Variazioni. Incidenti. Distrazioni. Teorie sul tema della perdita. Hanno attraversato le sale, i bagni, il foyer del Teatro India dal 3 al 21 dicembre con Perdutamente. Spettacoli in fase embrionale, che forse saranno partoriti o forse saranno abortiti, studi in via di definizione, con gestualità represse e parole inespresse. Sono imperfetti, instabili, irripetibili. “Impresentabili”, li chiama Lucia Calamaro, che questi spazi li ha abitati da drammaturga, regista, attrice. Eppure queste performance, queste installazioni, questi ritratti sono stati presentati. Ai compagni di avventura, innanzitutto: artisti, compagnie che hanno preso parte al progetto del Teatro di Roma. E agli spettatori e agli addetti ai lavori, che incuriositi si sono addentrati in un cantiere aperto, privo di segnali direzionali; hanno percorso un sentiero accidentato, una strada a volte già solcata, altre inesplorata. Difficile avere una visione d’insieme, per la diversità delle domande, per la difficoltà nelle risposte. Più semplice raccontare le emozioni, palesare le perplessità, senza nessuna volontà di cronaca, perché non si vuole rendere conto di tutto ciò che è accaduto, senza nessun ordine cronologico, perché non si sono viste tutte le performance e vissute tutte le serate, ma seguendo soltanto l’onda delle proprie sensazioni e il flusso dei propri pensieri.
I Bagni Rossi, installazione da toilette ideata dal Teatro delle Apparizioni, sembrano chiamarci in causa, domandandoci a grandi lettere, mentre guardiamo la nostra immagine riflessa nello specchio, cosa abbiamo perso. Ma la partecipazione è illusoria, è fugace, non siamo elementi dell’ingranaggio, a meno che non siamo noi a sceglierlo. C’è un’atipica agenzia di viaggio, ci si può prenotare per un breve tour teatrale, da vivere non da guardare. Un itinerario per inesperti danzatori, affiancati da artisti già rodati che insegnano i passi e guidano il movimento. Riusciamo a vedere ciò che Michele Di Stefano ci spinge a osservare: non il corpo, ma lo spazio che lo avvolge, non l’incontro, ma la distanza che c’è tra una silhouette e l’altra. Quelli ideati da MK sono ambienti coreografici, riuniti a comporre un Clima breve, intenso, coinvolgente, con la musica degli Archive che accompagna la danza di gruppo e quella solitaria, che scema quando l’ultimo danzatore lascia il palco, in penombra, senza clamore. Gli occasionali viaggiatori della scena non escono a prendere gli applausi, non cercano il calore del pubblico, il loro è solo un passaggio. Non sono residenti ma ospiti anche i 1000 partecipanti all’installazione Art you lost? che ha chiuso quest’avventura romana. Denunciano la propria presenza scrivendo il nome su lunghi teli bianchi, srotolati sulla facciata dell’India. Raccontano episodi della propria esistenza segnando su una grande mappa di Roma i punti in cui hanno perso o trovato qualcosa, incontrato o lasciato qualcuno. Chiudono frammenti di vita in scatole di cartone e affidano il significato della scelta a fogli di carta, appesi casualmente sulle pareti. Impossibile associare i volti, che scorrono nel buio del foyer, ai nomi, agli oggetti, alle parole. Art you lost? è un puzzle da non ricomporre.
Stare seduti, protetti dal proprio posto in platea, divisi dalla rassicurante quarta parete, non esonera da sconvolgimenti, da coinvolgimenti, da divertimenti. E così quando Andrea Cosentino snocciola parole che sembrano buttate lì, scritte senza troppi pensieri, dette quasi senza importanza (perché non è capace di fare pause, dice lui) ridiamo sì, per quel modo di raccontare ironico e scanzonato, per quella capacità di non prendersi troppo sul serio. Ma la sua riflessione sulla performing art, che chiama in causa Marina Abramovic con una serie di esilaranti video, non è solo divertente, è anche pungente. Non qui non ora si interroga sulla verità, sulla finzione, sulla rappresentazione, sull’arte, vissuta sulla propria pelle, fruita in un museo o vista in teatro.
Quando Lucia Calamaro, Lisa Ferlazzo Natoli e Tony Clifton Circus si siedono intorno a un tavolo con una serie di fogli, capiamo di essere di fronte a un flusso di parole. Ha gravidanze lunghe la drammaturga romana, lo dice lei stessa, e il nuovo spettacolo sarà partorito nel 2014. Il Diario del tempo visto all’India è un ‘impresentabile’, ma non possiamo che restarne affascinati. Per quell’attrazione e repulsione per il palcoscenico, per quelle presenze surreali, per quelle riflessioni filosofiche, per quelle considerazioni artistiche, per quei tentativi di “rammendarsi l’essere”, per quello scontrarsi, sfiorarsi, toccarsi del dentro e del fuori.
Quando Daria Deflorian, Monica Piseddu e Antonio Tagliarini entrano in scena a raccontare la frustrazione, a condividere la rassegnazione, a vomitare la rabbia, siamo colpiti, scossi, strattonati. Perché la storia delle quattro pensionate greche che scelgono il suicidio come conclusione delle loro esistenze svuotate, svilite, annientate, parla della società, della crisi, del lavoro. Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni ruba l’incipit a un romanzo di Petro Markaris ma parla di ognuno di noi, noi che non abbiamo volto, nome; noi che siamo persi in una realtà ‘più nera del nero’.
E così quando abbandoniamo la poltroncina per chiuderci nel buio di Eco, installazione di Vincenzo Schino, possiamo specchiarci in una pozza d’acqua senza riconoscerci, possiamo guardare la danza di un esile scheletro e sentirci liberi, leggeri, possiamo spiare dal buco della serratura per scoprire il volto del burattinaio oppure farci attraversare dalle emozioni, perdutamente.
Visto al Teatro India, tra il 3 e il 21 dicembre 2012, Roma
Rossella Porcheddu