Accademia degli Artefatti

Il “cambio della guardia”. Una nuova stagione del teatro di regia italiano?

Nell’ormai consueto appuntamento con lo Spettacolo dell’anno organizzato su “Doppiozero” da Massimo Marino con una serie di artisti e critici – collaboratori e non della rubrica Teatro –, Massimiliano Civica rileva come nella cartina tornasole della scena italiana che sono i Premi Ubu si sia manifestato un “cambio della guardia” nel nostro teatro di regia. I premi 2017, oltre che allo stesso Civica (miglior regia ex aequo, premiato nella stessa categoria due anni fa per Alcesti), sono andati fra gli altri ai lavori di Deflorian/Tagliarini (per le luci di Gianni Staropoli ma Il cielo non è un fondale era in finale anche come miglior spettacolo, musiche, attrici), di Roberto Latini (miglior attore, più le musiche di Gianluca Misiti, già premiate nel 2015), di Antonio Latella (miglior attore under 35 Christian La Rosa, protagonista di Pinocchio, e in finale come miglior regia, categoria in cui era stato premiato lo scorso anno con Santa Estasi).
In effetti, si manifesta un vero e proprio “cambio della guardia” rispetto agli ultimi anni. Dopo qualche tempo di riflessione più o meno condivisa, più o meno continuativa, è forse il caso di rispondere all’invito e discutere in qualche modo l’ipotesi formulata dall’artista, se possibile cercando di darle seguito. Singolare che una riflessione del genere venga, non da un critico, ma da un artista del nostro teatro (ma poi neanche tanto strano, visto che oggi come in passato i primi teorici della materia in Italia di norma sono stati gli stessi registi, come diceva Claudio Meldolesi per gli anni Quaranta e Cinquanta).

Che il “cambio” ci sia stato è fuor di dubbio, e il fenomeno è ancor più evidente se si guarda alle rose dei finalisti Ubu (Lucia Calamaro, Frosini/Timpano, Emma Dante, Silvia Calderoni, Federica Fracassi…) o alle terne e ai vincitori delle edizioni degli ultimi 2-3 anni, dove gli stessi nomi avevano già cominciato a prendere posto nella “cartina tornasole” del nuovo corso in categorie-chiave come miglior spettacolo, regia, attore, ecc.; o ancora aggiungendo altre figure vicine che si potrebbero ben inserire nel quadro, tipo quelle provenienti dalla cosiddetta “terza ondata” dei Teatri 90 (dai Motus agli ex Clandestino a Fabrizio Arcuri o Fanny & Alexander) o dalla precedente nouvelle vague degli Ottanta (dalle Albe alla Socìetas).
Però, dice Civica, è un cambiamento sì epocale, ma senza troppi “squilli di tromba” (tant’è che non ha destato particolare attenzione nel dibattito italiano sulle arti sceniche, vuoi perché la rivoluzione era già da tempo annunciata, vuoi perché l’attenzione in questo momento va ad altre e diverse questioni d’attualità). I motivi del mancato clamore possono essere tanti. Civica rileva giustamente per esempio che il passaggio di testimone preparato da anni è stato agevolato dal progressivo “abbandono del campo” da parte degli esponenti storici del nostro teatro di regia; ma anche supportato dalla fertile congiuntura con un parallelo “cambio della guardia” discriminante sia nella critica, come segnala il regista, sia – aggiungerei – nella direzione dei maggiori teatri del nostro Paese. Poi, seguendo il ragionamento, gli “squilli di tromba” sono mancati forse perché gli artisti in questione “non fanno tendenza” fra loro, creando fronti omogenei, né tantomeno in rapporto coi critici, che a differenza delle passate stagioni della ricerca in buona parte non hanno scelto di sostenerne qualcuno in particolare e nemmeno di provare a incasellarlo/i in una qualche griglia interpretativa onnicomprensiva.

Stante l’evidenza del rilievo sul “cambio della guardia”, non si tratta di discutere, consolidare o contestare l’ipotesi, quanto forse di provare a far “squillare la tromba”, seppur sottovoce o magari anche solo in parte: cioè di cominciare a scavare il fenomeno per non lasciarlo passare in sordina, come se nulla fosse, cercando di identificare il suo principio di discrimine e la sua possibile posizione nel sistema delle arti nazionale per comprendere che cambiamenti possa portare con sé – e in caso, tentare di osservarli e sostenerli. Lasciar correre senza confrontarsi su quanto sta accadendo comporta il rischio di contribuire in qualche modo a una eventuale, nuova normalizzazione (che in Italia come sappiamo è sempre dietro l’angolo); di dissipare gli sforzi compiuti finora da questi artisti per la loro crescita e consolidamento, o addirittura per un mutamento del sistema delle arti sceniche nel nostro Paese. Senza voler imporre alcuna forzatura interpretativa, critica, estetica o politica, credo che ascoltarli sia, più che importante, quasi un obbligo etico.

