Recensione a Carne trita – di Roberto Castello / Compagnia A.L.D.E.S
Voce e corpo, in tutte le loro declinazioni, sono gli elementi sui quali si struttura Carne trita, il nuovo spettacolo della compagnia lucchese A.L.D.E.S – diretta da Roberto Castello – presentato a Venezia per l’inaugurazione della terza stagione di Teatro Ca’ Foscari. Il coreografo in questa occasione sceglie di lavorare con i danzatori indagando l’accezione più materica della persona: il corpo è carne e a renderlo umano è l’insinuarsi di quelle condizioni sociali e relazionali, apparentemente astratte, che ne lacerano la superficie, la pelle, e causano interferenze e variazioni profonde sull’essere. Se questa inserzione si cela sotto uno strato di fittizia materia, non rimane altro che adoperare una spaccatura per lasciare affiorare l’impercettibile. Ma tale processo, nel lavoro di Roberto Castello, non equivale alla messinscena di istintualità e primitività non manifeste; con Carne trita il coreografo esplora le possibilità della voce e del movimento per rintracciare quegli elementi con i quali l’individuo si confronta ogni giorno.
Un quartetto femminile introduce il tema: le danzatrici Elisa Capecchi, Alessandra Moretti, Giselda Ranieri e Irene Russolillo attingono al quotidiano, ripercorrono ed elaborano, divertendosi a giocare con il simbolico, le sfaccettate gestualità mimiche e corporali che caratterizzano i comportamenti della cosiddetta normalità per ritualizzarne l’espressività umana. Ad ogni gesto corrisponde una sola e determinata intenzione? Uno sbadiglio può trasformarsi in grida? Per accostamento e accumulazione il quartetto elabora una partitura di suoni e movimenti che destabilizza lo spettatore; l’azione scenica segue percorsi che dal mostruoso conducono all’ironico e viceversa e, guardando al quotidiano, affronta “di pancia” quegli aspetti che compongono la nostra essenza organica. Nell’impossibilità di bloccare le figure create dall’azione coreutica al fine di semplificare la visione e consentire allo spettatore di formulare una definizione univoca, anche la composizione musicale si fonda ugualmente su processi non normativi: negato l’uso di musiche registrate, l’unico strumento in scena è la voce in tutte le sue peculiarità musicali ed espressive. Nella struttura dialogica di Carne trita si unisce con impeto al quartetto una figura maschile, il danzatore Fabio Pagano, presenza inizialmente marginale seduta sul divano di una scarna scenografia. L’energia che porta in scena, manifestata tramite movimenti veloci e gestualità interrotte e poi riprese come balbuzie, si uniforma al dinamismo del gruppo mantenendo tuttavia un distacco dal coro femminile come ad alludere a dinamiche relazionali tra i due sessi.
Nelle sequenze di insieme i danzatori, con movimenti scattanti, quasi robotici e parole nonsense, trattano parimenti comunicabilità e incomunicabilità; raccontano storie che, nell’alternarsi dei soggetti coinvolti, riguardano tutti. Nel susseguirsi di cambi che vedono di volta in volta un danzatore protagonista dell’evento, tutti sperimentano la labilità della condizione emotiva; alla relazione si contrappone l’isolamento, all’allegria si sostituisce il pianto. Solo sul finale si verifica la coralità fino a questo momento accennata e ripetutamente spezzata: è la caduta, simbolica e fisica, che porta a un riassestamento della condizione iniziale. L’uomo si siede sul divano ma ora la scena è carica di una presenza fisica che segna profondamente la visione e il legame tra i danzatori e il pubblico.
Visto a Teatro Giovanni Poli, Venezia
Elena Conti