Recensione a Body not Fit for Purpose – di Jonathan Burrows e Matteo Fargion
L’avanguardia è eretica. Per tradizione. Mette in discussione pubblicamente (e spesso ironicamente) il canone consolidato, le regole accettate, il buongusto e il bon ton, le convenzioni e i cliché vigenti. Ma che succede quando il canone che viene messo in crisi e in discussione è quello dell’avanguardia stessa? Molte sono le opportunità di affrontare il tema nella Biennale Danza diretta da Virgilio Sieni.
Basti pensare al duo Burrows & Fargion, al debutto nel bel Teatrino di Palazzo Grassi firmato da Tadao Ando. Il loro Body not Fit for Purpose (che si potrebbe tradurre all’incirca come “Corpo non adatto allo scopo”) è un attacco al cuore della danza stessa, d’avanguardia o di tradizione che sia: obiettivo dichiarato del lavoro è quello di una critica alle possibilità dell’arte di trattare, comunicare e trasmettere il senso di emozioni e tematiche profonde. È la percezione e il racconto di un corpo – come recita il titolo – non adatto allo scopo, vale a dire quello di condensare e restituire importanti discorsi di carattere politico o altrettanto radicali affondi nelle qualità dei sentimenti e dei rapporti umani.
A centro scena c’è un tavolo. Sul lato corto, a sinistra, Matteo Fargion con il suo mandolino a fare da contrappunto alle azioni di Jonathan Burrows, seduto invece di fronte al pubblico. Body not Fit for Purpose è costruito per piccole strutture, frammenti semplici, che sembrano quasi degli sketch.
Ogni pezzo comincia con un titolo: «This stance is called…», “questo pezzo si chiama…”. Bush, Berlusconi, Putin – questi alcuni dei nomi scelti per i diversi frammenti presentati nello spettacolo; e poi si parla di “gentrification”, riciclo, di guerra e di pace, di droga e di razzismo – per fare qualche esempio delle tematiche socio-politiche affrontate (o che si tentano di affrontare) in questo spettacolo. Ma ci sono momenti di grande delicatezza, tutti sbilanciati sul piano emotivo e dal sapore anche biografico: come quello in cui Burrows racconta il ricordo di un regalo di infanzia donato dal padre.
Body not Fit for Purpose si snoda così: frammenti musicali di gran efficacia, ad accompagnare brevi pezzi di movimento. Burrows rimane quasi sempre seduto, capace di creare e manipolare con lucidissima efficacia un’atmosfera di grande densità. Nervi tesissimi, micidiali, che vibrano con le corde del mandolino di Fargion. La coreografia è quasi per intero affidata alle modulazioni della postura, ai micro-movimenti delle mani e a infinite gradazioni di mimica; il suono è rotto qua e là da qualche parola. Nell’insieme si tratta di una partitura di grande complessità e precisione, che però colpisce per la sua apparente semplicità e – soprattutto – per la capacità di intervenire sulla dimensione ambientale del palcoscenico, di inciderla e manipolarla con sottile maestria.
Dichiara il duo che questo è il loro primo lavoro apertamente politico (questo il link al sito web, per leggere le note per intero).
I singoli pezzi combinano con attenzione gesti che sfumano verso l’astrazione frammisti a piccoli brandelli di riconoscibilità, dove il pubblico può ritrovare volendo qualche minimo richiamo al reale. Forse quella tensione compositiva e ambientale si converte sul piano contenutistico: nel rischio imitativo-caricaturale sempre in agguato e sempre eluso e deluso dal guizzo coreografico che si trova continuamente a gestirlo. Quando arriva il pezzo su Berlusconi o su Putin, sul Manifesto di Marx o il Libro di Mao, il pubblico ride, prima timidamente e poi sempre più di gusto. Ma la ripetizione dello schema evade la minaccia di qualsiasi tentazione comica e consolatoria.
Dopo pochi minuti nessuno ride più, la densa atmosfera del Teatrino si intride di una vibrante amarezza che sembra raggiungere anche la platea: allo spettatore non resta che contemplare l’inadeguatezza dell’arte, la sua impotenza di fronte ai grandi temi della vita, la sua incapacità davanti alla complessità della realtà; la luminosità faticosa dei suoi sforzi, la sua preziosa ma vana ostinazione; non rimane che partecipare e condividere, fra momenti di grande astrazione e altri di feroce ironia, il fortissimo senso di inadeguatezza espresso da questo lavoro. Che è anche una critica tagliente, ben calibrata e coraggiosa agli sforzi dei due grandi versanti dell’avanguardia: sia quella che, staccandosi via via dal reale, ha scelto strade d’ermetismo e astrazione che hanno rischiato di allontanare il pubblico, di incrinare o addirittura abortire il rapporto scena-platea e di intrappolare l’arte in una torre d’avorio senza via d’uscita; sia quell’avanguardia che, invece, si è tuffata nella dimensione socio-politica a piene mani, vi si è fusa e a volte confusa, anche rinunciando in qualche caso al livello della ricerca, dell’estetica, del lavoro sui linguaggi e sulle loro grammatiche.
Il lavoro di Burrows e Fargion, utilizzando insieme stimoli, posizioni, idee dell’uno e dell’altro versante e miscelandoli con sapiente maestria, dimostra – proprio con gli stessi strumenti – che è possibile una terza via. Fra ricerca e partecipazione, slancio politico e dimensione emotiva, insomma, fra i poli – tradizionalmente disgiunti in tanta avanguardia che poi si è fatta maniera – dell’etica e dell’estetica. E concretizza in scena che l’arte (in questo la danza) può fare critica, persino auto-critica. Per provare a immaginare soluzioni diverse, riformulare formati e modalità, ripensare e ripensarsi insieme al pubblico che ne fruisce.
Visto al Teatrino di Palazzo Grassi, Biennale Danza, Venezia
Roberta Ferraresi