È sfacciata Rosalinda Sprint. Corre su e giù per Toledo con la vita che le pulsa nelle vene, sui tacchi a spillo e con gli occhi grandi, spalancati sul mondo di cui è affamata, con un carattere impertinente; è altezzosa e inerme allo stesso tempo, ingenua, magnetica. I riccioli d’oro che le circondano il viso, dagli inconfondibili tratti partenopei, sono un artificio che stona ma che consacra la protagonista di questa pièce a essere un perfetto femminiello irrequieto e naïf, leggero e graffiante, divertente e poetico.
A dare voce, corpo, passione e ironica tragicità a Rosalinda Sprint è Arturo Cirillo, attore e regista napoletano che in Scende giù per Toledo affronta un’opera tratta dal romanzo di Giuseppe Patroni Griffi.
Capocomico talentuoso che allestisce spettacoli con attori che nel tempo sono diventati i suoi compagni di avventura, tante le volte che hanno condiviso lo stesso palcoscenico, Cirillo qui è solo in scena: sembra di assistere a un particolare “concerto da camera” – non solo per l’ambientazione ricreata da Dario Gessati che catapulta il pubblico in una stanza-universo kitch tutta rosa e piume – ma per la vicinanza emotiva richiesta allo spettatore al quale il protagonista confida, senza peli sulla lingua, tutti i suoi peccati, le sue disavventure, le sue manie, i suoi sogni.
Ma Scende giù per Toledo è un lavoro anche polifonico: Rosalinda parla di sé in terza persona, dipinge e incarna i personaggi che attraversano la sua vita; presente-assente la sua voce off registrata regala una meta-teatralità grazie alla quale Cirillo introduce questo suo personaggio a cui è arrivato dopo un tortuoso percorso; proprio come il protagonista di Copi de Il ballo delle checche, il cui fantasma sembra apparire a causa di alcuni modi di affrontare personaggi marginali, ma dannatamente vivi e graffianti.
La baronessa che aspetta sulle scale, il cugino Gennaro, Maria Callas che le dà consigli, il figlio del sarto che la insulta, i balordi che la mettono sotto con la macchina, il padre che tenta di ucciderla per il suo sentirsi femmina, sono schizzi sulle tele della nostra immaginazione che emergono da un flusso di parole continuo alla James Joyce, che mescola sentimenti ed eventi divertenti, strazianti e ripugnanti. Il corpo di Cirillo in scena è di una sinuosità rara che si discosta dagli accenti puerili e capricciosi di questa giovane sognatrice ingenua e tenera, che più volte dice di morire ma che tanto è attaccata alla vita da riuscire a rialzarsi a ogni insulto, a ogni cattiveria subita, a mostrare con estremo candore che la ricerca dell’amore è la speranza più grande di tutte le creature che vivono su questa terra, uomini, donne o femminielli che siano.
Carlotta Tringali