Recensione a Stasera Ovulo – regia di Virginia Martini
Chiara inizia così il suo racconto, fatto di tentativi per riuscire ad avere un figlio: un desiderio che la porterà a intraprendere un percorso sempre più arduo e sofferto, fatto di consigli contraddittori di medici ed amiche, medicine ed effetti collaterali, in un climax costruito ad arte che scivola lentamente dalla comicità al dramma. Al ritmo di mutandine tolte con regolarità per controllare se finalmente il ciclo non è arrivato o per subire l’ennesimo controllo ginecologico, l’ironica e commovente Antonella Questa regala una performance attoriale garbata ma diretta, coinvolgendo il pubblico in questa triste storia, che accomuna moltissime donne, in cui un’ombra sinistra si staglia sempre più violentemente sulla sua esistenza: la sterilità. Stasera Ovulo — non a caso duplicemente premiato al Premio Calandra 2009 come Miglior Spettacolo e Migliore Interprete — è uno spettacolo forte, tutto al femminile, che, grazie alla minimale ed efficace regia di Virginia Martini, porta alla ribalta un tema attualissimo ma che raramente viene pubblicamente affrontato, perché l’infertilità genera pregiudizi e stigmatizzazioni primordiali: “ignominia” è il termine usato, e ricordato nell’intelligente e sottile drammaturgia, nella Bibbia per le donne che non riescono a procreare. È “il terrore atavico dell’estinzione della specie”, spiega la protagonista, che crea attorno queste donne una sottile e subdola diffidenza.
Succede allora che si è disposte a infliggere al proprio corpo cure e umiliazioni pur di poter uscire da questa situazione: le gambe e il ventre si gonfiano, nausee e tensioni con il marito si susseguono; il sesso si svuota di qualsiasi piacere e sentimento per divenire puro e obbligatorio atto procreatore. Un processo che non sembra avere mai fine, ma proprio quando la situazione rasenta l’assurdità, di fronte all’ennesimo tentativo con una bassissima percentuale di riuscita e devastanti effetti collaterali, Chiara dice basta: «voglio avere un figlio, ma non a tutti i costi. Questo è accanimento terapeutico». La scelta è dolorosa ma definitiva, e apre le porte a una rinnovata consapevolezza: ingoiata da questo vortice di paure ed esami medici, aveva concentrato tutta la sua attenzione sul suo corpo — colpevole e vuoto —, dimenticandosi del vero obiettivo, un figlio.
Dopo tutte le peripezie raccontate, rispetto alle innumerevoli tecniche per aumentare la fertilità o assistere la procreazione, una soluzione non presa fino a quel momento in considerazione risuona immediatamente più naturale: l’adozione. In un finale carico di dolcezza materna, alla luce di una candelina su una torta di compleanno, Chiara può finalmente festeggiare il primo compleanno di suo figlio, nato a Nairobi «per la gioia di mamma e papà».
Visto al Teatro Junghans, Venezia
Silvia Gatto