Il senso d’umanità e quello del dovere di Alessandro Passerin d’Entreves

Il senso d’umanità e quello del dovere
di Alessandro Passerin d’Entreves

La Stampa Anno 112 – Numero 99 – Mercoledì 3 Maggio 1978

Ormai, sui tragici avvenimenti che dal 16 marzo sconvolgono il nostro Paese, s’è detto tutto quello che si poteva dire, e forse anche di più. Ne hanno parlato il Papa, gli uomini di governo, i partiti; ne parla la gente per la strada, e si sono mossi, o si stanno muovendo, persino gli intellettuali. Falchi e colombe: in queste due categorie si dividerebbero, a quanto si sente dire, gli Italiani in questo momento. Il nemico occulto che ci minaccia sembra avere, almeno in questo, già raggiunto il suo scopo: quello di alterare il precario equilibrio della nostra vita politica, se non addirittura di spaccare il Paese in due fazioni opposte. Semplificazione eccessiva e grossolana, ci ammoniva qualche giorno fa da queste stesse colonne una voce autorevole: non personifichiamo in due sette nemiche una lacerazione che è in noi stessi, non fuori di noi. E’ nell’intimo della nostra coscienza che si combattono due principi opposti, quello della salus reipublicae e quello della sacralità della vita umana. Nel grande trasporto emotivo di questi giorni, a orientare le nostre scelte non sembra sia ormai più la ragione, ma il sentimento. Ognuno propugna la via che gli pare migliore a seconda che nel suo animo prevalga il senso dello Stato o quello dell’umanità.

Il senso dello Stato! Era una espressione caduta in disuso. La si adoperava parlando del passato, riferendola ai politici d’altri tempi, che, si diceva, a differenza di quelli di oggi, l’avevano vivo quel senso, che si manifestava nella ferma difesa della legalità e delle istituzioni, nella dedizione all’ufficio loro affidato, nella scrupolosa osservanza dei doveri ad esso inerenti. D’improvviso, questo senso sembra essersi risvegliato in un gran numero di Italiani, e se ne sono fatti portavoce rappresentanti qualificati dell’opinione pubblica insieme a coloro cui spettano le decisioni ultime nel dramma che stiamo vivendo.
«Solo uno Stato che non venga meno ai suoi princìpi e ai suoi liberi ordinamenti è in condizione di assicurare in modo efficace le basi prime della convivenza civile e sociale contro gli spettri della guerra civile che è evocata dai terroristi e che viene di fatto avallata da ogni irresponsabile cedimento». Così si legge in un recente manifesto Per la difesa dello Stato democratico sottoscritto da uomini di cultura e di pensiero. A queste parole ha fatto puntualmente eco il Presidente del Consiglio, precisando nei termini più chiari cosa significa per un uomo politico servire lo Stato. «Quando noi iniziamo la vita di un governo, giuriamo fedeltà alla Costituzione della Repubblica, e cioè giuriamo di rispettare e di far rispettare le leggi. Questo è un limite che nessuno di noi ha il diritto di valicare».
Senso dello Stato vuol dire dunque intransigenza, rifiuto di qualsiasi eccezione alla legalità, per quanto caro possa costare quel rifiuto. Ed è appunto in vista della tragicità di questa alternativa che si fa sentire più vivo in noi (anche nei firmatari di quel manifesto) l’altro sentimento, il senso dell’umanità. Chi di noi non vorrebbe trovar modo di salvare la vita di Aldo Moro, di vederlo tornare sano e salvo dalla sua terrificante avventura, di restituirlo alla famiglia, alla vita civile, alla libertà? Ma tutti sappiamo perché tale possibilità non esiste: non soltanto per l’enormità della richiesta avversaria, che infliggerebbe la più grave offesa sinora arrecata alle leggi e alle istituzioni della Repubblica, ma per le conseguenze che ne deriverebbero, con la concessione a una banda di terroristi sanguinari di erigersi a controparte, a contropotere dello Stato.