Per cominciare ad articolare l’ipotesi avanzata da Civica, invece che formulare di lì categorie e tendenze nuove o rinnovate che siano, si può provare a campionare alcuni interrogativi che il “cambio della guardia” può porre al teatro, più che di adesso, del futuro imminente e prossimo.
Se è vero che gli artisti in questione – che insieme ad altri andrebbero a comporre un quadro mutante e mosso di un nuovo teatro di regia – nel complesso non dimostrano significative e volute convergenze né a livello estetico, né di pratiche (anche questa è però una tradizione della regia italiana, a partire da quella “critica” in poi), qualche elemento in comune ce l’hanno – senza voler imporre nulla a nessuno né togliere alla necessaria libertà di movimento, sempre da difendere.
In realtà, vorrei azzardare – assumendomi tutti i rischi del caso – che se seguiamo il consiglio di Meldolesi e guardiamo, invece che agli esiti in forma di spettacolo, ai processi dal punto di vista dei modi produttivi, scopriamo – com’è accaduto in passato – che c’è ben più di qualche dato storico-cronachistico-biografico ad accomunare l’approccio di questi artisti. Tutti naturalmente sono impegnati – com’era in passato – in un’impresa di rinnovamento del repertorio drammaturgico, che si basi su forme auto-prodotte, sull’importazione in Italia di nuovi testi stranieri o sulla riscoperta di quelli della tradizione; buona parte viene dalla scena indipendente, con un sostegno negli anni più da parte dei festival che dal teatro ufficiale, mentre negli ultimi tempi  sono finalmente arrivati a superare i confini della produzione stabile in collaborazione con Tric e Teatri nazionali. Fra i quaranta e i cinquant’anni, con talmente tanto lavoro sulle spalle che chiamarli “nuovi” è quasi un affronto, sono artisti cresciuti per decenni nel sottobosco del teatro di ricerca lungo gli anni Novanta e Duemila e quasi tutti impegnati, oltre che nella creazione artistica, in prima linea nell’organizzazione di spazi, contesti, progetti indipendenti che potessero prima accogliere i loro lavori e poi anche le sperimentazioni di chi è venuto dopo.

Questo tutto sommato accomuna la presunta nuova stagione alla storia del teatro di regia in Italia, riformulando una cadenza e uno schema che è stato prima dei registi critici, poi di quelli del teatro di gruppo, e così via. Ma c’è forse una differenza importante da segnalare, ancora tutta in potenza e da cercare di comprendere nei suoi possibili esiti: a scavare fra le diverse esperienze, sembra che uno dei centri veri, condivisi, distintivi sia dal punto di vista etico che estetico si ritrovi a guardar bene nella centralità affidata – ovviamente secondo modi peculiari e diverse misure – al ruolo dell’attore, che diventa spesso centro irradiante del lavoro scenico (tanto della funzione registica, quanto della scrittura drammaturgica che dell’organizzazione dello spazio e dell’ambiente). “Post-regia” l’ha chiamata Marco De Marinis. È forse nell’essere-con gli attori che oggi il teatro cambia, si rinnova, supera le polarità della rappresentazione tradizionale e della sperimentazione performativa per donare agli spettatori un’esperienza ibrida, antichissima e sempre nuova. Segno ancora enigmatico ma evidente che qualcosa, in questo “cambio della guardia”, è senza dubbio mutato in profondità; una trasformazione d’ottica – forse politica prima ancora che estetica – che distingue questa generazione della regia italiana dai suoi precedenti, che – seguendo le analisi di Meldolesi – dimostravano tutto sommato una linea di continuità proprio nel mantenimento di una condizione di subalternità dell’attore.

La domanda, a questo punto, è come valorizzare e sviluppare questi dati di diversità, come portarli a innestarsi e crescere all’interno del sistema ufficiale che in tempi recenti queste figure stanno sempre più popolando; quali mutamenti potranno provocare a livello più ampio e trasversale, quali ostacoli ci saranno da affrontare, quali rischi e quali slanci; e ovviamente quali altri punti di differenza ci sono ancora da individuare, portare a emergere, interrogare.
E poi ci sarà anche da guardare, ancora una volta, in avanti: a cosa possiamo fare noi, artisti e critici venuti dopo, salutati negli anni Duemila come un’altra nouvelle vague del teatro italiano e oggi in cerca di consolidamento, insieme a loro e oltre.
È il possibile “squillo di tromba” del “cambio della guardia” che pone tutte queste – e sicuramente anche ben altre – domande, ancora tutte da trovare.

