonia questo intensissimo spettacolo che, diviso in 21 capitoli — uno per regione — ripercorre i più crudi, cruenti, sconcertanti e assolutamente veri fatti di cronaca locale. Dai cinesi in affitto nelle fogne di Milano, agli effetti delle onde di radio vaticana, agli operai tritati nei mattatoi tecnologici.
Il testo, pronunciato con ritmo serrato dai tre attori seduti al tavolo in stile telegiornale, arriva alle orecchie del pubblico diretto e implacabile; impossibile soffermarsi sui particolari, l’importante è la notizia trasmessa con ironico sarcasmo che non lascia via di scampo. Bravi gli attori nel sostenere un testo così concentrato, forse un po’ lungo per un pubblico che arriva alla fine decisamente provato ma contento e soddisfatto. Un lavoro importante che getta la coscienza dello spettatore in pasto alle contraddizioni del proprio Paese. Fin dove ci si può e vuole riconoscere come italiani, e quanto si può amare il proprio Paese a queste condizioni? Domande che sorgono spontanee ogni volta che tra un capitolo e l’altro viene mandato l’inno d’Italia nelle sue mille versioni. Un quadro, quello dipinto da Massini che non ha pietà per nessuno ma, come recitano le note di regia «il pozzo è autentico», è tutto vero. Se solitamente si è abituati a cambiare canale quando si ascolta l’infinita lista della cronaca nera, quest’opera costringe lo spettatore di fronte alla cruda e tragicomica realtà. Dopo un fiume di parole l’Italia trova la sua estrema rappresentazione in tre maiali con la maglietta della nazionale.
Visto al Festival Primavera dei Teatri, Castrovillari
Camilla Toso