La morte e la solitudine: temi cari, forse ossessivi nella scrittura di Bernard-Marie Koltès, giovane autore morto nel 1989, a 41 anni. La sua opera è stata riscoperta, esplorata e portata sulle scene in Italia, come simbolo di un macabro incastro tra arte e vita, biografia e creazione. E, in un gioco inquietante di coincidenze, è proprio della morte che parla il testo ritrovato in una tasca dei suoi vestiti, incompiuto come la vita dell’autore. Coco descrive gli ultimi istanti di vita, non ancora infranta ma già sottratta, del personaggio che ha fatto delle sue spigolosità e della sua durezza una leggenda. Gabrielle Bonheur Chanel in arte Coco, sul letto di morte è sola, nella sua casa, incapace di godere di tutti i piaceri della vita di cui si era circondata. Solo Consuelo, la sua serva, le è accanto. Questo il punto da cui partono Alessio Pizzech e Dario Marconcini dell’Associazione Teatro Buti, per dialogare, servendosi della scena, sul senso della morte, della solitudine e delle gerarchie. I due registi portano sul palco due differenti letture del testo, a cui hanno lavorato separatamente, con musiche e scenografie distinte. Punto di contatto tra le due messe in scena Elena Croce e Giovanna Daddi, le due attrici che, in uno scambio schizofrenico di identità, interpretano alternativamente entrambi i ruoli, mostrandosi nella duplice veste di schiava e padrona. Un artificio che rispecchia perfettamente il gioco drammaturgico su cui Koltès costruisce il testo: laddove la vita aveva consacrato Coco come “regina”, ora la morte la relega in una condizione di umana sofferenza, difficile da accettare, ma della quale non può liberarsi, mentre Consuelo la osserva e le parla incurante delle critiche che la padrona le rivolge e del dolore che la sta divorando. Un sottile capovolgimento che i due registi portano sulla scena secondo visioni differenti. Se Pizzech vede in Consuelo un’umanità che le permette a tratti di avvicinarsi alla sua padrona, fino a farle coincidere nella stessa figura, entrambe sdraiate, entrambe con lo sguardo rivolto al pubblico, mantenendo però quella gerarchia che vede Coco sopraelevata, sul letto di morte, rispetto alla serva ancora ai suoi piedi; Marconcini relega Coco in una posizione immobile, a tratti statuaria nella sua veste bianca, mentre la sua schiava si muove libera sul palcoscenico sovrastandola e guardandola da quell’alto in basso di cui è forte chi sovrasta e prevarica.
Scenografie di impianti opposti rispecchiano esattamente queste discordanti visioni. Per la Coco di Pizzech un letto bianco, immacolato, dietro il quale si innalza una parete che la celebra, incorniciandola come in un grottesco fotoritratto, mentre Consuelo siede ad un tavolino, immerso nel nulla, dall’altro lato del palco. Più monumentale, seppur nella sua essenzialità, l’allestimento di Marconcini, che vede due blocchi bianchi convergere in un unico punto, lo stesso dal quale Consuelo osserverà con compiaciuta freddezza la sua padrona, lasciando trapelare la sua natura di sciacallo, mentre Coco muore lentamente, sulle note e sulla ancor più straziante voce di Barbara, cantautrice francese che affianca nella storia della musica il nome di Edith Piaf.
Grazie alla bravura delle due attrici e la semplicità delle messinscene, Pizzech e Marconcini rivelano con questa doppia regia la duplice natura umana e crudele della morte, in un confronto dialettico la cui sintesi è affidata all’esperienza personale dello spettatore.
Giulia Tirelli
Visto a Estate a Radicondoli