Recensione a Il ragazzo dell’ultimo banco di Juan Mayorga – VeneziaInScena e Questa Nave
Delineare una sintesi esaustiva de Il ragazzo dell’ultimo banco di Juan Mayorga è un compito assai arduo: il celebre drammaturgo spagnolo, infatti, compone un testo – presentato in prima nazionale al Teatro Aurora di Marghera grazie a VeneziaInScena e Questa Nave – che è una tela intricata di temi e livelli comunicativi che sembrano moltiplicarsi all’infinito. I rapporti tra diverse generazioni e i problemi legati alla scuola e alle differenze di classe sociale si intrecciano ad una più ampia riflessione sulla letteratura e l’arte, con affondi che si potrebbero definire “metadrammaturgici” sulla scrittura stessa, dalla composizione sintattica alla costruzione dei personaggi. Ciononostante, Il ragazzo dell’ultimo banco è lontanissimo dall’essere un trattato autoreferenziale dipinto sullo sfondo di un dramma realistico: con incredibile abilità, Mayorga regala al pubblico un copione intriso di citazioni e profondità senza mai scadere nella pedanteria, destabilizzante nella struttura ma coinvolgente proprio perché richiede al pubblico una partecipazione attiva e creativa, costellandolo di ironia e “mettendolo in bocca” a personaggi comuni, a tratti banali ma, proprio per questo, interessanti e divertenti nello scarto tra loro e i contenuti di cui sono, a loro insaputa, portatori.
Date queste premesse, coraggiosa e meritevole la scelta di Adriano Iurissevich di proporre questo testo al pubblico veneziano – inserendolo nella rassegna Settimana di Drammaturgia Contemporanea della quale è anche direttore artistico – nel doppio ruolo di regista e interprete. Veste infatti, con disinvoltura, i calzanti panni di Germano, professore liceale di letteratura, che si ritrova risucchiato in una spirale ambigua – che dal virtuoso scivola, lentamente, nel vizioso – da un suo studente, Claudio, silenzioso ragazzo dell’ultima fila e promettente scrittore (interpretato in scena da un convincente Giulio Canestrelli). Appassionandosi ai racconti del ragazzo, gli permette di infiltrarsi nella casa e vita del suo compagno di classe Max (Mario Pola), inconsapevole fonte di ispirazione, insieme ai suoi genitori (Alessio Bobbo e Francesca Bindelli), dei tentativi letterati di Claudio. Nonostante le perplessità che la moglie e venditrice di arte contemporanea (Francesca D’Este) nutre per la situazione, non condividendo che professore e allievo sfruttino questa famiglia medio-borghese per i loro fini, spiandoli, studiandoli e traducendone in prosa le vite, la collaborazione tra i due continua, e sembra destinata a non terminare. La struttura formale, infatti, segue per un’ampia parte dello spettacolo il medesimo schema: sulle parole scritte da Claudio, la vicenda si sviluppa tra narrazione e rappresentazione, tramite un abile incastro scenico basato su compresenze spaziali (ridisegnate dalla scenografa Gaia Dolcetta con attenzione ai dettagli e alla funzionalità) e salti temporali e continui cambi di registro, giocando con sottigliezza sul rapporto di forza tra osservati e osservatori. Ma a un certo punto qualcosa si incrina, e lo schema si rompe: l’osservatore (Claudio) si infatua di una delle osservate (la madre di Max), ma, soprattutto il professore scopre di essere anche lui, insieme a sua moglie, uno degli oggetti di osservazione del suo discepolo. La rottura con il maestro è inevitabile, ma in realtà, l’intera vicenda era puntellata di accenni, sguardi, tensioni in crescendo che lasciavano presagire questa chiusura. Nel testo stesso, infatti, viene definito un buon finale quello che fa dire al lettore, al contempo, «non me lo immaginavo» e «non poteva non finire così».
Quasi una dichiarazione di poetica, quindi, da parte dell’autore, che sembra disseminare personali appunti e riflessioni sul suo mestiere senza rinunciare a costruire una vicenda attuale, nei rapporti tra genitori e figli, giovani e meno giovani, professori e studenti, moglie e marito. E l’allestimento di Iurissevich riesce nell’impresa di rendere Il ragazzo dell’ultimo banco in tutta la sua complessità; l’intero cast lascia scivolare il testo con disinvoltura costruendo dei personaggi a tutto tondo che non scadono mai nello stereotipo, nonostante i tentativi di Claudio di chiuderli in una gabbia letteraria che pretende di definirli e capirli interamente. Lo scarto tra letteratura e teatro si svela nell’incapacità di cogliere del tutto un personaggio reale e vivo: è in quel “qualcosa che sfugge” che sta la sottile ma fondamentale differenza tra la pagina scritta e l’azione scenica. Uno spettacolo, quindi, che offre e moltiplica nella sua forma di surreale realismo gli spunti di riflessione, non rinunciando, però, a divertire il pubblico.
Visto al Teatro Aurora, Marghera
Silvia Gatto
Bell’articolo, e bello spettacolo.
“Se non è verosimile non è vero, anche se è vero”