Minacce al giudice che processa Curcio
di Fabrizio Carbone
La Stampa Anno 112 – Numero 88 – Mercoledì 19 Aprile 1978
«Aldo Moro è stato assassinato e gettato in un lago di montagna», «E’ stata scoperta una base delle Brigate rosse alla periferia residenziale della via Cassia». Queste due notizie, drammatiche, sensazionali, angosciose, sono arrivate quasi contemporaneamente alla de, al governo, agli investigatori, ai giornali, nelle sedi di tutti i partiti. Così è cominciato il 18 aprile 1978, trentennale di un giorno di vittoria e di gioia per la democrazia cristiana. Ieri si sono vissute ore di attesa, di speranza, di sconforto, di dolore, di rassegnazione, di paura, in un’alternanza di pessimismo e ottimismo. A sera era tornata una calma ragionata: le ricerche del corpo di Moro in mezzo alla neve e al ghiaccio del piccolo lago della Duchessa, tra le montagne del Lazio e d’Abruzzo, non avevano dato alcun esito. Restava il volantino numero sette, intestato Brigate rosse, fatto ritrovare sotto la statua di Gioacchino Belli, all’inizio di Trastevere. Un falso? Un diversivo dei terroristi criminali per depistare le indagini dalla base Br trovata in via Gradoli e abbandonata in tutta fretta verso le 7,30 di ieri mattina? L’opinione degli investigatori, degli esperti, dei politici è che il «comunicato», scritto male e con una terminologia diversa dallo stile dei precedenti, sia «buono» al 90 per cento ma che il dattilografo delle Br lo abbia scritto per spostare l’attenzione di polizia e carabinieri da Roma per dar modo ai terroristi di muoversi in tutt’altra direzione. Così, mentre dalle montagne del Reatino giungeva non la certezza assoluta ma una fondata speranza che Aldo Moro non fosse stato assassinato e portato in quei luoghi, i vertici politici e sindacali si mobilitavano. Alle 17,30 tornava a riunirsi la segreteria della federazione Cgil-Cisl-Uil mentre le direzioni della de e del pci allertavano tutte le sezioni del Paese, chiedendo che gli iscritti si tenessero pronti a manifestare, in qualsiasi momento, la solidarietà e la protesta civile e ferma contro l’annunciato atto di barbarie. Questo 18 aprile 1978 ha avuto il suo prologo alle 9,30. Una voce con accento romanesco telefonava a II Messaggero: «Qui Brigate rosse: ci sono due buste in piazza Gioacchino Belli, dietro la statua». A Trastevere, il giornalista Maurizio Modugno, trovava, in mezzo a una copia di Paese Sera, una sola busta rossa. In redazione veniva avvisata la Digos. Un «comunicato» breve, 158 parole, battute da una Ibm elettrica che, ad un attento esame, è risultata avere una «g» difettosa. Una macchina per scrivere diversa e non quella usata in precedenza per gli altri «comunicati»? C’è da dire che anche l’intestazione «Brigate Rosse» con la stella a cinque punte inscritta nel cerchio è rozza, grossolana, rispetto agli altri sei «titoli». Nel testo, costellato dai soliti errori, si legge: « Il processo ad Aldo Moro. Oggi 18 aprile 1978, si conclude il periodo “dittatoriale” della de che per ben trent’anni ha tristemente dominato con la logica del sopruso. In concomitanza con questa data comunichiamo l’avvenuta esecuzione del presidente della de Aldo Moro, mediante “suicidio”. Consentiamo il recupero della salma, fornendo l’esatto luogo ove egli giace. La salma di Aldo Moro è immersa nei fondali limacciosi (ecco perché si dichiarava impantanato) del lago Duchessa, altezza mt 1800 circa, località Cartore (Ri), zona confinante tra Abruzzo e Lazio. «E’ soltanto l’inizio di una lunga serie di “suicidi”. «Il “suicidio” non deve essere soltanto una “prerogativa” del gruppo Baader-Meinhof. «Inizino a tremare per le loro malefatte i vari Cossiga, Andreotti, Taviani e tutti coloro i quali sostengono il regime. «P.S.: rammentiamo ai vari Sossi, Barbaro, Corsi, eccetera che sono sempre sottoposti a libertà “vigilata” per il comunismo Brigate rosse».
