Recensione a FaustIn and out – di Accademia degli Artefatti
C’è una nevrosi apparentemente superflua nei testi di Elfriede Jelinek. Le sue non sono parole allucinate né deliranti. Tutt’altro. Quelli dei suoi personaggi sono discorsi labirintici, a tratti ossessivi, che sconfinano nel fobico, ma che tracciano sempre l’itinerario di una pulsione che spinge e vivifica. È una scrittura autonoma, che si svincola dalla necessità della performance, per vivere indipendentemente anche sulla pagina, ma che, sul palco, si scioglie con più agilità, se posseduta da una consapevole umanità attorica. In questi labirinti, ritroviamo, quasi sempre, due caratteristiche: alcuni rimandi ad altri testi della letteratura germanofona, o a casi di cronaca, e alcuni leitmotiv stilistici che aiutano ad orientarsi nell’infinito tessuto del testo. Posseduti questi due strumenti cardinali, la matassa verbale si distende e fa apparire, luminose, lucciole di genio.
FaustIn and out ha entrambe le caratteristiche. È stato definito dalla stessa autrice un “dramma secondario”, una sorta di opera drammatica di commento all’Urfaust di Goethe, che lo rilegge e riscrive in chiave femminile e lo intreccia al caso di cronaca austriaca di un padre che ha tenuto segregata la figlia per anni, abusando di lei. I leitmotiv stilistici, invece, sono un certo gusto per il grottesco da avanspettacolo, la metafora che svela e commenta le vicende presentate e un’atmosfera svampita, come se i personaggi fossero dei finti-tonti dalle aspirazioni epiche, che raccontano e si perdono in flussi di pensiero, in prima battuta, incongruenti, che si rivelano, poi, spelonche sull’abisso.
Per rappresentare un testo – tradotto appositamente, in occasione del Festival Focus Jelinek (leggi l’approfondimento), da Elisa Balboni e Marcello Soffritti e pubblicato da Titivillus – dotato di una simile complessità sono indispensabili grandi attori e una regia attenta al dettaglio, che abbia una leggerezza e, allo stesso tempo, una profondità di sguardo tali da affondare nel suddetto abisso, senza averne paura, per riemergerne con disinvoltura.
FaustIn and out dell’Accademia degli Artefatti – prodotto dalla compagnia insieme all’Associazione Tra un atto e l’altro e al Festival che lo contiene –, con la regia di Fabrizio Arcuri, vede in scena Angela Malfitano, Francesca Mazza, Sandra Soncini, Matteo Angius e Marta Dalla Via.
La prima parte – La Presentazione – si apre su una serie di pannelli mobili, una sedia sulla destra, la videoproiezione del Faust di Wilhelm Murnau e il retro di una casetta sullo sfondo. Si susseguono tre grandi voci. Quella di Sandra Soncini, concitata, rabbiosa, irruenta e ossessiva in un corpo da attrice-amazzone. “Dice” la donna, la descrive, la esalta, la banalizza e, nuovamente, ne fa un’eroina triste e sola. La seconda voce si sdoppia: Francesca Mazza, nelle vesti di una mascotte-orso, si presenta calma, strafottente, racconta i fatti, si perde in qualche digressione e, intanto, si serve di un microfono che deforma il suo parlare rendendolo cupo e inquietante. L’utilizzo dell’amplificatore sembra casuale, ma non lo è: l’inquietudine che genera è il commento, una sottolineatura sporca di alcuni passaggi che narrano del padre della ragazza vittima dell’incesto; di come ha costruito la cantina insonorizzata nella quale la tiene prigioniera; di quel suo possederla senza appello, come fosse naturale, necessario; del poliuretano espanso usato per rivestire la prigione; del dono di un secchio per gli escrementi e di uno per gli aborti; della pietra tonda che mura e impedisce la fuga; della grande fatica che un padre può spendere per il benessere di una figlia. C’è del paradosso nel corpo e nel discorso della Mazza, nell’esaltazione fin troppo estrema del padre mostro, nel suo fisico esile imprigionato nel costume sproporzionato e nell’eleganza distratta con la quale lo porta.
