Recensione a La Commedia – Compagnia Emio Greco | PC e Pieter Scholten
È una scena aperta, nuda e sincera quella che accoglie il pubblico al Teatro Verdi per La Commedia dell’olandese Compagnia Emio Greco | PC, ensemble guidato dal coreografo italiano – emigrato all’estero – Emio Greco e dal regista olandese Pieter Scholten. Prospettiva Danza Teatro porta a Padova uno dei più prestigiosi nomi della danza internazionale, con un lavoro che ha debuttato presso l’Hangar Bicocca di Milano nel giugno 2011, all’ombra delle maestose torri realizzate da Anselm Kiefer per la sua opera I sette palazzi celesti, divenute per l’occasione teatro di un viaggio che accompagna il pubblico tra i mondi della Divina Commedia dantesca. Emio Greco e Scholten già avevano attraversato i gironi, la montagna e i cieli dell’aldilà che Dante descrive nel suo capolavoro: dopo Hell, il dittico dedicato al Purgatorio e you para/diso i due ripercorrono in un’unica opera uno dei viaggi più celebri al mondo, reinterpretandolo attraverso un immaginario del tutto inedito anche per la compagnia stessa, che si abbandona in questi tempi di crisi a un lato comico poco esplorato nelle loro opere precedenti. Una comicità dai risvolti grotteschi, capace di strappare sorrisi e risate tinte di nero, dischiudendo le porte di un’oscurità che permea il nostro quotidiano. Ed è con l’avanzare di una nuvola di fumo e di un’ombra nell’oscurità che lo spettatore varca la soglia di una porta di luce, sottosopra come lo scenario che si andrà a esplorare.
Greco e Scholten disegnano un tendone circense, definendo sin dall’inizio – attraverso la voce del presentatore Jesus – le coordinate del viaggio, rimarcate per tutto lo spettacolo: si attraverserà l’aldilà scortati da sette personaggi, incarnanti ciascuno un vizio, una virtù e un giorno della settimana. Un procedere scandito, preciso e rigoroso, che rivela la sua potenza nella capacità di far smarrire lo spettatore nei movimenti di corpi che trascinano lentamente nell’oblio di un universo indistinto. L’errare dantesco si muove infatti dal lunedì alla domenica in due momenti distinti, separati da un «intermedio musical» eseguito dai performer stessi: imbracciando chitarre elettriche all’ombra di un albero spoglio, le allegorie preparano il pubblico all’incombente paradiso del fine settimana. Una struttura ferrea quindi, all’interno della quale Greco e Scholten incastonano urti e frizioni che innestano il procedere dello spettacolo, servendosi della molteplicità di figure retoriche di cui è costellata la Divina Commedia. Il corpo, nella sua potenza dinamica, diviene strumento per attrarre e allontanare, restituendo il movimento di una società che se da una parte spinge all’omologazione, dall’altra inneggia al controllo e all’isolamento: all’interno di un campo magnetico che ricorda la struttura dei canti dell’Alighieri, i danzatori divengono marionette nelle mani di un motore invisibile, che a volte concede spazi di libertà, altre richiama violentemente all’ordine. Parola e corpo si fanno nella Commedia cifre di un mondo alla deriva, i cui attriti costringono lo spettatore a oltrepassare il proprio sguardo per ripensare il senso del gesto e dell’apparire in una realtà costruita su ammiccamenti mediatici e manovre celate. Ingarbugliati tra l’ondeggiare dei corpi in scena, Greco e Scholten giocano con il completamento automatico dei pensieri dello spettatore, scardinando di volta in volta le associazioni suggerite dai quadri scenici. Complice di questa destrutturazione continua, un utilizzo della musica capace di insinuarsi tra le fratture suggerite dalla partitura coreografica, forzandone il significato apparente. Le chiavi di interpretazione evocate si affievoliscono sino a svanire, facendo precipitare lo spettatore in un universo dai confini instabili e poco rassicuranti.
La forza della Commedia – oltre che nella coreografia energica, a tratti dolorosa – risiede proprio nell’orchestrazione dei conflitti che si vengono a creare intrinsecamente a ogni frammento della rappresentazione, in un delicato equilibrio che si frantuma costantemente grazie alla forza d’urto che sanno sprigionare i danzatori: divisi tra il loro dualismo di vizi e virtù, Greco e Scholten plasmano un aldilà che perde – in parte – le connotazioni dantesche per ritrovare la concretezza della realtà generata dal peccato originale. Il viaggio di Dante – con il quale il pubblico è chiamato sin dall’inizio a immedesimarsi – si conclude con un amaro ritorno al punto di partenza. Quello che era stato venduto dal presentatore come un viaggio nel regno dei morti si trasforma così nel pellegrinare quotidiano e ordinario di ciascuno, visto con gli occhi di due grandi maestri della scena che sembrano dichiarare – in questi tempi di crisi – che non esistono inferni, paradisi o redenzioni, ma solo grandi giudizi universali.
Visto al Teatro Verdi, Padova
Giulia Tirelli