E’ un comunicato insulso, terribile nella povertà di contenuto e nella violenza delle parole. Scattava così l’emergenza. Il testo del comunicato cominciava a circolare nelle redazioni dei giornali, in Parlamento, nella sede del governo. L’allarme era circoscritto alla zona montagnosa del lago, a 1800 metri di quota. Alla stessa ora in cui la telefonata delle Br al quotidiano romano annunciava il settimo, discusso, comunicato, la signora Nunzia Damiano avvertiva i pompieri perché una vistosa perdita d’acqua scendeva dall’appartamento del piano superiore. I vigili del fuoco intervenivano e sfondavano la finestra del secondo piano di via Gradoli 96. In un attimo si rendevano conto di essere entrati non in un covo ma in una vera base terroristica. Avvertivano la Digos. Alle 10,15 la zona era circondata. Nell’appartamento, di sicuro abitato da un uomo, erano armi e munizioni, bombe a mano, radioriceventi, divise da polizia e, pare, da Alitalia, parrucche, vestiti da donna a decine, targhe false, documenti contraffatti, tute da operai Sip. Una base importante, la prima mai trovata a Roma, abbandonata per una perdita d’acqua. Un colpo fortunato degli investigatori. Le indagini, partite dalla via Cassia, sono state allargate ad un i raggio di circa venti chilometri. Senza esito è risultata una perquisizione nella zona del quartiere Trionfale. Intanto, con tutti i mezzi possibili, si tentava di raggiungere il lago della Duchessa. I dubbi che il volantino fosse un falso o un «diversivo» venivano presi in considerazione. Ma non si poteva perdere tempo. Le squadre di montagna salivano nella zona; partivano automezzi con sommozzatori e canotti. Ma il lago sembrava irraggiungibile. Gli elicotteri constatavano che, sommerso dalla neve, il piccolo stagno era ricoperto da una compatta crosta di ghiaccio. In Parlamento arrivava la notizia che intorno ai bordi qualcuno aveva notato impronte di passi. Passavano — era mezzogiorno — ! minuti di angoscia. Il volantino sembrava autentico e — si diceva — le Br che motivo avrebbero di mentire? Altri replicavano che non si vedeva il motivo perché Moro fosse stato portato lassù, in una zona inaccessibile per molti mesi, isolata da recenti, furiose nevicate. Se volevano assassinarlo — erano i commenti drammatici — l’avrebbero potuto fare dovunque. In quelle montagne era la prigione del presidente della de? Dubbi, speranze, interrogativi. I vertici della magistratura e della polizia, volati in elicottero sul posto, tornavano indietro alle 17. « Ci pare impossibile — dichiaravano — che quel lago possa essere la tomba del presidente Moro. Ma dobbiamo raggiungere la certezza assoluta». Intanto veniva disposta una perizia ufficiale sul «comunicato numero 7» e gli accertamenti sulla base Br scoperta proseguivano con precedenza assoluta su tutti gli accertamenti di «routine». In serata, i periti non erano ancora in grado di chiarire se il «comunicato numero 7» potesse essere definito autentico. Rozza l’intestazione, la macchina usata è Ibm «light italic» (ma ce ne sono quarantamila in tutt’Italia), ma il problema di fondo è che si trattava di una fotocopia di un volantino e non di un originale: maggiore quindi era la difficoltà di lettura delle differenze eventuali. Alle 19 giungeva la voce, poi caduta, dell’arrivo di una «lettera» di Moro a Zaccagnini. In quel momento si riuniva un vertice al Viminale al quale partecipavano coloro che erano tornati dalla perlustrazione in alta montagna. Notizie frammentarie; si accavallavano di ora in ora. Gli investigatori davano importanza al fatto che nella base dei terroristi della via Cassia fossero state trovate sei fotografie, incollate su documenti, di persone che non risultano schedate, né note alla Digos come terroristi o i presunti tali. Veniva deciso che le fotografie fossero diramate dai telegiornali della notte. «Fiancheggiatori» dei brigatisti? Oppure persone come tutti noi che nel piano delle Br, potrebbero svolgere un ruolo che loro stessi ignorerebbero? Ancora domande, ancora risposte vaghe, ipotesi. «Rivolteremo il lago della Duchessa come un calzino — dicono in nottata al Viminale — perché non possiamo avere dubbi». Ci vorranno molte ore, forse giorni. Per ora nessuna prova che Moro e i suoi carcerieri siano stati nella zona.