Santa Estasi, percorso di alta formazione diretto da Antonio Latella per ERT e sviluppato insieme a Federico Bellini e Linda Dalisi, è diventato un grande progetto di spettacolo suddiviso in 8 messinscene cui hanno preso parte – vale assolutamente la pena nominarli tutti – i drammaturghi Riccardo Baudino, Martina Folena, Matteo Luoni, Camilla Mattiuzzo, Francesca Merli, Silvia Rigon, Pablo Solari e gli attori Alessandro Bay Rossi, Barbara Chichiarelli, Marta Cortellazzo Wiel, Ludovico Fededegni, Mariasilvia Greco, Christian La Rosa, Leonardo Lidi, Alexis Aliosha Massine, Barbara Mattavelli, Gianpaolo Pasqualino, Federica Rosellini, Andrea Sorrentino, Emanuele Turetta, Isacco Venturini, Ilaria Matilde Vigna, Giuliana Vigogna.
Regia e pedagogia, spettacolo e processi di lavoro si intrecciano sempre più profondamente nel percorso di Latella, che non a caso nel libro-intervista curato da Emanuele Tirelli La misura dell’errore (caracò, 2016) riflette: «la vera pedagogia sta negli spettacoli che hanno concluso il progetto».
E infatti Santa Estasi non sembra certo soltanto la presentazione, il punto di arrivo di un corso di perfezionamento teatrale nel senso convenzionale del termine, quanto piuttosto è una meraviglia straziante e travolgente di “gioco” del teatro (peccato non poter usare l’inglese “to play”) che ha divertito, commosso, spiazzato, fatto riflettere e stuzzicato per circa 15 ore di spettacolo, 2 giorni di maratona teatrale, gli spettatori giunti al Teatro delle Passioni di Modena per il festival Vie. Un “gioco” che attraversa innumerevoli generi di teatro, spaziando fra tragico e comico, lirico e epico, e temi forti e sempre d’attualità (dalla violenza sulle donne alla guerra dei vinti, dal populismo alla rivolta), situandosi − con la scelta stessa dell’Orestea − sul crinale di un tempo di grande cambiamento; ma al cui centro sta al di là di tutto, potente e viva su tutto, la figura dell’attore.
Atridi: ritratti di famiglia
Santa Estasi porta il sottotitolo Atridi: otto ritratti di famiglia. La saga, come è noto, ha origine almeno dall’orrendo delitto di Atreo, che uccide i figli del fratello Tieste e glieli offre in pasto. Questi, maledice lui e tutta la stirpe, ed è così che ci troviamo davanti ad altri tremendi omicidi: Ifigenia sacrificata dal padre Agamennone per agevolare la partenza dei Greci per Troia e aiutare così il fratello Menelao, re degli Achei, alla riconquista della moglie Elena, rapita da Paride; Agamennone ucciso per vendetta dalla propria moglie, Clitemnestra, e dall’amante di lei, Egisto − la prima per rendere giustizia del sacrificio della figlia prediletta, il secondo unico nipotino sopravvissuto dell’orrendo pasto preparato da Atreo. I due, entrambi, assassinati dai figli di Agamennone e Clitemnestra, per vendicare l’omicidio del padre: il compito spetta ad Oreste, guidato e sostenuto però dalla ritrovata sorella Elettra. Nei secoli, tanti ne hanno scritto e riscritto: dal mito omerico all’Orestea di Eschilo, agli “spin-off” greci e latini sui singoli personaggi (oltre Eschilo c’è molto, moltissimo Euripide nella maratona-spettacolo); dalla riscoperta rinascimentale al Settecento di Alfieri e Goethe, fino a tutti gli scrittori, pensatori, artisti che fra Otto e Novecento, dentro e fuori i teatri, hanno voluto tornare a confrontarsi con l’intreccio tragico per eccellenza della saga degli Atridi.
