Si è concluso il 41. Festival Internazionale del Teatro della Biennale di Venezia e il clima teso che accompagnava la settimana di manifestazione non sembra essersi placato. Da un lato, le polemiche connesse alle condizioni di partecipazione imposte ai laboratoristi all’interno del progetto della Biennale Teatro che, in quest’edizione si è presentata parallelamente come rassegna di spettacoli riconosciuti a livello internazionale e come spazio laboratoriale. Dall’altro, gli scontri politici sul cambio di direzione della Biennale data la scadenza del mandato dell’attuale presidente Paolo Baratta alla fine di quest’anno. Buone notizie giungono intanto dalla parità di voto ottenuta − il 26 ottobre − in commissione Cultura della Camera per la nomina di Giulio Malgara, designato dal ministro Giancarlo Galan, risultato equiparato da alcuni a una bocciatura. Ma ciò che preoccupa maggiormente, al di là di incomprensibili maneggi politici, è l’instabilità che un simile sistema può alimentare all’interno di un ente culturale come la Biennale in cui il confine tra incarico e poltrona rischia di divenire particolarmente labile. Tornando alla presidenza Baratta, nello specifico per la sezione Teatro, con la direzione artistica di Àlex Rigola, il progetto per la 41ª edizione si è sviluppato nell’arco di un anno solare: è iniziato nell’ottobre 2010, quando sette Maestri sono stati chiamati a Venezia per tenere workshop intensivi con attori e si è concluso domenica 16 ottobre (2011) quando è stato reso pubblico, in un percorso itinerante tra splendidi − e non sempre accessibili − edifici veneziani, il lavoro laboratoriale ripreso dai registi durante la Biennale Teatro 2011. Tema: i 7 peccati capitali, sette riflessioni su cosa sia il peccato oggi.
Il primo incontro di quest’esperienza è stato con la poetica di Romeo Castellucci; una delle Sale Apollinee del Teatro La Fenice si è fatta spazio saturo di luce rossa per accogliere il peccato contemporaneo sul quale ha lavorato il regista: “il guardare”. Attore, il tuo nome non è esatto si presenta come esercizio e messa in discussione del ruolo attoriale per lasciare piombare la contraddizione direttamente sullo spettatore, voyeur per antonomasia. Il performer entra in scena con fare naturale, si avvicina al vecchio registratore dal quale parte la traccia audio di una possessione demoniaca mentre su uno schermo vengono proiettate didascalie che, riportando data e luogo dell’avvenimento, divengono asserzione del rappresentato. Questa è la struttura basica con la quale ogni ragazzo fa il proprio ingresso. Protagonista dell’evolversi del lavoro è il corpo che il performer presta a queste voci; si sottopone a contrazioni, convulsioni e scuotimenti in un atto privato di fronte al quale, tuttavia, è schierata una platea. A contrastare una messinscena didascalica e ripetitiva, come l’abuso dei performer di panna montata e del labbiale per seguire il registrato, sono succedute azioni che si sono aperte allo spazio, hanno sfruttato la sala in tutta la sua profondità e hanno mostrato una maggior libertà d’intervento dell’interprete. A segnare i limiti di ogni singolo pezzo (8 in totale), la reiterazione di un ghigno che, in chiusura, l’attore ha rivolto allo spettatore, come a dichiarare la complicità tra i due, prima di assumere nuovamente un’espressione neutra e abbandonare la stanza.
Schierati, immobili sui gradoni lignei della Sala Rossi, sempre alla Fenice, i ragazzi del laboratorio di Calixto Bieito attendono il gruppo di spettatori. Un cartello bianco attaccato sulla fronte di ognuno di loro dichiara il peccato: Envidia è il vizio capitale che Bieito sente contemporaneo. Una panoramica sul tema che soffre a volte di pressapochismo − come nell’analogia del peccato affrontato con l’invidia provata da un’attrice nei confronti di coloro che in cambio di una parte concedono prestazioni sessuali, che lascia tuttavia risaltare l’essenza stessa del progetto di Rigola per la Biennale Teatro 2011: il lavoro laboratoriale inteso come incontro tra diverse persone che, forse per la carenza di tempo, non è stato qui sviluppato drammaturgicamente. All’opposto è Death in Venice: un’estratto dell’opera di Mann in cui la regia di Thomas Ostermeier è precisa e preponderante, come costruita senza tenere presente il contesto di rappresentazione. La scenografia che accoglie lo spettatore nella sala dell’Istituto Veneto, con lo spazio scenico aggettante sul Canal Grande, lo porta a sbirciare tra i vuoti creati dalla barriera di piante che lo separano dall’azione. Il regista estrapola dall’opera la scena in cui l’anziano Aschenbach, solo, seduto al tavolo di un ristorante, si imbatte nella bellezza disarmante di Tadzio (interpretato da una giovane attrice) per trattare il peccato della “pedofilia”. Ostermeier riduce il lavoro laboratoriale ad una messinscena perfetta della sua regia. Sovrasta sui laboratoristi la presenza dell’attore tedesco Josef Bierbichler, convocato per l’occasione in laguna. Rilevato questo, Morte a Venezia non può che ridursi, nel percorso dei sette peccati ad una, per quanto splendida, fotografia.
