Recensione a Canto trasfigurato di Moby Dick e d’altri mostri che ho amato – di TeatrInGestAzione
Si scivola dolcemente dentro una profondità d’entità sconosciuta quando lo spettacolo ha inizio: la luce della sala illumina per qualche minuto la scena di Canto trasfigurato di Moby Dick e d’altri mostri che ho amato, mentre il pubblico prende posto. Lentamente le luci calano e il respiro si sincronizza su sonorità che sembrano provenire da una dimensione non visibile, mentre Giovanni Trono – anche regista dello spettacolo con Anna Gesualdi – cammina in circolo, mormorando suoni di cui si ode solo un sussurro lieve. Lo sguardo segue il ritmo costante di quei passi, lasciandosi trascinare in un universo dalla pallida luce verde. In quel palco nudo, si consuma un’ipnosi che condurrà al buio, in un mantra di luci e suoni.
Con Canto trasfigurato, TeatrInGestAzione – formazione nata nel 2003 e che si è distinta per il suo lavoro all’interno dell’ospedale psichiatrico di Aversa e per aver ideato la formula dell’Altofest a Napoli – ripercorre le vicende dell’equipaggio del capitano Achab del celebre Moby Dick di Melville, in un viaggio teso alla scoperta delle profondità delle emozioni umane. Un Ulisse moderno abita la scena, raccontando delle peripezie del gruppo che per anni ha dato la caccia alla balena che è diventata sinonimo allo stesso tempo di ossessione, amore e odio. E sono queste emozioni che vengono narrate e restituite da un magistrale Giovanni Trono, che da solo occupa la scena per tutta la durata dello spettacolo. L’itinerare dei personaggi che vengono fatti riaffiorare come da un inconscio profondo si traduce in un pellegrinaggio di sole parole e musiche. Il corpo dell’interprete assume i tratti di un medium o di uno sciamano che si serve di lunghe pause e silenzi per scuotere e far riecheggiare i propri ricordi, facendoli rimbalzare nella punteggiatura del testo. Unica protagonista la parola, accompagnata da un dolce ondeggiare, un gesto semplice che avvolge come i movimenti del mare stesso che – seppur assente – condivide il palco con il performer, insinuando una sensazione di equilibrio instabile nel pubblico. A tratti, sembra di assistere al delirio di un folle in grado di visualizzare nella propria mente un mondo preciso e puntuale (forse non a caso, considerato che lo spettacolo è dedicato a Seiano, detenuto del Manicomio Criminale di Aversa, massacrato a morte da compagni). Ed è questa componente di visionaria invisibilità a costituire il fulcro più interessante, che tuttavia si ritorce sul risultato scenico: nonostante l’abilità recitativa di Trono, il testo prevale con prepotenza sulle altre componenti della scena, lasciando dei vuoti che nemmeno la colonna sonora è in grado di colmare e trasformando lo spettacolo in un radiodramma da guardare. Gli itinerari drammaturgici curati da Loretta Mesiti ben restituiscono il senso della ricerca del gruppo, eppure i demoni portati alla luce dal testo e le contrastanti emozioni di cui è capace l’uomo si stemperano in una durata forse eccessiva, che potrebbe ubriacare lo spettatore facendolo perdere in un mare di parole.
La puntualità d’analisi dell’essere umano e la sua abilità di assumere forme mostruose vengono tuttavia richiamate con dirompente forza nel finale dello spettacolo, quando il corpo in scena si prodiga in un assolo di puro gesto: un momento di inquietante emotività in grado di risvegliare lo spettatore dal torbido abbraccio delle parole, facendolo precipitare nuovamente in un oceano di suono che avvolge i contorni di una figura di cui è difficile riconoscere l’umanità. È nelle pieghe di questa carne che è infatti possibile rileggere l’intera vicenda narrata precedentemente: l’espressività del corpo di Trono cattura il pubblico con un ultimo affondo in quella profondità in cui si era scivolati al principio, trascinandolo in un’oscurità che per tutto lo spettacolo non ha mai abbandonato la scena.
Visto al Teatro delle Maddalene, Padova
Giulia Tirelli