Recensione a Rumore di acque – Teatro delle Albe
2917 è un ragazzino dalla pelle nera. 1111 è Jasmine da Tunisi. E il 3455 o il 3999? E invece il numero 77? No, il 77 non è riferito a qualcuno di «questi qua che magari stanno ancora sugli alberi»; quel numero così “basso” è la somma di corpi sfracellati, frantumati da un ammiraglio che nel soccorrere alcuni naufraghi in mare si è dimenticato di spegnere l’elica della sua nave. Difficile poi ricomporre i pezzi quando nella profondità delle acque si ritrovano una serie di gambe o braccia di cui non si capisce a quale corpo appartengano. Difficile numerarli, difficile sommarli: soprattutto per il funzionario addetto a contare e mettere in ordine questi cadaveri. Ma alla fine sono solo 77 unità, poca cosa in mezzo a tutte le altre migliaia che continuano a fare la spola tra l’Africa e l’Europa, cercando la salvezza ma spesso trovando la morte nell’attraversare un mare «nero come la notte e blu come la paura».
Non si parla di uomini, ma di numeri, in Rumore di acque, uno spettacolo che il Teatro delle Albe inserisce all’interno del trittico Ravenna-Mazara 2010, un progetto in cui la città siciliana rappresenta una destinazione-frontiera verso cui molti aspirano per aver la possibilità di un futuro migliore. C’è ancora modo di fare un teatro politico e le Albe mostrano come. Attraversare il Mediterraneo, culla della civiltà, rappresenta l’ultima speranza a cui si aggrappa chi è sfinito dalle continue guerre civili e da condizioni di vita precarie; un viaggio che appare come una follia incomprensibile agli occhi del cinico europeo che, comodamente seduto sul divano di casa, osserva alla tv la notizia di quei gommoni, quelle navi fatiscenti stracolme di corpi scuri di pelle disperse in mezzo al mare e che proprio non capisce per che cosa questo viaggio l’abbiano fatto, in fondo «sapevano cosa rischiavano, no?». Alessandro Renda, nei panni di un generale sfrontato e pieno di sé, segue la lezione della inarrivabile maestra della compagnia ravennate Ermanna Montanari nella modulazione vocale; ed è bravissimo nell’interpretare un’ora di monologo, scritto dal regista e drammaturgo Marco Martinelli, aumentando ossessivamente quella sua tonalità rauca e creando una perfetta dissonanza con le strazianti musiche eseguite dal vivo dei Fratelli Mancuso. I diversi strumenti – violino, armonium indiano, liuto, campane e canti vicino a quelli processionali – costituiscono un tappeto sonoro che rimanda a tradizioni e culture molteplici, lontane; c’è quasi un ritorno a un substrato ancestrale, è una melodia che colpisce lo spettatore nell’intimo avvicinandolo al destino di quei numeri senza nome, colpevoli di essere nati sulla sponda sbagliata del Mediterraneo, mare che tanto ci avvicina quanto ci allontana.
Di fronte a quelle cifre sciorinate con una freddezza da brivido, tornano alla mente i deportati dei campi di concentramento nazisti: anche lì nessuna identità, ma un codice per distinguerli e metterli in ordine. Si era rinnegata questa pratica, ma la si ritrova, nel suo agghiacciante meccanismo, oggi: associandola a questi uomini che affrontano un viaggio infinito per arrivare alle coste italiane, ma che per lo più delle volte muoiono prima, senza neanche aver avvistato quella terra che loro pensavano salvifica. E noi rimaniamo a guardare. Tocca delle corde rimosse Alessandro Renda, quando esce dalla penombra e rivolgendosi al pubblico in sala crea un’ambiguità con sede nel soggetto a cui muove le sue accuse: quei pesci di cui parla con veemenza, che si mangiano tutto, quegli squali del mare che divorano volti e macellano corpi, in fin dei conti siamo noi, uomini/spettatori che con grande distacco rimaniamo in silenzio. E per un attimo avviene quello spostamento, tremendo e stritolatore: noi che guardiamo diventiamo pesci, perché alla fine nella nostra indifferenza siamo complici di quegli squali. Chiuso nell’individualismo in cui si vive, l’uomo è pronto a divorare l’altro o semplicemente a cambiar canale della tv senza alcun rimorso di fronte a quei corpi annegati e percepiti come lontani, perduti però nel mare nostrum.
Visto al Teatro Rasi, Ravenna
Carlotta Tringali