Recensione a Quattro danze coloniali viste da vicino – MK
Non è la prima volta che Michele Di Stefano ed MK si insinuano fra le pieghe del viaggio, ma Quattro danze coloniali viste da vicino, più dei lavori precedenti sembra volerne assumerne manifestamente la prospettiva come innesco ed esito della creazione coreografica. Anche qui un’inchiesta irriducibile sulla distanza, sulla negoziazione dell’identità, sull’ibridazione della presenza attraverso la maggiore o minore prossimità fra i corpi in scena e gli ambienti che li ospitano; così come ritornano le possibilità di un processo coreografico che sembra voler utilizzare la danza in tutta la sua potenza demistificatrice e sovversiva – tratto per cui la compagnia si è distinta, con una dimensione assolutamente originale dedicata alla sottigliezza dell’ironia, nel panorama performativo contemporaneo. Questo nuovo progetto sottolinea, fin dalla presentazione, il debito col tema del viaggio: creazione collaterale del più ampio Giro del mondo in 80 giorni, supera il richiamo a Jules Verne per accogliere in scena le declinazioni del viaggiatore contemporaneo, radicato com’è fra le nuove frontiere del turismo, attuale conferma della logica colonialista a cui l’Occidente non sembra oggi rinunciare e che ricompare, sotto mutate spoglie, come tratto distintivo fin dalla fondazione dei suoi poteri. Estrema accessibilità e senso di invalicabile lontananza sembrano essere, oggi come ieri, le polarità entro cui il corpo umano agisce in rapporto con l’altro e con l’ambiente. Le persistenze dello sguardo sull’alterità, fra allontanamento della diversità e inevitabile contaminazione reciproca, sono al centro di questo nuovo progetto – e, dice MK, si trovano anche nella sostanza del corpo scenico, sospeso fra l’attualità della presenza e la certezza di un altrove imminente.
Quattro danze coloniali viste da vicino, «pura interpretazione coreografica del viaggio», è una presentazione dei materiali incontrati ed accumulati dalla compagnia durante il percorso di sviluppo dello spettacolo che porta il nome del romanzo di Verne, un progetto che assume l’apertura della creazione come elemento costitutivo in senso estetico e politico: creato e interpretato da un collettivo mobile – che coinvolge, con MK, ogni volta diversi performer e artisti – dà luogo a formati scenici flessibili, che possono cambiare ad ogni replica secondo la disponibilità dei protagonisti e le necessità dello spazio in cui ha luogo. Al Festival Inequilibrio di Castiglioncello l’inchiesta sull’esotismo (o quel che ne resta al giorno d’oggi) si impone per gradi e intermittenze su un palcoscenico nudo, per azioni e movimenti decisamente decontestualizzati: non c’è deserto né jungla né animali, se non in certi momenti del raffinato soundscape creato da Lorenzo Bianchi, per lasciar vedere veramente da vicino quelle danze incontrate in ambienti più decisivi nel Giro del mondo. A un primo assolo neutrale, in cui l’alterità è accennata solo nella dimensione sonora, fa seguito un terzetto vagamente più connotato nell’abbigliamento e nei movimenti per lasciar progressivamente spazio a dettagli sempre più legati al tema, fino a che il centro della scena è guadagnato da un danzatore in (quasi) perfetto mood safari, con tanto di cappello e vocazione dominante d’ordinanza. Il viaggio in un ovunque qualunque, l’univocità delle sue prospettive e dei suoi gesti, così come sono posti dal turismo contemporaneo vengono infine sfilacciati dalla fragilità dischiusa da decine di palline da golf in movimento, fra cui tutti e tre i danzatori si trovano a destreggiarsi. L’esclusività dei movimenti danzati da Philippe Barbut nella prima scena, nero su nero, si sfalda già al secondo passaggio, in cui la triade di performer, pur tentando un’univocità decisa, avanza d’assoli e d’insieme; l’interrogazione della distanza reciproca si concretizza poi con il passo a due in cui Biagio Caravano guida direttamente i passi di Laura Scapini, per esprimere le proprie potenzialità in un continuo contrappunto coreografico fra identità sempre più specificizzata e ibridazione reciproca. Basterebbe concentrarsi sulle giunture, punto nevralgico anche per altre creazioni di MK per notare come la contaminazione del movimento e le sue resistenze diano vita a composizioni di grande impatto. Ma è decisamente esemplare il successivo passo a due, fra Barbut e Caravano: il primo compone passi articolati e incalzanti dietro all’altro, impassibile esploratore a centro scena in tutta la monumentalità della retorica colonialista. La demistificazione della distanza si mostra per balzi successivi, con segni coreografici netti e grande precisione di movimento, dando luogo a una concreta creolizzazione della presenza dei danzatori, della loro gestualità e del loro modo di abitare lo spazio. E, in quell’ultimo confronto fra identità incommensurabili, fra compulsione e stasi, la danza diventa alternativa e interferenza alla retorica colonialista; certo è destinata a soccombere, e più volte, ma per tutte quelle in cui “l’esploratore” domina l’arrendevolezza del “selvaggio” (schiacciando con un piede la propria conquista), l’arte si riserva di sbuffarlo di tanta vaporosissima farina bianca, in barba alle sue pose e ai suoi poteri, alla sua unicità e definizione.
Phileas Phogg è il primo protagonista del turismo modernamente inteso, ideato in un’epoca in cui l’accelerazione tecnologica poteva permettere all’uomo di circumnavigare il globo in soli (!) 80 giorni. In un mondo in cui la specificità della destinazione rischia di essere annullata dall’onnipresenza dell’Ovunque, dalla coincidenza degli schemi, delle textures e (naturalmente) dell’espressività gestuale che si rincorrono – tanto per richiamare qualche destinazione del romanzo – da Shangai a New York, così come a Suez o Bombay, MK non si limita a registrare l’esistente, ma, pur operandone una catalogazione minimal tanto divertente quanto intelligente, pone l’istanza coreografica al centro del lavoro in tutto il proprio potere sovversivo. Il susseguirsi di tipologie note di viaggiatori più o meno romanzeschi, reali o contemporanei è affrontato attraverso l’affascinante poetica della compagnia celebre nella prospettiva nella non-danza: tutt’altro che concettuale (o peggio ancora post-), il gruppo si riconferma capace di realizzare creazioni che azzardano a strizzare l’occhio a dada, com’è raro che accada oggi sui palcoscenici italiani e non, e dunque sviluppare un’originale percorso che si avvicina a una sorta di pre-concettuale, in una ricerca che sceglie il movimento per un’instancabile indagine sulla condizione umana, espressa attraverso una continua opera di catalogazione e demistificazione di immagini archetipicamente pop. In particolare, in Quattro danze coloniali viste da vicino, il figurale incessantemente re-invocato dalla danza, la sua ambiguità caratterizzante fra attuale e previsionale diventa infine un’occasione per una rinnovata coscienza sulla prospettiva coloniale, storica o contemporanea che sia, immersa com’è nel minaccioso prato vibrante di palline da golf del finale dello spettacolo.
Visto a Festival Inequilibrio, Castiglioncello
Roberta Ferraresi