Roberta Ferraresi

Una donna, tutte le donne. Sul FaustIn and out dell’Accademia degli Artefatti

Recensione a FaustIn and out – di Accademia degli Artefatti

C’è una nevrosi apparentemente superflua nei testi di Elfriede Jelinek. Le sue non sono parole allucinate né deliranti. Tutt’altro. Quelli dei suoi personaggi sono discorsi labirintici, a tratti ossessivi, che sconfinano nel fobico, ma che tracciano sempre l’itinerario di una pulsione che spinge e vivifica. È una scrittura autonoma, che si svincola dalla necessità della performance, per vivere indipendentemente anche sulla pagina, ma che, sul palco, si scioglie con più agilità, se posseduta da una consapevole umanità attorica. In questi labirinti, ritroviamo, quasi sempre, due caratteristiche: alcuni rimandi ad altri testi della letteratura germanofona, o a casi di cronaca, e alcuni leitmotiv stilistici che aiutano ad orientarsi nell’infinito tessuto del testo. Posseduti questi due strumenti cardinali, la matassa verbale si distende e fa apparire, luminose, lucciole di genio.
FaustIn and out ha entrambe le caratteristiche. È stato definito dalla stessa autrice un “dramma secondario”, una sorta di opera drammatica di commento all’Urfaust di Goethe, che lo rilegge e riscrive in chiave femminile e lo intreccia al caso di cronaca austriaca di un padre che ha tenuto segregata la figlia per anni, abusando di lei. I leitmotiv stilistici, invece, sono un certo gusto per il grottesco da avanspettacolo, la metafora che svela e commenta le vicende presentate e un’atmosfera svampita, come se i personaggi fossero dei finti-tonti dalle aspirazioni epiche, che raccontano e si perdono in flussi di pensiero, in prima battuta, incongruenti, che si rivelano, poi, spelonche sull’abisso.
Per rappresentare un testo – tradotto appositamente, in occasione del Festival Focus Jelinek (leggi l’approfondimento), da Elisa Balboni e Marcello Soffritti e pubblicato da Titivillus – dotato di una simile complessità sono indispensabili grandi attori e una regia attenta al dettaglio, che abbia una leggerezza e, allo stesso tempo, una profondità di sguardo tali da affondare nel suddetto abisso, senza averne paura, per riemergerne con disinvoltura.
FaustIn and out dell’Accademia degli Artefatti – prodotto dalla compagnia insieme all’Associazione Tra un atto e l’altro e al Festival che lo contiene –, con la regia di Fabrizio Arcuri, vede in scena Angela Malfitano, Francesca Mazza, Sandra Soncini, Matteo Angius e Marta Dalla Via.

(foto di Michele Lamanna)

(foto di Michele Lamanna)

La prima parte – La Presentazione – si apre su una serie di pannelli mobili, una sedia sulla destra, la videoproiezione del Faust di Wilhelm Murnau e il retro di una casetta sullo sfondo. Si susseguono tre grandi voci. Quella di Sandra Soncini, concitata, rabbiosa, irruenta e ossessiva in un corpo da attrice-amazzone. “Dice” la donna, la descrive, la esalta, la banalizza e, nuovamente, ne fa un’eroina triste e sola. La seconda voce si sdoppia: Francesca Mazza, nelle vesti di una mascotte-orso, si presenta calma, strafottente, racconta i fatti, si perde in qualche digressione e, intanto, si serve di un microfono che deforma il suo parlare rendendolo cupo e inquietante. L’utilizzo dell’amplificatore sembra casuale, ma non lo è: l’inquietudine che genera è il commento, una sottolineatura sporca di alcuni passaggi che narrano del padre della ragazza vittima dell’incesto; di come ha costruito la cantina insonorizzata nella quale la tiene prigioniera; di quel suo possederla senza appello, come fosse naturale, necessario; del poliuretano espanso usato per rivestire la prigione; del dono di un secchio per gli escrementi e di uno per gli aborti; della pietra tonda che mura e impedisce la fuga; della grande fatica che un padre può spendere per il benessere di una figlia. C’è del paradosso nel corpo e nel discorso della Mazza, nell’esaltazione fin troppo estrema del padre mostro, nel suo fisico esile imprigionato nel costume sproporzionato e nell’eleganza distratta con la quale lo porta.

(foto di Michele Lamanna)

(foto di Michele Lamanna)

Infine, arriva la terza voce. Le pareti si muovono, parte una deliziosa canzone pop e Arcuri manovra un occhio di bue in scena, rincorrendo un goffo inseguimento tra l’orso e un coniglio bianco. È la ragazza, la prigioniera, Elizabeth Fritzl. Angela Malfitano la fa svampita, irragionevole. Pronuncia le parole scritte dalla Jelinek per il personaggio con candore, perché così pensa una giovane per la quale la vita è divenuta un trauma: due metri quadrati, il dono del secchio, l’aborto all’ordine del giorno, se stessa come sola casa, suo padre come solo compagno possibile, un padre-Dio, creatore di mostri. Allora, lo spettatore ricostruisce la storia: è come se tra le parole dell’orso e quelle del coniglio ci fosse uno specchio deformante e, osservandolo, si potesse ricostruire la prigione, la vicenda, l’eco del Faust sullo sfondo, le esperienze dei due esseri non-più-umani. La Malfitano non teme la caricatura, la sua voce è forte e bambina e quanto afferma porta la traccia dell’assurdo della sua condizione.

