Recensione a HAMLICE. Saggio sulla fine di una civiltà – Compagnia della Fortezza
L’ingresso al carcere di Volterra non lascia scelta, nel Paese delle meraviglie è rimasta un’ultima possibilità: attraversare la porta che reca il sigillo di Amleto (nome scritto e cerchiato sulle ante d’ingresso). Il principe di Danimarca sembra aver scelto questo luogo deputato per ricordare che il “marcio” e la corruzione continuano a logorare il potere. Hamlice è l’incontro dell’opera di Lewis Carroll con quella di William Shakespeare in uno spazio concreto, la Casa di Reclusione che, nell’ambito di VolterraTeatro 2010, ha ospitato il nuovo lavoro del regista e attore Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza, uno sviluppo dello studio dello scorso anno, Alice nel paese delle meraviglie – Saggio sulla fine di una civiltà, del quale è stato mantenuto il sottotitolo.
La voce narrante di Punzo accoglie il pubblico in un prologo costruito sulla frammentarietà del testo shakespeariano. Il disorientamento creato dal montaggio drammaturgico, che procede per tagli e salti non riconducibili alla memoria collettiva della tragedia, trova nella “follia” di Amleto l’elemento centrale e radiante dei dialoghi (per lo più monologhi) degli eventi che saranno sviluppati, quasi per accumulazione, dagli attori. Lo spazio scenico è un luogo claustrofobico in cui pezzi dell’opera, parole scritte nero su bianco, soffocano ogni cosa: pareti, pavimenti, oggetti catturati dal mondo di Alice, casacche da detenuto che divengono costumi di scena – ogni cosa si presenta completamente ricoperta dalle battute dei soggetti dell’Amleto. La vicinanza e il contatto con i personaggi di Hamlice creano situazioni in cui lo spettatore rimane solo con l’attore, lo ascolta, lo segue nei suoi spostamenti e, immobilizzato di fronte alla sua presenza, accetta l’isolamento che si sta verificando. Ad aggiungersi all’estremizzazione del fatto teatrale concorrono i costumi e il trucco degli attori: tacchi altissimi, tessuti lucidi o ricoperti di piume e paillettes, visi bianchi e labbra rosse, parrucche e grandi cappelli, sono le caratteristiche che spiccano sia nelle parti shakespeariane sia in quelle di regine e cappellai matti dell’opera di Carroll, un mondo alla rovescia catapultato nell’Amleto. La definizione di un corpo altro, la materializzazione di un individuo tramite l’eccesso raggiunge diversi livelli e, accanto alla manifestazione di un disagio sociale o di una semplice diversità, il sorriso degli attori riconduce a un possibile mondo di gioia e ironia.
Il Saggio sulla fine di una civiltà coinvolge tutti e a nessuno è concesso di restare in disparte, sembra dire una vivace Alice che, correndo avanti e indietro per il corridoio, invita quegli spettatori incerti ad entrare nelle celle. In un continuo spostamento da uno spazio all’altro, flussi di persone seguono gli attori. I personaggi di questo bizzarro ensemble appaiono e scompaiono continuamente, fino a concentrarsi solo all’ultimo nel corridoio delle carceri. Il livello acustico creato dall’incontro delle voci dei diversi attori si amplifica fino a sviluppare una musica di parole in cui le onde, come in frequenze radio disturbate, dall’iniziale incomprensibilità, attraversano lo spettatore e gli consegnano la possibilità e la responsabilità di scindere un unico discorso dal fiume indistinto di parole.
Il processo di decostruzione testuale che ha caratterizzato l’approccio all’opera shakespeariana nel corso del Novecento è nucleo della scrittura di Armando Punzo. Ciò che rimane della tragedia nel lavoro della Compagnia della Fortezza è una composizione di frammenti che, per opera dei detenuti-attori, ha assunto tinte vivaci e disorientanti. Non è stato difficile lasciarsi alle spalle pietismi indotti dalla situazione (si è così tanto parlato della fisicità degli attori, con i loro muscoli e tatuaggi, che il pensiero rifugge facilmente da tali associazioni), ma l’ingranaggio della macchina teatrale ha dovuto fare i conti con la realtà di un paese in cui giorno dopo giorno affiorano tutte le problematiche della detenzione (dalla capienza delle carceri alla percentuale dei suicidi in costante e sconcertante aumento). La “rivolta delle parole” con cui si è concluso il lavoro, ha reso lo spettatore partecipe di un evento che fino a questo momento aveva seguito voyeuristicamente. È lo stesso regista, in conclusione, a dirlo: «la rivolta delle parole … le parole che volano … che perdono il senso previsto … la rivolta delle parole tocca tutti».
Elena Conti
Visto a VolterraTeatro