Più che politica o storia o teatro questa − come appare spesso in Santa Estasi − è innanzitutto una lacerante vicenda di famiglia: fratello contro fratello, genitori contro figli, mariti contro mogli, in una escalation di violenza che non risparmia nessuno e rispetto a cui − caso per caso − diventa davvero difficile prendere posizione, giudicare, distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, la vendetta personale dal dovere sociale. Non a caso, le sfumature intime, personali, affettive rimangono preponderanti sia nelle scritture che nell’interpretazione attorica di questi “ritratti di famiglia”, mentre l’ambientazione scenografica cambia sì sensibilmente in ciascuno degli 8 spettacoli ma resta incentrata tutto sommato su un grande interno domestico, con tavoli, sedie, poltrone, divani, piatti, stoviglie e servizi da tè, mentre i personaggi spesso fra loro si chiamano “zio”, “mamma”, “papà”. E sono sempre in coppia, a due a due, l’uno specchio fedele e ambiguo dell’altro.
Le vediamo crescere, vacillare, debordare e crollare tutte queste relazioni nella lunga messinscena della maratona di Santa Estasi: nella storia, così come filologia vuole, ma soprattutto nelle modalità in cui gli attori coltivano il rapporto scenico l’uno con l’altro, come interpreti, persone e personaggi, quasi sempre dinnanzi agli occhi del pubblico per tutta la durata del lavoro, anche e soprattutto quando non sono al centro dell’azione che si svolge, primi spettatori partecipi e a vista di quello che sta accadendo in scena.
Il dominio degli oggetti e la parola che crea
Ogni “ritratto” ha un oggetto-chiave, a cui ruota intorno tutta la messinscena. È un grande cavallo di legno, quasi da giostra, per Elena che racconta la sua versione dei fatti di Troia (impetuoso e trascinante monologo di Barbara Chicchiarelli, in sempre pericolante bilico sulle staffe); una bicicletta per il messaggero che annuncia il ritorno del re in Agamennone; il copione in Oreste, con cui i protagonisti “provano” la scena; il telescopio in Ifigenia in Tauride, oggetto della disputa fra la principessa argiva poi sacerdotessa di Artemide (magnetica la presenza di Federica Rossellini a inizio e fine saga) e il re dei Tauri, Toante (Leonardo Lidi, che emblematicamente è anche Agamennone e prima ancora Atreo). Su tutti, proprio in tema familiare, il tavolo da pranzo: dal piccolo e spoglio desco nei pezzi centrali dedicati agli esuli figli di Agamennone e Clitemnestra (anche un’Elettra), al tavolo del banchetto imbandito e apparecchiato di tutto punto di Ifigenia in Aulide e in Crisotemi, che aprono e chiudono il lavoro e tutta la vicenda di Santa Estasi. Tutti gli oggetti si ritrovano insieme in Eumenidi, che è lo snodo centrale e senza ritorno dell’intera storia, dove arriva il momento per tutti di fare i conti coi propri fantasmi.
Dal singolo oggetto-emblema sembra irradiare lo sviluppo dei vari spettacoli, a livello del senso drammaturgico ma anche dal punto di vista dell’interpretazione, con i 16 bravissimi attori che “giocano” gli elementi scenici preparati da Graziella Pepe e da lì ricostruiscono nel corpo e nella voce la vicenda degli Atridi. C’è poco o nulla nel grande spazio vuoto del Teatro delle Passioni, ma ogni cosa, anche la più piccola, si trasforma in tutto quel che serve grazie all’azione appassionata, lucida e sapiente degli attori.
C’è poco o nulla oltre la parola: è lei al centro dell’intera saga presentata da Santa Estasi, che drammaturgicamente si potrebbe pensare – semplificando al massimo – come un riuscitissimo tentativo di portare l’epica in teatro. Tutto, infatti, è soprattutto detto, ricordato e raccontato. Fra pochi e significativi oggetti di scena, qualche efficace scelta sonora e puntuali, essenziali azioni e accadimenti, gli 8 “ritratti” sono costruiti per il pubblico soprattutto tramite un fiume ribollente, impetuoso, inarrestabile di testo che – variamente detto e interpretato – fa prendere forma davanti agli occhi del pubblico la piana in Aulide e il palazzo di Argo, templi, stanze e isole, fino agli incontri, scontri, sfide e temibili avventure che popolano la vicenda degli Atridi nelle sue diverse riscritture. Ma non è teatro di testo nel senso tradizionale del termine quello che si fruisce in Santa Estasi e quello cui ci hanno abituato negli anni le regie di Antonio Latella: è una parola viva, una parola-carne, che viene performata nelle diverse tonalità vocali degli attori, sbozzata nelle loro gole, polmoni e pance, plasmata nel corpo che la dice. Fra gli esempi più chiari: le modulazioni acute di Atena nelle Eumenidi (Barbara Mattavelli, anche Cassandra); la trasformazione dell’Oreste di Christian La Rosa, dall’iniziale concerto di glossolalie infantili all’aringa al pubblico al delirio colpevole dopo il matricidio; il vibrante coro delle “Elene” (tutte le 7 attrici di sesso femminile) sul divano di Proteo, una voce unica e molteplice, seducente e rotta, diretta e frantumata in più versioni di sé. Ed è così che il linguaggio scenico di Santa Estasi, nel complesso, è estremamente performativo, per un teatro sì di parola ma che – proprio tramite la sua pronuncia, anche quando non è accompagnata da azione – arriva a sfiorare dinamiche si potrebbe dire da body art. È l’azione creatrice della parola, nient’altro: sul palco, con pochi altri sostegni, nel corpo vivo dell’attore, che materializza, trasforma e riplasma possibilità di immaginazione per lo spettatore.
