Due serate forse non bastano per avere una visione completa di che cosa offre il Festival romano di Short Theatre diretto da Fabrizio Arcuri; come suggerisce il sottotitolo della rassegna iniziata il 5 settembre “se non vedi non credi”, si è sbirciato e pochi giorni sono bastati per “credere” e capire che aria si respira al Teatro India.
Dopo i primi giorni passati negli spazi del Macro Testaccio, gli appassionati di teatro, operatori, artisti, studiosi e critici si sono trasferiti al Teatro India, un luogo fuori dal caos della capitale, rilegato a una zona di confine dove uno skyline periferico e affascinante bene introduce nell’ambiente di Short Theatre. Arrivato alla sua sesta edizione, questo Festival è dedicato da Arcuri “a quelle generazioni che sono nate e cresciute nella speranza che qualcosa accadesse, immerse in un presente che sempre rimanda la soluzione di sé, condannate all’eterna giovinezza da un sistema sordo e muto”; esse mostrano qui il proprio lavoro, in uno dei posti più noti della Roma teatrale come il Teatro India che sembra racchiudere per la sua collocazione la condizione di queste compagnie, condannate a rimanere fuori dal centro, in un significativo margine.
In questi due giorni colpiscono alcuni spettacoli che si muovono nell’ambito della danza come Passo di Ambra Senatore (leggi la recensione), una coreografia per cinque danzatori al limite tra reale e surreale, con continui slittamenti intelligenti e ironici; la performance della compagnia anglo-ispanica Sleepwalk collective e, per l’ambito di teatro di parola, Corsia degli incurabili di Patrizia Valduga, interpretato da Federica Fracassi e diretto da Walter Malosti.
Curioso lo spettacolo di Sleepwalk Collective As the flames rose we danced to the sirens, the sirens, che rientra nella sezione del progetto europeo IYME – International Young Makers Exchange, un network di festival europei di teatro e danza sostenitori del lavoro di giovani artisti. Rielaborando i cliché della cultura pop e dei B-movies, la performer Iara Solano Arana si rivolge agli spettatori in modo ammiccante e ironico, muovendosi al limite tra il patetico e il derisorio, determinando le regole di realtà e finzione che rendono possibile il teatro come anche il cinema, chiedendo di credere alle sue lacrime o alle sue risate. Con una parrucca bionda in testa – simbolo obbligato di bellezza secondo il vecchio stile cinematografico – interpreta le varie modalità di bere un bicchiere di vino: con sguardo ammiccante se le intenzioni sono di portare a letto una donna, con occhi persi nel vuoto, con fare innamorato e via così, utilizzando le stesse espressioni che spesso si sono incontrate nei film in bianco e nero. Come fosse la protagonista di una di quelle pellicole, qui la donna è sola e alla disperata ricerca di un’immagine “in cui cadere” – come dice durante lo spettacolo –, o forse in cui ritornare, come se ne fosse uscita e impossibilitata a farvi rientro; dalla regia Samuel Metcalfe proietta un’immagine alle sue spalle che appare poi sul vestito di Iara: è quella di un uomo che teneramente abbraccia la sua amata, l’affetto di cui è alla ricerca la performer.
Il pubblico si lascia cadere con lei in questa immagine e, come richiesto inizialmente, la crede o forse no: rimangono vari dubbi sulle sue intenzioni ironiche o reali, sulla sua richiesta di aiuto, di essere amata e il volere un amore che la uccide; ecco che in ogni caso, nella sospensione di pensiero, qualcosa è accaduto intrigando e affascinando gli spettatori.
Di tutt’altro genere è Corsia degli incurabili, un atto unico messo in scena dal regista Walter Malosti. Aleggia perennemente un’atmosfera angosciante e claustrofobica in questo testo scritto dalla poetessa Patrizia Valduga e interpretato da una viscerale Federica Fracassi: una donna seduta su una sedia a rotelle urla il suo dolore, il suo sdegno verso una società coperta di ridicolo, dove neanche la morte ha più una dignità. Nell’affrontare i suoi ultimi attimi di vita, la Fracassi dà voce a sproloqui di cruda verità, in una lingua che mescola un registro alto con quello becero e basso diffuso dalla televisione, non risparmiando nessuno nei suoi attacchi dal Presidente del Consiglio ai poeti che preferiscono soffrire per essere ispirati, proprio come Leopardi. Spigoloso in alcuni punti, il monologo offre vari spunti di riflessione sul nostro oggi e riesce ad aumentare ancor più di intensità grazie a una regia perfetta, semplice e allo stesso tempo barocca; Malosti crea un tappeto sonoro – utilizzando diversi compositori tra cui Beethoven, Uri Caine, Chris Watson, Wagner, Strauss ma anche Romitelli o CCCP – e degli effetti luce che danno voce e profondità alle pause e ai silenzi del testo, inveiscono quando la donna grida parole d’accusa, sussurrano mentre la Fracassi cerca la quiete. Corsia degli incurabili diventa in questa messinscena un monologo a più voci, pieno di sfumature di altissimo livello, e un lavoro di perfezione, emozionante.
Visto a Short Theatre 2011, Roma
Carlotta Tringali