Certo, il senso di umanità è difficile metterlo a tacere. E’ appunto su di esso che punta adesso il nemico, ed è quello che, a sentirli, ispira l’iniziativa dei socialisti, che ha così gravemente turbato il quadro politico e l’opinione in generale. Craxi invita lo Stato a «compiere un atto che abbia il significato dì una sfida umanitaria»: come se sentimenti umanitari potessero albergare in chi ogni giorno continua a far scorrere il sangue di vittime innocenti! A parte il fatto che, a quanto si dice, un atto del genere comprenderebbe la concessione della grazia, cioè un premio, a chi ha compiuto i più gravi reati, quale certezza si potrebbe mai avere che col gettare un’offa ad un avversario spietato e fanatico si riesca a placarlo, e che quell’offa non finisca invece per costituire soltanto l’acconto di un ricatto che potrà proseguire nel tempo, innescando una turpe sequenza di delitti che potrebbe non avere mai fine? Se c’è un caso in cui il senso dello Stato deve prevalere su quello dell’umanità è dunque proprio questo.
«Il dramma umano dell’on. Moro è presente alla coscienza di noi tutti», rilevano i firmatari dell’appello che ho più volte citato, «ma questi sentimenti non devono oscurare il dovere doloroso, ma ineludibile, di tutelare oggi con estremo rigore gli interessi generali della collettività nazionale». Scelta orribile e atroce perché, non c’è da farsi illusioni, può significare, in un più o meno prossimo avvenire, la morte di un innocente. Forse l’orrore di questa scelta sta proprio in questo: che nulla possiamo offrire ad Aldo Moro tranne il conforto che si offre ai condannati, il conforto di morire per una causa giusta, una causa che ne vale la pena. L’augurio che ci sgorga dal cuore è che egli possa trovare la forza di affrontare la sua terribile prova, se non con il senso dello Stato, di cui ahimè non v’è traccia in quelle tristissime lettere che sinora ci son giunte da lui, con il senso più alto che possa allignare nel cuore dell’uomo: il senso del dovere — di quel dovere che si pone ad ognuno di noi in quanto uomini, ma che si configura diversamente a seconda della nostra condizione, dei compiti che ci sono affidati, dell’ufficio che ricopriamo. Da quella condizione, da quei compiti, da quell’ufficio scaturiscono altri doveri, ulteriori a quelli che incombono al comune degli uomini, doveri che possono anche importare il rischio della vita, com’è il caso per il soldato nel servire la patria, o anche soltanto per il vigile del fuoco nel domare un incendio o per la guida alpina nel corso di una perigliosa ascensione.

In una delle sue ultime lettere Moro parla in un punto di sé come «non combattente», come «uomo comune». Ma poco più avanti si riconosce come «esponente di prestigio», come «militante fedele» di un partito che ha contribuito a fondare la Repubblica, che l’ha governata più a lungo di qualsiasi altro, e che ha tra i suoi punti programmatici la conservazione e la difesa delle istituzioni democratiche. Al senso del dovere, Moro si è richiamato molte volte nella sua lunga carriera. Vi si richiama, citando le sue stesse parole, un recente manifesto elettorale della democrazia cristiana. Il dovere impone a chi ha la guida degli uomini la prontezza al sacrificio, fino a quello supremo della vita. Quel sacrificio, perché dovremmo dubitare che Aldo Moro non sia tale da compierlo?
Chi lo conosce e lo stima ci assicura che il vero Aldo Moro non è presente in quelle lettere che ispirano soltanto sgomento e pietà. Ci dicono anzi, quegli amici, che quelle lettere, estorte con chissà quali mezzi, costituiscono un tentativo infame di distruggere la fisionomia morale di un uomo a cui tanta gente guardava come a un esempio e a una guida. Lo crediamo, lo vogliamo credere. Ricordiamo, per averle rilette tante volte, le lettere che scrivevano i condannati a morte della Resistenza. Alcuni di essi avrebbero potuto aver salva la vita umiliandosi al dittatore, rinnegando gli ideali che li avevano condotti a quello stremo. Non lo fecero, perché forte era in loro il senso del dovere. Crediamo, vogliamo credere, che per mantener fede agli ideali da lui sempre professati nella vita civile e nella guida dello Stato, altrettanto forte sia quel senso nell’animo di Aldo Moro.

archiviolastampa.it

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