Il secondo atto – La Rappresentazione – è decisamente più disteso. Alla concentrazione di parole e voci monologanti della prima parte, segue un vero e proprio banchetto dialogico. Sono scomparse le pareti mobili, il retro della casetta che, prima, vedevamo sullo sfondo è ora in primo piano. Angius/Mefistofele, seduto ad un tavolo, dietro una pila di libri, contrappunta i discorsi dell’orso, del coniglio e di un’operaia (ancora la Soncini), cercandone traccia nel Faust. Sfoglia le pagine del libro e suggerisce incipit di dialoghi fallimentari, puntualmente contraddetti dalle donne in scena. È una danza di parole, si ride, si riflette, si ricostruisce quanto detto nel primo atto, lo si contestualizza in un più complesso paradigma di pensiero. Si chiarifica il titolo della pièce, Faust In-and-out. Elizabeth e la sua esistenza-trauma sono la versione introflessa, sepolta in una cantina, della vita di una qualsiasi donna. La versione estroflessa di Elizabeth è Faust-out, l’operaia sfruttata ed isterica che produce scatole piene di qualcosa, qualsiasi cosa, non ha importanza. La metafora è evidente e chiarificata da un video di qualche minuto proiettato in scena: è la storia del capitalismo, del circolo vizioso che dalla produzione conduce direttamente al desiderio, della schiavitù che soggioga il consumatore e di come i potenti siano stati abili nell’orchestrarla, dei soldi virtuali di pochi che si concretizzano nel lavoro di molti. Entra in scena, vestita da dama, Marta Dalla Via in un riuscito cammeo che, oltre ad essere un gran pezzo di bravura, serve a chiarire ancora di più l’oggetto dell’atto. È la commessa di un supermercato licenziata per aver rubato alcuni vasetti di budino scaduto, destinati ad essere ritirati dalla vendita. Con una precisione chirurgica, la giovane enumera le contraddizioni del fatto e si rassegna alle leggi che dominano il grande mercato e le piccole vite di coloro che ne sono i destinatari.

(foto di Michele Lamanna)

(foto di Michele Lamanna)

Nel terzo atto – La Cronaca – la casetta che avevamo visto sullo sfondo o in proscenio, rivela la sua facciata: una piccola palafitta su ruote, un’abitazione tipicamente nordica che potremmo immaginare immersa in un paesaggio innevato. Parrebbe dolce, se non fosse quella sotto la quale immaginiamo sepolta viva Elizabeth. Al centro della scena, ancora la Malfitano/coniglio, finalmente drammatica, stanca. Ammette il suo trauma, descrive alcuni raccapriccianti dettagli della sua detenzione forzata, proprio nel momento in cui, con una strascicata lentezza, Arcuri e Angius, in scena, vestiti da operai, rendono concreta la sua prigione.
L’ultimo atto di FaustIn and out, come l’intero spettacolo, triangola diverse dimensioni: dentro, fuori, sopra, sotto, oltre. La parola della Jelinek si è fatta piana, necessaria, ogni frase ha senso per se stessa, è oggettiva: la tragedia è compiuta.
C’è una dimensione politica, è evidente, tanto nel testo di partenza, quanto nella lettura che ne ha fatto Fabrizio Arcuri (per approfondire, leggi l’intervista di Lucia Amara per il Quaderno Jelinek a cura di Altre Velocità). E questa dimensione intreccia i livelli del vissuto personale, della storia recente, della storia economica. La ragazza segregata si fa allora summa di tutti i sacrifici, le violenze, gli abusi, le crudeltà, la disumanizzazione di tutte le donne e di ognuna.

Nicoletta Lupia

Visto all’Arena del Sole, Bologna, in occasione del Festival Focus Jelinek.

Il Festival Focus Jelinek: una dolce bufera di parole e sguardi

Copertina del Catalogo del Festival Focus Jelinek con un'immagine di Claudio Parmiggiani

Copertina del Catalogo del Festival Focus Jelinek con un’immagine di Claudio Parmiggiani

Il Festival Focus Jelinek è in pieno svolgimento. Iniziato il 7 ottobre a Piacenza, terminerà il 15 marzo a Montescudo (RN) e coprirà un arco temporale di sei mesi, andando a disegnare un percorso in 13 città dell’Emilia Romagna – Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Castel Maggiore, San Lazzaro di Savena, Modena, Bologna, Casalecchio di Reno, Faenza, Forlì, Ravenna, Cesena, Rimini, Montescudo – e coinvolgendo una molteplicità di artisti, studiosi, critici e traduttori. Si tratta di una rete a maglie larghe, una serie di iniziative fitta e coerente, nata dalla mente e dall’operatività culturale della brillante Elena Di Gioia per esplorare l’opera del premio Nobel austriaco Elfriede Jelinek, autrice di romanzi, opere teatrali, sceneggiature. Si susseguono, toccando le varie tappe di questa mappa interattiva, spettacoli, progetti speciali in teatri, festival, biblioteche, scuole e università, proiezioni, letture e un convegno dal titolo happening jelinek che si è svolto il 3 dicembre negli spazi dei Laboratori DMS di Bologna.

