Recensione a Lungs. Un dialogo amoroso mozzafiato – regia di Massimiliano Farau
Raramente ho provato quella sensazione di condivisione che tanti teatranti italiani, più o meno d’avanguardia, ricercatori e classici, invocano – di frequente col risultato il più delle volte di mancare l’obiettivo –, come andando a teatro a Londra, magari a vedere una piccola commedia di qualche nuovo autore, in sale piccole ma gremite, sorseggiando un bicchiere di vino su una sedia di metallo oltremodo scomoda. Ho partecipato, in quelle occasioni, e avvertito la partecipazione di chi era con me, spettatore di una piccola verità, spesso detta col sorriso e con un’ironia sovente scorretta, che si concretizzava su palcoscenici angusti. Tutto così semplice, tutto così profondamente franco e condivisibile – senza essere accomodante, buonista o benpensante – e dunque condiviso, sinceramente. Con stupore e gioia ho ritrovato questo tipo di sensazione in un teatro italiano, il Teatro Due di Parma, nella messinscena di Massimiliano Farau dell’ultima fatica dello scozzese Duncan Macmillan, Lungs. Un dialogo amoroso mozzafiato.
Lungs – letteralmente “polmoni” – è un felice esempio di commedia inglese contemporanea, che partendo da un pretesto ecologico che diventa il tarlo di una giovane coppia radical-chic – o aspirante tale –, esplora le dinamiche dell’amore, dei suoi alti e bassi, dei suoi dubbi e delle sue contraddizioni, con un’intelligenza drammatica e una forza emotiva che si manifesta costantemente nella serratezza mozzafiato dei dialoghi e nel sottotesto di gesti e silenzi, così quotidiani e reali, che li accompagna. I ritmi dialogici incalzano di continuo, i tempi sono quelli della serialità televisiva – absit iniuria verba, anzi – ed inchiodano irreversibilmente il pubblico alla vicenda.
I due anonimi protagonisti della pièce, contrassegnati dalle sole iniziali, M. e W. – l’uomo e la donna di oggi: lei istruita e impertinente, lui un po’ sottomesso ma psicologicamente più stabile – sono alle prese con la decisione di mettere o meno al mondo un figlio. La presenza di un ipotetico nascituro, adombrata per la prima volta durante un pomeriggio all’Ikea, unisce ed allontana a un tempo la coppia, che si scontra con le incertezze del futuro, gli egoismi del presente, rivestiti da una più o meno inconsapevole parvenza d’altruismo – in cui il tema ecologico la fa da padrone, precipitando i due in un ginepraio di elucubrazioni intellettualoidi alla Woody Allen dei tempi migliori –, e le paure di una generazione, quella dei trenta-quarantenni, mai davvero cresciuta né pronta ad assumersi le responsabilità che l’ingresso di una nuova vita nel mondo implica. Il “problema” – qualsiasi esso sia – viene sempre posto dai due protagonisti all’esterno rispetto a sé (nell’economia globale allo sfascio, nella finanza killer, nell’inquinamento, nel buco dell’ozono e nei cibi adulterati), così come le cause dei propri fallimenti e delle proprie reticenze e resistenze, in una continua assolutizzazione delle rispettive posizioni che ricolloca in una distanza insuperabile qualsivoglia soluzione. In questo modo i due, in un profluvio dialogico incontenibile e freschissimo, che attraversa differenti momenti e tempi della relazione, con battute che si protraggono per minuti e minuti, conducono le rispettive arringhe pro e contro la difficile risoluzione, su una scena completamente vuota, in cui i due bravi interpreti (Sara Putignano e Davide Gagliardini), con il solo ausilio di semplici gesti, instaurano una relazione fortissima, intima, tra loro e con il pubblico, testimone solidale di una vicenda che nel bene e nel male ha riguardato tutti, prima o poi.
Proprio questo luogo vuoto brookiano, spalancato d’azzurro, unico scenario immaginabile per una storia che è di tutti, amplifica la pregnanza della gestualità concatenata e della relazione fisica e verbale tra la Putignano e Gagliardini – davvero bravissimi –, a cui Farau ha senza dubbio chiesto un lavoro immane e preciso, onestissimo, per restituirci la naturalezza di un rapporto quasi più vero del vero, negli imbarazzi e negli slanci, nelle ritrosie, nelle smancerie e negli abbandoni anche un po’ ridicoli dei partner. A ben vedere infatti non è la maternità o la paternità il vero nucleo del confronto, ma la vita di coppia e la capacità di far durare l’amore nelle trasformazioni che il passare del tempo insieme impone al sentimento, nelle evoluzioni che accompagnano la crescita dei singoli e della coppia. La riflessione sul tema è infatti il vero cuore prezioso della commedia – talvolta amara, ma sempre fiduciosa – per cui i due innamorati spesso si nascondono dietro un dito – un bambino che non si sa se arriverà e tutte le problematiche, più o meno fittizie, del caso – per rifuggire dalle criticità, a volte drammatiche, del loro rapporto. Tra allontanamenti, rotture e sofferte riconciliazioni, un figlio nasce davvero e cresce insieme ai genitori, nei quali l’amore si rafforza fino a diventare potentissimo e superare i limiti temporali dell’esistenza, attraverso l’integralità della sua sincerità, in grado di fondere due essenze in una. L’Amore nella coppia è di quelli con l’iniziale maiuscola, perché finalmente, dopo un percorso accidentato e tumultuoso, si realizza in una completa consapevolezza e cura reciproca. Il figlio non salva la coppia, ma arricchisce le possibilità di costruzione di un cammino condiviso. Il finale, davvero commovente, evoca con pochi gesti e rade frammentarie battute, il trascorrere di un’intera vita insieme, una toccante ode alla possibilità dell’amore di dare un senso all’esistenza.
La commedia di Macmillan, per la prima volta messa in scena in Italia, è dunque una piacevole e onesta riflessione sulla vita – di coppia, ma non solo – condotta con leggerezza e consapevole intuizione e profondità, e s’avvale, nel caso presente, di una regia essenziale ma efficace e di due ottimi giovani interpreti. Con questa nuova produzione Teatro Due ha inoltre saggiamente seguito la lezione britannica: investire su nuovi testi e su registi e attori giovani, abili e in sensibile crescita professionale per creare nuove possibilità e la condivisione di un terreno che sia davvero comune ad operatori, artisti e pubblico. Ciò che ogni teatro, soprattutto se pubblico, sarebbe tenuto a perseguire. On dit: bravo!
Visto a Teatro Due, Parma
Giulia Morelli