Recensione a Variazioni sul modello di Kraepelin – Quellicherestano
Dimenticare chi si è, cancellare dalla mente le persone con cui si è condivisa una vita, non ricordare più nessuna delle vicende accadute durante l’arco di un’esistenza, ma avvicinarsi ogni giorno sempre più al vuoto, al nulla, all’oblio. Con Variazioni sul modello di Kraepelin l’autore Davide Carnevali consegna alla scena un testo che mette in luce una malattia molto diffusa, soprattutto tra gli anziani, a cui non c’è cura: il morbo di Alzheimer, una demenza che trascina a una lenta morte, a uno spegnimento del cervello che non riesce più a trattenere alcuna informazione, alcun ricordo. Senza alcuna pateticità la compagnia Quellicherestano, diretta da Fabrizio Parenti, presenta con accuratezza e con grande efficacia un testo denso, in cui la verità sfugge non solo al protagonista affetto dalla terribile patologia, ma anche al figlio che lo assiste e allo stesso dottore Kräpelin che segue il progredire della malattia. Non c’è alcuna certezza sulle vicende accadute in un passato che va svanendo, ma solo continui spostamenti di ricordi: l’ammalato, interpretato da un impeccabile Alberto Astorri, cambia identità appropriandosi ogni volta di un particolare differente e mettendo sempre in discussione il rapporto con il figlio, un bravo Walter Leonardi, che diventa per le diverse situazioni sergente, padre o ragazzo. Fabrizio Parenti, oltre essere il regista di questo accurato ed emozionante spettacolo, veste i panni di un dottore particolare, Kräpelin: se nella storia è stato uno dei più grandi psichiatri tedeschi, collega di Alzheimer, qui diventa un medico con metodi di cura in continua variazione, da adottare di fronte a una persona che va annullandosi.
In scena frammenti di vite in cui la verità, invocata nei momenti di lucidità del protagonista, continua a scivolare, tra una memoria e un’immaginazione che si confondono creando una realtà altra, forse vera o forse solamente sognata. Non c’è alcuna tragicità dichiarata in questo dramma, di fronte a una persona che «dorme in piedi e che muore nel sonno», ma un forte straniamento, complice anche un’atmosfera surreale che ritorna nei diversi momenti dello spettacolo: una partita a carte che si trasforma in una disperata scena dove i tre attori cantano urlando e contorcendosi, o una persona vestita da coniglio che corre verso l’ammalato in abiti da donna. Come se all’improvviso lo spettatore piombasse nella mente malata di chi si appropria di frammenti di vita appartenuti ad altre persone pur di avere dei ricordi: fondamentali affinché un uomo abbia un’identità e sappia chi sia. In fondo la propria esistenza è la somma di quello che si è fatto; senza ricordi non si è più nessuno.
Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari
Carlotta Tringali