Recensione a De anima – regia, scenografia di Virgilio Sieni
Trae ispirazione dal De Anima di Aristotele il nuovo lavoro che Virgilio Sieni ha messo in scena alla Biennale della danza di Venezia. Un titolo impegnativo, dedicato a quella parte dell’essere umano che è origine del movimento perché sempre in tensione verso qualcosa. Cosa sarebbero i corpi senza anima? Burattini mossi da fili, vuoti non comunicanti emozioni.
Qui le anime di sei splendidi ballerini incontrano quella del regista Sieni che torna a creare una coreografia per una compagnia eccezionale, dopo le ultime esperienze dedicate all’Accademia del Gesto e al coinvolgimento in toccanti spettacoli fatti da non danzatori (rimandiamo per esempio a Cinque nonne).
Ha i toni delicati dei Tiepolo il fondale, una tenda che assume sfumature dal sapore antico e da cui escono Arlecchini che richiamano i quadri picassiani: personaggi privi di maschere o completamente oscurati da veli neri, parti complementari di esseri fatti di corpo e spirito, di razionalità e grovigli istintivi. Corrono e scherzano, si fermano e osservano, si prendono in giro e si innalzano; creano vortici emozionanti che alternano disequilibri e giocosità, malinconie e ironia.
Le musiche di Bach, che accompagnano tutto il “pittoresco tragico con ombra” – appellativo che il critico Stefano Tomassini ha utilizzato per descrivere lo spettacolo nel foglio di sala – addolciscono le coreografie sublimi che partono da pose di quadri secenteschi per poi affrontare varie sfaccettature del lato umano. Anche le sue stesse ombre. Ne mostrano la fragilità, il disequilibrio, il bisogno di sostegno: i corpi fanno fatica a sorreggersi, si aggrappano e cadono, per poi correre in una disarticolazione data da gesti di quotidianità ed eccezionalità. De anima è saturo di un concettualismo filosofico che cerca la sua trasposizione nella danza, la trova e allo stesso tempo la carica di una malinconica leggerezza data da corpi che non riescono a portare a termine il loro dialogo, né con gli altri né con se stessi. Si interrompono, escono di scena attraverso la tenda-soglia, per poi tornare e di nuovo tentare di dar forma ad altro. Nella loro solitudine gli Arlecchini sono seguiti da figure nere dal volto velato che ne copiano i movimenti, raddoppiandoli. Ma anche questi esseri scuri abbandonano ciò che gli stessi ballerini abortiscono sulla scena. L’ombra si ricongiunge all’uomo in un abbraccio, creando un momento di magica sospensione, proprio come nei momenti in cui le note di Bach lasciano posto a un cupo silenzio e gli occhi di un danzatore fissano la platea raggelandola. E tutto ricomincia, ma partendo da un’altra emozione, sensazione del corpo e dell’anima, da un’altra sfumatura.
Una volta entrati dentro il meccanismo dei quadri che si avvicendano, non vi è più lo stupore iniziale che corre sulla sottile soglia tra ironia e malinconia; ma Sieni è abile a interrompere la reiterazione con composizioni che non ci si aspetterebbe, come i canti sardi e il divertimento provocato dai balli – ovviamente rielaborati – che ricordano i colori di quella terra. Un altro straniamento è messo in scena alla fine quando a Bach subentrano i Rolling Stones, completamente decontestualizzati ma forse proprio per questo dotati di un fascino particolare; gli uomini si trasformano in manichini da posizionare, privi di quell’anima che prima sono andati ad indagare.
Tra quadri che si susseguono e si alternano in un gioco di dialoghi che si ripetono, tra entrate e uscite frettolose dalla tenda-soglia, ciò che riempie il cuore in primis è l’aver visto danzare, in una coreografia densa e impeccabile, una compagnia composta da sei ballerini magnifici, tutti da nominare: Ramona Caia, Giulia Mureddu, Jari Boldrini, Nicola Cisternino, Andrea Rampazzo e Davide Valrosso.
Visto al Teatro Piccolo Arsenale, Venezia
Carlotta Tringali