Recensione a Garbatella – viaggio nella Roma di Pier Paolo Pasolini – di e con Julia Borretti e Titta Ceccano (Matutateatro)
Diciamocela tutta: il teatro di narrazione ha stancato. Ce n’è troppo. Ce n’è troppo in giro di pessimo.
Perché costa poco e allora si vende. Perché va di moda e allora è trendy. Perché va di moda perché costa poco. A meno che non ti chiami Saverio La Ruina, o Roberto Latini, o Marco Paolini, o Giuseppe Battiston, o Danio Manfredini o Marta Cuscunà (pazienza per gli esclusi), un one man show senza determinati attributi in scena (concessa la metafora) non si regge.
Si potrebbe aggiungere qualche altro all’elenco. Una promessa. O qualcosa in più. Il suo nome è Titta. Titta Ceccano. No, non è una donna, anzi. È un omone di quasi due metri che a vederlo fuori dal palco fa paura, a prima vista, poi quasi tenerezza. Per i suoi occhialetti a fondo di bottiglia e quell’aria vaga, da buono, da uno “de core”, direbbero dalle sue parti. Ma sul palco diventa un padrone. Padrone del pubblico, dell’attenzione, della sua tecnica e della sua recitazione. Non traspare un cenno d’incertezza, di insicurezza, di tentennamento. Solo qualche goccia di sudore, tradisce. Ma potrebbe essere anche la luce dei piazzati sparata in faccia…
La fortuna di Titta è (anche) un’altra. Avere al suo fianco un’attrice (e regista) come Julia Borretti. Non è inglese, non lasciatevi ingannare dal nome. È di Sezze, in provincia di Latina. La sua potenza in scena è fuori dall’ordinario. Per strada, la sua delicatezza – questa sì, british – sul suo faccione da pantomima ispira quasi a seguirla, a sentire cosa ha da dire. Sulla scena diventa quello che vuole. E disegna le scene in modo netto, pulito, mai banale, senza edulcorare. Quel tanto che basta a renderle efficaci, insinuanti.
Garbatella è uno spettacolo di teatro di narrazione. E non stanca. Il narratore – la penna – è un certo Pasolini. Da Una vita violenta. Titta e Julia si fanno carne di un verbo ultraterreno (se non altro per ragioni di dipartita). E non ne incarnano il nichilismo, il senso del beffardo sciorinato dal realismo borgataro, le sconfitte dell’uomo di ogni estrazione, la melanconia tracciata nei personaggi e negli atti. Avrebbero potuto esserne esecutori, ci sono testi che stanno in piedi pure se abbaiati. Se ne fanno invece pittori – passatemi il termine –, come gli impressionisti che aggiungono luce a paesaggi visuali di per sé catartici. Azionando i riflettori sull’ironia pasoliniana, quell’humour grottesco, involontario. Dato dalle cose, dai fatti, così come sono. Si fanno voce e corpo, gli attori, non semplicemente come mezzo, ma come disegno aggiunto, l’impronta dell’artista su qualcosa di immortale.
Un trio di sedie da cinema pulcioso di quartiere domina la scena senza altra aggiunta scenografica. In quello spazio, seminudo, come la parola del poeta, Ceccano e Borretti ritmano una dialettica fitta, struggente, evocativa. Ricamata da una costruzione gestuale essenziale, simmetrica, significativa. Al punto che ci si immagina la storia, d’amore, quella di Tommasino e Irene – che nel romanzo non assume centralità narrativa – come se la si vedesse con tutte le ambientazioni, i personaggi, le connotazioni sociali, la bellezza di una Roma spogliata, vecchia, cenciosa. Una prova attoriale al servizio della narrazione. Che tramanda, rintraccia memorie. E il disegno delle borgate, tramite l’evocazione e la caratterizzazione fisiognomica, mimica, vocale dei protagonisti, traspare come una dimensione palpabile. Grazie inoltre alla musicalità della chitarra di Roberto Caetani, a mo’ di stornelli, con quel senso di picaresco tipico di una certa romanità.
Le cifre registiche, puntellate appena, mostrano un certo intendersi di fatti di teatro. Con tempi giusti di focalizzazione delle parti, simmetrie e trovate minimali di intromissione materica, entrate e uscite (di respiro drammaturgico o fisiche) funzionanti, simmetrie ottimali. Ricorderebbero le meccaniche della Dante, a trovare parallelismi, segno di un’impostazione volta allo scrollarsi tutte le inquietudini del rigore formale, delle dottrine impartite. Un metronomo che scandisce la partitura dialettica.
Il linguaggio espressivo, che formalizza la manifestazione dell’urgenza artistica, senza trucchi o effetti speciali, rintraccia una speculazione dello spazio e dell’ascolto dettata dall’accortezza e dalla cura all’efficacia. Il risultato è leggero e toccante. Commistione di tecnica e autenticità. Verticalizzazioni in platea ed entusiasmi facili.
Happy end.
Visto al Festival Teatropia, Siena
Emilio Nigro