“Io cerco di decostruire la realtà. Questa realtà io la faccio ogni volta per così dire a pezzi,
come se separassi a strappi le tende di un sipario,
per rabbia contro il testo che c’è dietro”
.
(Elfriede Jelinek in un’intervista di Renata  Caruzzi, Ein Gespräch mit Elfriede Jelinek,
realizzata per la Società Italiana delle Letterate (SIL), München, novembre 2005)

Scrivere per strappare, decostruire, smontare e rimontare, raccontare, affondare nelle storie e restituirne un’immagine sghemba, per, infine, mostrare i limiti dello strumento-testo, servirsene fino a sfinirlo, fino a farne emergere le incoerenze, a farlo esplodere dall’interno. Ma servirsene, sempre, per addentrarsi nella realtà, scarnificarla, nel tentativo, destinato al fallimento, di ordinarla, pettinarla.

“È talmente spettinata la realtà. Non c’è pettine che riesca a lisciarla.
I poeti vi passano e raccolgono disperatamente i suoi capelli in una pettinatura, dalla quale prontamente di notte vengono perseguitati. Nell’aspetto c’è qualcosa che non va”.

(Da In disparte, discorso pronunciato in occasione del conferimento del Nobel nel 2004)

Il FFJelinek, muovendo da un desiderio di indagine della scrittura dell’autrice nella sua vastità, non solo propone al pubblico una porzione consistente della sua opera, ma ha anche dei felici prolungamenti in alcune pubblicazioni e trasmissioni radiofoniche: Radio Zolfo, a febbraio, ospiterà artisti e studiosi in un dialogo sul corpus della Jelinek a cura di Altre Velocità; RadioEmiliaRomagna segue il festival con una serie di interviste; doppiozero accompagna tutto l’attraversamento con interventi a cadenza mensile, sotto la cura redazionale di Massimo Marino; è uscito per Titivillus FaustIn and Out, testo scritto dalla Jelinek nel 2011/12 e tradotto in italiano da Elisa Barboni e Marcello Soffritti; il secondo numero del 2015 della rivista “Prove di Drammaturgia” sarà curato da Elena Di Gioia e Claudio Longhi e sarà dedicato all’opera dell’autrice.

“[…] non riesco a lasciare il luogo in cui sono. Che importa. L’estraneità non è qui, sta là dove non è estranea, lo preferisce. Ha ragione. […]
The answer, my friend, is blowin’ in the wind. La risposta la sa il vento, e io la so. Il vento viene da tutt’altra parte. Io non vengo, perché non vado nemmeno”.
(Elfriede Jelinek, Ritornare! In Italia!)

Quest’ultima citazione è tratta da Ritornare! In Italia!, un testo scritto dalla Jelinek appositamente per il Focus e presentato in anteprima durante lo stesso. L’autrice austriaca ringrazia per l’attenzione dedicatale, annuncia che non sarà presente a causa della sua agorafobia – che da tempo le impedisce di muoversi dalla sua abitazione -, parla di luoghi e, indirettamente, traccia i confini di uno spazio della mente: l’Italia nei suoi ricordi. Il FFJelinek è, invece, un luogo reale che, costruendosi, ridefinisce continuamente le sue latitudini e l’idea stessa di confine: tra le città, le opere, gli artisti, gli oggetti, le persone.

Un esempio lampante di questa forma di ridefinizione è stato l’happening jelinek che si è tenuto a Bologna il 3 dicembre: “ombelico progettuale” del Festival, il convegno è stato una corsa di fondo nell’opera della scrittrice che ha visto la partecipazione degli artisti coinvolti e di alcuni autorevoli studiosi e traduttori. Tra una lettura, un momento performativo – con Anna Amadori, Ateliersi, Elena Bucci, Fanny & Alexander, Chiara Guidi, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Accademia degli Artefatti, Teatri di Vita, Teatrino Giullare -, una riflessione sul teatro dell’autrice – Luigi Reitani, Silke Felber -, sulla sua scrittura – Gerardo Guccini -,  o sulle strategie adottate per tradurla – Elisa Barboni, Marcello Soffritti, Rita Svandrlik -, la giornata è stata abitata da una dolcissima bufera di parole che ha guidato il pubblico presente nell’immaginario della Jelinek, fornendogli alcune chiavi d’accesso per esplorare il suo corpus, le sue fonti, la sua poetica.
In occasione dell’happening sono stati presentati l’esito del laboratorio tenuto da Claudio Longhi con gli studenti dell’università di Bologna su uno degli ultimi testi della drammaturga, Die Schutzbefohlenen – I rifugiati coatti (traduzione di Luigi Reitani) e il Quaderno Jelinek.