Infine, arriva la terza voce. Le pareti si muovono, parte una deliziosa canzone pop e Arcuri manovra un occhio di bue in scena, rincorrendo un goffo inseguimento tra l’orso e un coniglio bianco. È la ragazza, la prigioniera, Elizabeth Fritzl. Angela Malfitano la fa svampita, irragionevole. Pronuncia le parole scritte dalla Jelinek per il personaggio con candore, perché così pensa una giovane per la quale la vita è divenuta un trauma: due metri quadrati, il dono del secchio, l’aborto all’ordine del giorno, se stessa come sola casa, suo padre come solo compagno possibile, un padre-Dio, creatore di mostri. Allora, lo spettatore ricostruisce la storia: è come se tra le parole dell’orso e quelle del coniglio ci fosse uno specchio deformante e, osservandolo, si potesse ricostruire la prigione, la vicenda, l’eco del Faust sullo sfondo, le esperienze dei due esseri non-più-umani. La Malfitano non teme la caricatura, la sua voce è forte e bambina e quanto afferma porta la traccia dell’assurdo della sua condizione.
Il secondo atto – La Rappresentazione – è decisamente più disteso. Alla concentrazione di parole e voci monologanti della prima parte, segue un vero e proprio banchetto dialogico. Sono scomparse le pareti mobili, il retro della casetta che, prima, vedevamo sullo sfondo è ora in primo piano. Angius/Mefistofele, seduto ad un tavolo, dietro una pila di libri, contrappunta i discorsi dell’orso, del coniglio e di un’operaia (ancora la Soncini), cercandone traccia nel Faust. Sfoglia le pagine del libro e suggerisce incipit di dialoghi fallimentari, puntualmente contraddetti dalle donne in scena. È una danza di parole, si ride, si riflette, si ricostruisce quanto detto nel primo atto, lo si contestualizza in un più complesso paradigma di pensiero. Si chiarifica il titolo della pièce, Faust In-and-out. Elizabeth e la sua esistenza-trauma sono la versione introflessa, sepolta in una cantina, della vita di una qualsiasi donna. La versione estroflessa di Elizabeth è Faust-out, l’operaia sfruttata ed isterica che produce scatole piene di qualcosa, qualsiasi cosa, non ha importanza. La metafora è evidente e chiarificata da un video di qualche minuto proiettato in scena: è la storia del capitalismo, del circolo vizioso che dalla produzione conduce direttamente al desiderio, della schiavitù che soggioga il consumatore e di come i potenti siano stati abili nell’orchestrarla, dei soldi virtuali di pochi che si concretizzano nel lavoro di molti. Entra in scena, vestita da dama, Marta Dalla Via in un riuscito cammeo che, oltre ad essere un gran pezzo di bravura, serve a chiarire ancora di più l’oggetto dell’atto. È la commessa di un supermercato licenziata per aver rubato alcuni vasetti di budino scaduto, destinati ad essere ritirati dalla vendita. Con una precisione chirurgica, la giovane enumera le contraddizioni del fatto e si rassegna alle leggi che dominano il grande mercato e le piccole vite di coloro che ne sono i destinatari.
Nel terzo atto – La Cronaca – la casetta che avevamo visto sullo sfondo o in proscenio, rivela la sua facciata: una piccola palafitta su ruote, un’abitazione tipicamente nordica che potremmo immaginare immersa in un paesaggio innevato. Parrebbe dolce, se non fosse quella sotto la quale immaginiamo sepolta viva Elizabeth. Al centro della scena, ancora la Malfitano/coniglio, finalmente drammatica, stanca. Ammette il suo trauma, descrive alcuni raccapriccianti dettagli della sua detenzione forzata, proprio nel momento in cui, con una strascicata lentezza, Arcuri e Angius, in scena, vestiti da operai, rendono concreta la sua prigione.
L’ultimo atto di FaustIn and out, come l’intero spettacolo, triangola diverse dimensioni: dentro, fuori, sopra, sotto, oltre. La parola della Jelinek si è fatta piana, necessaria, ogni frase ha senso per se stessa, è oggettiva: la tragedia è compiuta.
C’è una dimensione politica, è evidente, tanto nel testo di partenza, quanto nella lettura che ne ha fatto Fabrizio Arcuri (per approfondire, leggi l’intervista di Lucia Amara per il Quaderno Jelinek a cura di Altre Velocità). E questa dimensione intreccia i livelli del vissuto personale, della storia recente, della storia economica. La ragazza segregata si fa allora summa di tutti i sacrifici, le violenze, gli abusi, le crudeltà, la disumanizzazione di tutte le donne e di ognuna.
Nicoletta Lupia
Visto all’Arena del Sole, Bologna, in occasione del Festival Focus Jelinek.