A due anni dall’ultimo spettacolo, quando ci si aspettava ormai un ritorno alla coralità della compagnia Scena Verticale, ecco debuttare Italianesi. In scena Saverio La Ruina, dopo l’acclamatissimo Dissonorata e il toccante La Borto, un nuovo testo, una nuova sedia, un nuovo personaggio: questa volta un uomo. Negli ultimi sei anni lo abbiamo visto vestire panni di donna, per racconti strazianti – delitti d’onore, stupri, violenze e gravidanze interrotte – che hanno lasciato le platee italiane e straniere con il cuore sospeso e le lacrime agli occhi.
Le storie alla base dei testi di La Ruina sono sempre vere, di persone incontrate realmente, sentite raccontare direttamente dalla bocca di chi le ha vissute. Così è stato anche per Italianesi, una vicenda incrociata per caso guardando la televisione su cui il drammaturgo ha voluto indagare, conoscere, scoprire ogni particolare, fino ad arrivare a portarne in scena una versione personale e in qualche modo universale. Già perché il nostro personaggio non ha un nome. È uno dei tanti figli di italiani – migliaia – rimasti bloccati in Albania con l’avvento della dittatura: costretti a vivere in campi di concentramento senza poter rientrare nel proprio paese per più di quarant’anni e condannati in seguito a essere stranieri in patria. Un sarto, nato in Albania, negli occhi il sogno dell’Italia come unica vera casa insieme alla figura del padre, eroe lontano che ha trovato fortuna e famiglia dall’altra parte del mare. In scena il protagonista racconta e rivive: memoria e ricordo queste sono, forse, le chiavi (anche tecniche) della narrazione di La Ruina, che sembra appoggiarsi proprio sulla memoria fisica dei caratteri che indaga.
Impossibile per uno spettatore che conosca già i suoi lavori non fare paragoni e non mettere in rapporto diretto i precedenti personaggi femminili con quest’ultimo maschile. Il legame strettissimo che unisce il protagonista, la sua gestualità e la tecnica narrativa dell’attore sono così inscindibili che è difficile dire quale elemento sia frutto del lavoro sul personaggio e quale invece sia un espediente tecnico, un’ancora a cui si appoggia l’attore. O per meglio dire: il carattere permea così tanto la narrazione che sembra pressoché impossibile stabilire quale sia “lo stile” dell’autore e quale invece la maschera del personaggio. Con Italianesi però avviene uno scarto: il genere maschile del protagonista permette di riconoscere tratti caratteristici di quello che ora possiamo identificare come lo stile narrativo di La Ruina e che in precedenza avevamo attribuito alle donne delle sue interpretazioni. Qualche traccia, piccoli indizi: una cadenza nella voce, un gesto ricorrente, un uso particolare delle mani, tratti che sono rimasti ed emergono dal nuovo personaggio.
Ma al di là di ogni congettura, lo spettacolo scorre, coinvolge; le musiche dal vivo di Roberto Cherillo e quelle di Gianfranco Longo, si fondono con il racconto portando poesia e sonorità balcaniche. La stessa accuratezza la traspone La Ruina nel linguaggio, passando da una lingua stentata al calabrese, perché il dialetto era l’unico italiano che gli uomini del campo conoscevano, “ché l’italiano vero lo parlano solo i dottori”. L’interpretazione di La Ruina resta ancora tra le più vivide della scena nazionale, mostrando una narrazione che narrazione non è, un teatro attoriale, che attoriale non è, ma sublimando i due a un livello altissimo.
Visto al Teatro India di Roma
Camilla Toso