Recensione a L’Inatteso – di Fabrice Melquiot, diretto e interpretato da Anna Amadori
Elena Di Gioia e Anna Amadori, con il loro “Focus Melquiot“, si sono prodigate in una bella impresa: presentare, in varie sedi della scena bolognese e non solo (l’Alliance Française, il Cassero, lo spazio Nosadella.due, il Teatro Pubblico di Casalecchio, l’aula magna del Dipartimento di Interpretazione e Traduzione della sede dell’Unibo a Forlì), un ciclo di incontri sulla complessa drammaturgia multi-piano, infantile e tragica di Fabrice Melquiot, attuale Direttore del Théâtre Am Stram Gram di Ginevra, attore, autore e regista francese. Già nel giugno dello scorso anno l’autore era stato ospitato a Bologna durante il capitolo felsineo della rassegna Face à Face, ancora una volta a cura di Elena Di Gioia. L’evocativo deposito della carta Cbrc aveva ospitato una prima versione de L’Inatteso, ripreso, quest’anno, sul palcoscenico del Teatro Pubblico di Casalecchio.
È complesso, ma affascinante, affrontare uno spettacolo già visto e recensito nella sua prima versione e scoprirlo, nelle parole e nei pensieri, diverso, perché diversi sono gli aspetti ai quali si è prestato attenzione, la propria predisposizione, alcune delle scelte compiute dagli artisti, l’articolazione dello spazio che lo ospita.
L’Inatteso è un sentiero: sul palco, cinque bottiglie, cinque sfumature di colore e cinque tappe dell’elaborazione di un lutto.
Blu di Prussia – Liane entra in scena, al buio, vestito bianco e una canzone. Guido Sodo, musicista, imbraccia lo strumento e si prepara a ricoprire quello che sarà il suo ruolo durante tutto lo spettacolo: l’altro di Anna Amadori, la sua voce in musica, non una semplice atmosfera, ma il ritmo dei suoi battiti. La protagonista ci racconta il dolore per la perdita del marito, ferma, nella sede della prima stazione del suo percorso. Prende la prima bottiglia – permane l’elemento del flacon, presente nel testo e reso scenicamente da Eva Geatti, già forte, nella versione alla Cartiera –, la usa come una stoffa, se ne circonda, rimanendo ancorata a terra, eppure in bilico in un equilibrio disarticolato.
Rosso Saturno – Liane si spalma su un panno scricchiolante in proscenio e racconta il suo amore passionale, si contorce e piange mentre il suo musicista alter-ego incalza. Un accenno a una guerra, uno all’arte di Liane di fare e disfare amache, come la vedova-ragno che si sente ma non vuole essere.
Verde bottiglia – la maternità che Liane non avrà mai e che ora desidererebbe. Al centro del palco, la sua stazione verde, una bottiglia e una corda con appesi ritagli di bambini – c’era dell’altro, nella prima versione, oggetti della memoria, ma, qui, si è optato per una scelta più essenziale. Anna Amadori è pulita nel suo dolore, e la voce che, all’inizio, pareva cantilena, diventa ora ninna nanna e lamento, mentre lei sfilaccia la tela di una vita che le sembra impossibile avere perché ha ancora paura del mondo.
Rosso sangue – e il mondo bussa alla porta. È il macellaio del paese imprecisato che viene a chiederle educatamente di amarla. Lei è impacciata e si concede quale momento di ironia amara, mentre interpreta l’incontro come se lo stesse raccontando al marito defunto, come se stesse giustificando lo sforzo che fa per riaffacciarsi alla realtà.
Giallo sabbia – è il climax, la soglia tra l’interno e l’esterno. Liane si versa addosso il contenuto delle tre bottiglie gialle con un gesto noncurante. «Sei tornato là, qui, là?», gli chiede rabbiosa e senza riuscire a farsene una ragione, nella sua danza di sabbia, al ritmo dei sassolini che tintinnano sul microfono. Sono tre anni che è sola senza amore, la paura ha preso il sopravvento e lei promette di restare così per sempre, perché la solitudine è una coperta calda e rassicurante, il dolore una carezza, una garanzia contro l’incedere del mondo.
Terra di Siena – e Liane è fuori dalla sua catapecchia, nella realtà che deraglia e che lei cattura in scatti fotografici. Ha preso i suoi soldi da ragno – perché essere vedova vuol dire essere pagata per piangere – ed è partita a vedere se “là fuori” è meglio di “qua dentro”, se il dolore è più sopportabile. Non lo è. Torna all’ovile. Ma qualcosa è cambiato: il ponte che attraversa il fiume è disarcionato. Liane incontra un uomo che la aiuta a compiere gli ultimi passi del suo percorso. Lo odia e si odia perché «le sta ripulendo il cuore».
Bianco – e la fine è un inizio. Sono passati cinque anni da quel Blu di Prussia e, ora, nella trasparenza, si sommano tutte le sfumature di un dolore vissuto ed elaborato. C’è ancora indecisione nella parole della Amadori, eppure un senso di necessità. Volteggia, come su una giostra, per capire se andare o restare e, alla fine, si porta in mezzo al pubblico e realizza che «la vita è quello che ti succede mentre stai facendo altro».
Certo, la Cartiera aveva un potere significante che non si può replicare, come non può essere replicata la sensazione della prima volta in cui si vede uno spettacolo. Ma può subentrare una costruttiva razionalità che aiuta l’artista a ridefinire il proprio lavoro, rendendolo essenziale, e lo spettatore a comprendere i meccanismi di pensiero che lo hanno accompagnato nel viaggio della visione. E allora dal lavoro condotto dalla Amadori e dai suoi collaboratori emerge una coerenza estremamente onesta: rimanendo costante la maestria dell’attrice, quello che era il potere delle balle e dei praticabili di carta calpestati dalla Liane di giugno, viene ora replicato in bagni di luce di colori diversi (disegnati da Micaela Piccinini), uno per ogni quadro, a raddoppiare, ma non semplicemente, la sfumatura dei flacons.
Ci vogliono una certa sapienza e un certo coraggio a progettare e mettere in scena due versioni dello stesso spettacolo: stesso testo, stessa attrice, stesse musiche, stessi colori, stessi sapori; eppure, un’altra opera.
Visto al Teatro Pubblico di Casalecchio di Reno (Bo)
Nicoletta Lupia