Recensione a Kish Kush di teatrodistinto
In una società assillata dalla paura del diverso, rassicura che l’Arte costruisca discorsi e racconti che tessano un velo attraverso il quale guardare l’Altro con uno sguardo ormai estraneo alla visione culturale contemporanea di una società come quella del Nord-Est italiano.
Finalista a Premio Scenario Infanzia 2008, Kish Kush, che in ebraico significa “scarabocchio”, si presenta come l’accenno di una riflessione in grado di far germogliare un approccio ormai dimenticato a ciò che appare lontano dalla nostra cultura, a partire dalla disposizione stessa del pubblico. Teatrodistinto invita gli spettatori a circondare sui quattro lati la scena, in una sorta di abbraccio all’umanità, intesa come insieme di esseri umani, non importa di quale nazione, “razza”, colore, permettendo a ciascun individuo di sentirsi unico e allo stesso tempo uguale a chi gli sta accanto.
La possibilità di guardarsi negli occhi e di vedere le reazioni dei propri compagni apre ad un incontro, seppur subliminale, tra coloro che solitamente vivono il teatro in una condizione di totale solitudine, immersi nel buio della sala e nello schermo del palcoscenico. Non a caso la didascalia dello spettacolo recita “storia di un incontro e delle sue tracce”: tracce non solo dello spettacolo, ma del teatro come esperienza concreta e in grado di modificare o aprire la nostra visione del mondo.
Ed è proprio così che lo spettacolo ha inizio. Sulla scena, uno striscione bianco divide lo spazio diagonalmente, impedendo agli spettatori di percepire entrambi i mondi ricreati, se non attraverso l’ombra che trapassa questo limite fisico. Ciò che è nascosto agli occhi appare come qualcosa di intangibile, di cui si cerca di ricostruire l’immagine congetturandone le caratteristiche a partire dal movimento del performer che sta oltre quella parete, quella soglia. L’invisibile/non conosciuto appare come qualcosa di molto simile a noi, nelle nostre fattezze, qualcosa di si percepiscono le somiglianze, non le differenze. Il bianco della scena permette di proiettare le ansie e le paure di un incontro che avviene in primo luogo tra dati virtuali, se si considerano bianco e nero come lo 0 e l’1 del mondo informatico nel quale siamo totalmente immersi e che ci permette di venire a contatto con realtà a noi distanti, verso le quali proviamo un’ansia di conoscenza carica di aspettative che dà luogo ad una perdita quasi totale dell’esperienza fisica dell’incontro.
I due protagonisti, inizialmente muti, si conoscono, quindi, attraverso uno schermo che gli consente di tracciare il profilo di quel corpo che gli appare inizialmente così distante: un pennello permette loro di disegnare i contorni di quella che per la prima parte dello spettacolo sembra essere solo una presenza surreale. Ed è allora che iniziano veramente a conoscersi. Da questo momento avrà origine il loro incontro, spinti dalla curiosità, infantile in qualche modo, di scoprire cose nuove. Attraverso passi sempre più azzardati, quella che inizialmente era solo una fessura aperta nello schermo da uno dei due ,si trasforma in qualcosa da strappare con tutte le proprie forze, fino a rivelare in tutta la sua apparenza un altro corpo. La sorpresa di trovarsi di fronte ad un essere umano identico a sè, ma diverso nel modo di vivere, non impedisce ai due performer di continuare il loro percorso di conoscenza. Una conoscenza profonda, che si serve di oggetti e immagini disegnate simbolici, in grado di svelare l’essenza di una cultura. La casa, il cibo e l’oggetto di culto si fanno emblema di ciò che è presente in tutte le culture, ma in forme diverse.
Daniel Gol e Alessandro Nosotti, diretti da Laura Marchigiani, riescono a dare forma alle dinamiche dell’incontro (attraverso azioni, battute e gesti molto semplici legati ad atteggiamenti tipicamente infantili) tra persone portatrici di mondi distanti gli uni dagli altri. Nonostante il grado di astrazione che lo spettacolo raggiunge grazie alla scelta di una scena totalmente bianca, il discorso risulta perfettamente comprensibile anche e soprattutto per gli spettatori più piccini. Basta pensare al finale, quanto mai emblematico: i due che tendono un telo bianco come quello che inizialmente li nascondeva l’uno all’altro, ma di cui ora rappresentano due estremità le cui braccia si protendono l’una verso l’altra, due punti tra i quali si apre un nuovo spazio puro da riempire con storie di altri incontri, luoghi nuovi e diversi, ma capaci di unire nonostante le differenze.
Sorprende di questo spettacolo il modo, sincero e crudele allo stesso tempo, di mettere tanto a nudo le dinamiche scatenate dalla mobilità dei popoli: ancora una volta, ciò che dovrebbe essere destinato ad un pubblico infantile è in grado di colpire al cuore anche adulti che, sommersi dal loro grado di maturità, dimenticano di fermarsi a riflettere sul mondo in cui vivono e di cui ormai non conservano alcuna traccia di consapevolezza.
visto al Teatro delle Maddalene, Padova
Giulia Tirelli