Recensione a Iancu, un paese vuol dire – Cantieri Teatrali Koreja
Si sposa bene con la città pugliese che ospita il Festival Castel dei Mondi lo spettacolo presentato da Cantieri Teatrali Koreja: il bianco dei mattoni e dei palazzi di Andria, le sue strade strette di ciottoli e il tanto pubblico presente nel cortile del Palazzo Ducale si intrecciano e si ritrovano per alcuni versi nell’immaginario ricreato da Iancu, un paese vuol dire. È come volgere lo sguardo indietro e rivedere facce, situazioni o accadimenti provenienti da un tempo lontano in questo racconto scritto da Francesco Niccolini e Fabrizio Saccomanno: una giornata dell’agosto 1976 riportata dagli occhi innocenti di un bambino, qui metafora di un Paese fatto di tradizioni, di attaccamento religioso, di gente curiosa e grottesca e che riempie di colore quel cielo “iancu” di una cittadina del Sud Italia. «Un paese vuol dire non essere soli» afferma più volte in scena il brillante Fabrizio Saccomano, completamente vestito di bianco e seduto per tutto il tempo dello spettacolo su una sedia. Le peripezie di questo 22 agosto 1976 non vengono solo raccontate attraverso le parole, ma anche dalla viva espressività del protagonista, i cui occhi sembrano davvero curiosi e giocosi come quelli di un bambino mentre il suo corpo segue una gestualità caratteristica dell’entusiasmo infantile che risulta a volte troppo reiterata, enfatica e didascalica. Diretto da Salvatore Tramacere, Saccomano dà prova di grande bravura nel restituire i vari tratti dei personaggi incontrati durante il racconto, come Rosa Parata, una vera e propria “bocca di rosa” che ha salvato la città da «Li Polacchi» offrendo il suo corpo durante la guerra o le zitelle del Paese in gara tra loro per avere maggior visibilità in Chiesa. Sono immersi nel grottesco e ben delineati, ma anche loro, proprio come la gestualità dell’attore, sono eccessivamente calcati e più volte presentati al pubblico. Concorde con il fatto che sia tipico dei bambini ripetere delle caratteristiche che tornano come una cantilena derisoria, Iancu accumula però del materiale che potrebbe essere snellito in alcuni punti per far sì che non cali la tensione al racconto; come la divertente corsa dei ragazzini e di tutta la città dietro al bandito evaso che scende troppo nel dettaglio descrivendo chirurgicamente il percorso in bicicletta. Un percorso che regala comunque un’atmosfera piena di vivacità restituendo in pieno lo spirito di un paese dove, nonostante la crudezza di alcuni personaggi loschi, lo stare assieme trova ancora un senso. In un godibile linguaggio, un dialetto pugliese ben accessibile, Iancu entra a pieno titolo nel teatro di narrazione, dove ci si rivolge a una comunità consegnando dei ricordi significativi per far sì che questi facciano comprendere da dove veniamo e chi eravamo. Per creare una memoria dove tutto questo «iancu del cielo» non faccia «scappare la gente», ma la faccia tornare alla condivisione e al sentirsi parte di una comunità, seppur eccentrica.
Visto al Festival Internazionale di Andria Castel dei Mondi, Andria
Carlotta Tringali
Leggi anche Castel dei Mondi 2011: visioni pittoriche e narrazioni salentine di Andrea Pocosgnich (teatroecritica.net)
Questo contenuto è parte del progetto Situazione Critica
in collaborazione con Teatro e Critica