I rifugiati coatti (foto Sara Colciago)

Die Schutzbefohlenen – I rifugiati coatti (foto di Sara Colciago)

Il primo ha visto la partecipazione di circa sessanta studenti che, guidati dal regista, in cinque giorni, si sono addentrati nell’opera, fuoriuscendone con una mise en espace in cui lingue, culture, caratteri e musiche si sono felicemente sovrapposti in uno spettacolo di massa polifonico e corale, non privo di momenti di grande pathos, aggressivo, riflessivo e autosufficiente. Il testo indaga la condizione del clandestino, travestendo le Supplici di Eschilo e filtrando la tragedia attraverso il concetto attualissimo di confine e il caso di cronaca della strage di Lampedusa. Un’orda di studenti-attori ha assalito il pubblico da destra e sinistra, è apparsa in alto, è entrata dal fondo, si è raggruppata in agglomerati monologanti o in dialogo, ha interagito con una suonatrice di fisarmonica sulla destra. Poliglotta, l’orda ha restituito un’immagine volutamente non unilaterale dell’emigrante alla ricerca di una forma di salvezza e, forse, salvazione.

Copertina del Quaderno Jelinek a cura di Altre Velocità

Copertina del Quaderno Jelinek a cura di Altre Velocità (grafica Brochendors Brothers)

Il Quaderno Jelinek – consultabile sul sito del Festival e su quello di Altre Velocità che lo ha magistralmente curato – si presenta come un ulteriore prolungamento del FFJelinek. Viene introdotto da un saggio di Luigi Reitani (contrazione dell’introduzione al volume Sport. Una pièce – Fa niente. Una piccola trilogia della morte, Ubulibri, 2005) e raccoglie una serie di interviste agli artisti coinvolti nella rassegna e alla sua curatrice, ognuno in dialogo con un critico o studioso – Elena Di Gioia / Serena Terranova; Claudio Longhi / Nicoletta Lupia; Andrea Adriatico / Lorenzo Donati; Fabrizio Arcuri / Lucia Amara; Enrico Deotti / Rossella Menna; Chiara Guidi / Alessandra Cava; Chiara Lagani / Alex Giuzio; Angela Malfitano / Francesco Brusa; Angela Malfitano e Nicola Bonazzi / Lucia Cominoli; Fiorenza Menni / Piersandra Di Matteo; Elfriede Jelinek / Anna Bandettini. “Come si legge quest’autrice, oggi, pensando a una sua messa in scena? Come ci si districa tra intrecci di fonti e colate di caratteri, come ci si orienta tra citazioni di altri autori e crepe visionarie, tra strumenti filosofici e cronaca nera? Ecco che ogni dialogo qui raccolto prova a fornire una visione specifica”. Il Quaderno risponde a queste questioni preliminari e si presenta come uno strumento bifronte: da un lato, indaga l’opera dell’autrice servendosi degli autorevoli punti di vista degli artisti che si sono avvicinati ai suoi testi; dall’altro lato, restituisce un quadro del Festival stesso, delle riflessioni alla sua origine, della sua evoluzione nel corso del tempo, delle sue multiformi declinazioni. Leggendo il Quaderno, lineare, preciso, strutturato con intelligenza, si viene, ancora una volta, attraversati da quella dolce bufera di parole protagonista dell’happening, come dell’esito del laboratorio, come del progetto tutto.
“Al teatro voglio strappare la vita”
dice la Jelinek mentre si offre al paradosso di voler creare qualcosa di non-vivo lasciando però che si prolunghi in progettualità spettacolari e non solo necessariamente vitalissime. Il FFJelinek è un montaggio di schegge, ha esordito Elena Di Gioia introducendo l’happening, esso restituisce un collage di visioni, di sprofondamenti e di riemersioni in un’opera compatta e, finora, poco conosciuta in Italia, dura e difficile, che non lascia scampo e che sfida il lettore, il regista, l’attore, lo studioso in un corpo a corpo fino all’ultimo respiro.

Nicoletta Lupia

Short Theatre 9: quale rivoluzione?

«Quali le parole che possono raccontare il nostro domani imminente (quello che sarà e quello che vogliamo)?» Se lo chiede, e ce lo chiede, Fabrizio Arcuri nel presentare l’ultima edizione di Short Theatre, che sceglie come leit-motiv La Rivoluzione delle parole, e intende porsi come occasione della domanda e della risposta, e come luogo che genera ulteriori domande.
A manifestazione finita, con un bagaglio di spettacoli visti e rivisti, proviamo a interrogarci sulle parole che sono scivolate via e su quelle che sono rimaste. In un percorso che non vuole restituire tutto, ma soffermarsi su alcuni momenti, forse costruire un arco temporale, che inizia con vicende universali per concludersi con episodi particolari.