Di tutt’altra poetica è The holy gangster di Jan Fabre (all’Ateneo Veneto), un ironico e disorientante affondo sulla figura del gangster. Cinque coppie, i cui ruoli sono stati invertiti − le donne sono travestite da uomini e viceversa − estremizzano sulla violenza esistente nel rapporto tra due persone, pongono accenti sulla sottomissione femminile fino a mandare in tilt il meccanismo relazionale, non tanto per rovesciarne le sorti o dichiarare passato il maschilismo, quanto per rilevare l’impossibilità di sottostare e definire nettamente tali dinamiche. La parola si intromette nel grande lavoro fisico dei performer solo nel finale in cui, dopo una carellata di citazioni (da San Francesco d’Assisi a Sant’Agostino) è l’aforisma di Gandhi a tirare le somme di questa breve, ma conturbante esperienza: «Occhio per occhio… e il mondo diventa cieco». Agli applausi rivolti alla performance di Fabre si lega immediatamente il vociare di alcune persone che accompagnano il pubblico alla Biblioteca dell’Ateneo Veneto: «la biblioteca interamente dedicata ad Amleto!» come viene esclamato da un attore sulle scale del palazzo. Burocracia. Brazo armado de la política o Maquinaria Idiota di Ricardo Bartís è un’intelligente rilettura del testo shakespeariano, con sviluppo drammaturgico metateatrale. In un continuo slittare tra vita e recitazione, un gruppo di attori si confronta − e scontra − sulle battute dell’Amleto per mostrare le incongruenze esistenti tra il sentire e la pubblica amministrazione. Nel succedersi di sketch colpisce la scena in cui Ofelia ricorda l’uccisione di suo padre «morto lì come un cane, dietro una tenda. E poi tutte quelle carte… », quelle infinite e logoranti pratiche funerarie; o l’anziana che continua a suonare alla porta della biblioteca pur dovendo recarsi in banca, ma lei «è un’attrice e questa burocrazia la uccide».
Nell’incoerenza di successione del percorso tra questo racconto e l’effettiva presentazione delle performance, piace il pensiero di lasciare i lettori in un altro edificio veneziano che ha ospitato l’esito dei laboratori di Jan Lauwers e Rodrigo García: il Conservatorio Benedetto Marcello. Sul palcoscenico della Sala Concerti un performer è seduto al pianoforte a suonare Mozart. Come specchiato, davanti a lui, è disposto un altro pianoforte. Un’attrice con fare ammaliante descrive la scena di The Slow Lie, parla delle splendide pareti circostanti dai colori pastello e presenta i performer che, con movimenti fluidi e armoniosi, si muovono tra le poltrone di velluto rosso per attraversare la platea. Poi c’è Meredith, la cui presenza è nuovamente doppiata: fisicamente seduta in prima fila con le spalle rivolte al pubblico e frontale a questo, grazie alla ripresa di una telecamera che proietta le immagini su uno schermo. Il lavoro di Jan Lauwers è una “lenta menzogna”, non solo per la traduzione letterale del titolo. L’armonia dell’inizio, dichiaratamente artefatta, viene progressivamente disintegrata dall’accrescere di un ritmo interno ai performer che, come in una graduale esplosione di energia, mira allo smascheramento di stereotipi. «Contro l’indifferenza − come si legge nel catalogo − si erge Needcompany»; The Slow Lie è un tentativo, riuscito, di scuotere dall’apatia e dall’indifferenza sempre più dilagante e incondizionata, è una denuncia sull’incapacità di ascolto della contemporaneità.
Attraversando il chiostro interno prima di lasciare il Conservatorio, si incontra il settimo e ultimo peccato: “la solitudine”. Di fughe e isolamenti, di vita e di morte parlano le parole che giungono amplificate nello spazio, testi scritti dagli attori che hanno preso parte al laboratorio di Rodrigo García. Desconocer nuestra propia naturaleza si è sviluppato nel corso della settimana, quando il regista ha lavorato con i performer lungo le strade della città. Riportando il lavoro al Conservatorio, García accetta la possibilità che lo spettatore possa cogliere questo solo come installazione da attraversare ma, data la presenza umana − e scossi dall’indifferenza di cui solo poco prima ha parlato Lauwers, è difficile non occupare lo sgabello vuoto posto di fronte a colui che è intento a giocare al solitario con un mazzo di carte. Identici l’uno all’altro, come dei cloni, i performer siedono singolarmente a dei piccoli tavoli rotondi, sparpagliati per la corte. Trapela una richiesta di aiuto da queste figure nascoste sotto bellissimi costumi-scultura che rimandano alle tuniche del Ku Klux Klan; ma è una richiesta solo apparente, ogni piccolo gesto o ipotesi di incontro viene immediatamente respinto e la figura disturbata dall’incursore torna a chiudersi nuovamente nella propria solitudine.
Visto al 41. Festival Internazionale del Teatro, Venezia
Elena Conti