Sarà questo il senso del titolo, “santa estasi”? O sarà forse da cercare nel tempo lungo, ineguagliabile della maratona, che riunisce di fatto, nel senso più letterale del termine, attori e spettatori, esseri umani, insieme intorno a un’unica esperienza (trasformativa per forza di tempo), che è quella del teatro.
La vita del teatro
“Da dov’è iniziato tutto?” si chiede Agamennone nel primo spettacolo, Ifigenia in Aulide, fra il Tieste di Seneca e la tragedia di Euripide, come a domandarsi se la responsabilità vada realmente alla maledizione originaria o al suo compimento perpetrato in seguito col sacrificio di Ifigenia: era possibile sottrarsi al destino, spezzare − come dice Clitemnestra − la catena? o le colpe dei padri continueranno a ricadere sui figli? Dove comincia la responsabilità individuale e dove finisce la predestinazione, fino a dove arriva l’influenza del contesto, il volere degli altri?
La verità, lo scopriamo alla fine, è che sono tutti morti, già prima che cominci la storia, che inizi lo spettacolo, che venga scagliata la maledizione degli Atridi. È Crisotemi in qualche modo a rivelarlo: citata ma mai approfondita, dimenticata tanto dagli autori e dai suoi familiari, è l’ultima figlia di Agamennone e Clitemnestra. La ritroviamo alla fine, raffinata padrona di casa di un pranzo andato deserto: al centro di un tavolone ricomposto, apparecchiato e imbandito − lo stesso di Atreo e Tieste − il cerchio si chiude con la più piccola Atride che accoglie ospiti immaginari, conversa coi genitori perduti, si appella ai fratelli che l’hanno abbandonata, racconta la sua versione dei fatti, seguita, origliata e sbirciata da dentro un armadio in cui ha passato tutta la storia.
Sono tutti morti da sempre, fin dall’inizio. Eppure gli attori che hanno dato vita a questi personaggi, intrecci e storie sono parsi presenti, vivi, vivissimi. Sarà stato come dice a un certo punto Oreste: in un’epoca in cui tutto sta cadendo a pezzi e c’è bisogno di inventarsi nuove regole che sostituiscano le vecchie, occorre grande coraggio e − oggi come allora − di immaginare cose grazie al racconto, azione che spronerebbe a trasformare la propria realtà. “Cosa può fare” si chiede il principe argivo “una stanza piena di persone che immaginano cose che non esistono?”, come accade − proprio in quel momento − in teatro, sia in scena che in platea. Può capitare addirittura di immaginarsi tutta la storia di Troia e di Argo, di nobili e dei, fanciulle sacrificate e fanciulle ribelli, amori e odii perpetui, battaglie, conquiste e vendette vecchie di 2000 anni. Può capitare alla fine di credere ancora al senso e alla potenza del teatro. Ma nulla sarebbe stato possibile senza il supporto magnificamente generoso, travolgente, intimo e aperto del lavoro degli attori di Santa Estasi, che sono il protagonista vero e ultimo, come persone e come soggetti drammatici, dell’intero lavoro di messinscena.
Visto al Teatro delle Passioni, Modena
Roberta Ferraresi
Tutte le foto sono di Brunella Giolivo