A.H. ph Claudia Pajewski

A.H. – foto di Claudia Pajewski

Rimandano alla grande storia le parole di A.H., alla guerra, ai campi di concentramento, allo sterminio, alla dittatura, eppure in nessun momento questi vocaboli vengono pronunciati (da DreamCatcher2013 visioni e sonorità di A.H.). Perché non è un lavoro sul Terzo Reich, tanto meno sul Führer, è un lavoro sul male e sulla sua origine, è un lavoro sulla menzogna e il suo potere. È un solo in cui l’azione la fa da padrona, è un solo in cui la drammaturgia è calibrata, in cui i lemmi sono isolati, ripetuti, enumerati, fino a farsi suono, fino a sciogliersi nel corpo e lì dentro continuare a vivere.
Apre e chiude lo spettacolo menzogna, che rimanda alla falsità del linguaggio, e alla lingua come strumento di comando. Riecheggia Io, accostato a Europa – “Io sono Europa, Io ero Europa, Io sarò Europa” – a significare l’influenza di un unico uomo su un intero continente, con l’arco verbale e temporale che rende conto dell’ostinazione del male, della sua permanenza, e dei suoi, infiniti, strascichi. Sciabola. Balestra. Bombarola. Schioppo. Mitragliatrice. Sono elencate, una dopo l’altra, le armi che hanno minacciato, quelle che hanno ferito, quelle che hanno ucciso, una descrizione per oggetto che è determinazione ‘strumentale’ della guerra. Parole, quelle di Bellini e Latella, che stimolano una sorta di esercizio della memoria, per una necessaria, e collettiva, consapevolezza di ciò che è stato.

È un testo novecentesco quello scelto da Roberto Latini, I Giganti della Montagna, opera pirandelliana, metateatrale, mai finita. Campeggia al centro della scena, in uno schermo, immaginazione, come stimolo ad andare oltre un limite non fissato. Il primo atto di questo lavoro affascina per bellezza scenica, per abilità attoriale – perché Latini con la sua voce e la sua presenza è capace di evocare mondi –, stimola la nostra capacità immaginifica, ma forse non è la morbidezza di un campo di grano ciò che cerchiamo.

E allora ci risuonano nelle orecchie le parole di Handke, «non abbiamo bisogno di illusioni per farvi vedere delle illusioni». E in effetti non si vede niente in Insulti al pubblico dell’Accademia degli Artefatti –  nuova edizione di un lavoro del 2006 –  piuttosto si ascolta. Perché il dialogo tra due attori che non andranno mai in scena si nasconde dietro un sipario, o, quando è scoperto, ci arriva filtrato da un megafono. Non personaggi in una scena che non c’è, Daria Deflorian e Pieraldo Girotto discutono di ciò che potrebbe accadere, senza mai farlo accadere. La parola di Handke, parola politica di un tempo e di un luogo che non è il nostro, ci dice molto –  ancora adesso –  del rapporto tra palco e platea, tra spettatore (insultato) e attore (insultante); pone il pubblico, e necessariamente anche l’artista, in una condizione di attesa, di dubbio, e in una possibile (ri)definizione del rapporto.

Mio figlio era come un padre per me

Mio figlio era come un padre per me

E poi ci sono lavori incollati al nostro tempo, spettacoli che parlano una lingua vernacolare, talvolta cantilenante, spesso imprecante.
«Tedio domenicale, quanta droga consumare, quanti amori frantumare»: si apre con una nenia Mio figlio era come un padre per me dei Fratelli Dalla Via, che partono dal microcosmo di Tonezza del Cimone (di cui, peraltro Diego Dalla Via è sindaco) per fotografare uno spaccato del nordest. C’è il miraggio del lavoro e della ricchezza, c’è il fallimento dei padri trasmesso –  come un virus –  ai figli, perché «il miracolo del nordest è la fotocopia smarrita del sogno americano», perché «la prima generazione ha lavorato. La seconda ha lavorato e risparmiato. La terza ha lavorato, risparmiato e sfondato… poi siamo arrivati noi».
I vincitori dello Scenario 2013 (qui una conversazione con Marta e Diego) ci raccontano, con cinismo e non senza un’amarezza di fondo, quella condizione perenne di figli che i 30/40enni di oggi conoscono molto bene, l’inabilità a decidere delle proprie vite, e la frustrazione dei padri, che finiscono per togliersi di mezzo gettandosi sotto un treno, gesto che è ulteriore privazione di azione, ultima etichetta di incapacità apposta sulla fronte dei figli.

E ancora di padri e di figli si parla nella prima apparizione di Jesus, dove ritroviamo Enrico Castellani e Valeria Raimondi alle prese con le domande dei figli, o meglio di Ettore, il più grande, interrogativi che hanno a che vedere con l’educazione, con la religione, che hanno a che vedere con la morte, e con la vita. Nel tentativo di spiegare c’è la difficoltà di mentire, lo sforzo di dire la verità, c’è lo scontro con la società cattolica, ma soprattutto quello che cogliamo (almeno in questa prima apparizione) è la bellezza e la fatica di essere genitori, oggi come ieri.

I Giganti della montagna

I Giganti della montagna – foto di Simone Cecchetti

Come si può pensare il futuro? Con un piena coscienza delle menzogne del passato? O con l’amarezza delle miserie dell’oggi? Ci salveremo con l’immaginazione? O sarà il disicanto a tenerci in piedi? Pirandello nei Giganti ci dice che «non bisogna aver paura delle parole». Latella ci racconta tutta un’altra storia.
Accanto a vocaboli secchi, diretti, violenti, che abbiamo voluto evidenziare, restano le sagome di due uomini (Roberto Latini, Francesco Manetti) accartocciati sul proprio corpo, che nella nudità si fa inerme. E questo ci parla di declino, di deterioramento, e, ancora una volta, di crisi.
A dare un senso di trasformazione, di rivoluzione se vogliamo, sono i corpi svestiti di Valeria e Enrico (Babilonia Teatri) che nell’abbraccio generano la vita.

Rossella Porcheddu

Illusioni di salvezza

Recensione a Nascita di una nazioneAccademia degli Artefatti

foto di Andrea Cravotta

foto di Andrea Cravotta

Quattro personaggi arrivano in una città devastata dalla guerra  provocata dalla loro stessa fazione. Cercato il contatto con gli abitanti, si presentano, narrando la propria storia e il modo in cui l’arte ha dato senso alle loro vite e guarito i loro traumi. Giunti di fronte alla provata cittadinanza tentano, a loro volta, di portare pace e serenità attraverso l’insegnamento dell’arte. Questa è la breve trama di Nascita di una nazione nella versione scritta da Mark Ravenhill per il ciclo Spara, trova il tesoro e scappa, composto in occasione dell’Edimburgh International Festival del 2007.
Gli attori, con disinvoltura, entrano in scena trainando ognuno il proprio trolley da viaggio. Lo spazio è estremamente semplice, solo un piano in legno a delimitare lo spazio performativo. La condizione fondamentale è la frontalità con il pubblico, che ricorda l’atmosfera delle assemblee cittadine e al contempo delle esibizioni teatrali in genere – ed in effetti riassume efficacemente l’intento di entrambi i livelli comunicativi dei personaggi: parlare ai cittadini e dimostrare la propria arte.
A caratterizzare fortemente l’Accademia degli Artefatti è la naturalezza nella recitazione, non priva di tentennamenti e balbettamenti che in alcuni casi paiono però eccessivi (soprattutto nella parte iniziale dello spettacolo che ne viene rallentata ed appesantita). Molto interessante la scelta di entrare in scena come semplici uomini che osservano l’ambiente e solo successivamente assumono il ruolo di artisti posizionandosi sotto le luci del ‘palco’.
La relazione con il pubblico è fatta di vicinanza, di relazione tanto concreta da chiedere esplicitamente risposte, gli attori in un occasione distribuiscono carta e penna, in un crescente approccio al coinvolgimento. Addirittura, quando una donna tra gli spettatori acconsente ad alzarsi, scatta spontaneo l’applauso del pubblico, che ingenuamente ignora, almeno per qualche attimo, che la coraggiosa signora sia in realtà attrice.
Estremamente apprezzabile la doppia valenza data al testo, che mantiene il filo della narrazione originale, ma sdoppia contemporaneamente il significato del linguaggio leggendone ogni parola su un piano semplicemente fattuale – spesso comico nella sua ambivalenza –  condizionando e determinando le dinamiche di relazione tra i personaggi e con gli spettatori.

foto di Andrea Cravotta
foto di Andrea Cravotta

Grande forza del testo di Ravenhill, che nel finale assume un ribaltamento amaro: la donna che gli artisti vorrebbero aiutare ha subito traumi e perdite tali che è evidentemente e tragicamente  illusiorio credere di poterla aiutare, mentre la povera donna rotola al suolo, continuando a sputare sangue, i loro occhi di artisti non vedono la realtà, ciechi di fronte una sofferenza che in quel momento dell’arte non se ne fa proprio nulla. Scena finale che quindi riesce a far evaporare in un attimo ogni teoria esposta e calorosamente approvata dagli ‘artisti’.
Bravi i quattro attori, tra i quali colpiscono in particolare le interpretazioni di Gabriele Benedetti e Pieraldo Girotto. Finale che lascia coinvolti e desiderosi che lo spettacolo possa continuare ancora, anche perché risate sentite e riscontro emotivo riescono ad emergere solo a performance ampiamente inoltrata.

Agnese Bellato

Il riscatto dell’arte

Recensione a Nascita di una NazioneAccademia degli Artefatti

foto di Andrea Cravotta

foto di Andrea Cravotta

«La vostra città è in rovina.» Esordisce così lo spettacolo Nascita di una nazione, scritto da Mark Ravenhill e portato in scena dall’Accademia degli Artefatti. Luci accese in platea, nessuna scenografia, gli attori entrano in scena come appena sbarcati dall’aeroporto. È un gruppo d’artisti occidentali appena arrivati in una città distrutta dalla guerra. Il dialogo è aperto con il pubblico, domande che non trovano risposta: si parla di responsabilità, chi ha ridotto così la città, come fare a risollevarla. La risposta è semplice: gli artisti si propongono di ricominciare dalla cultura, dall’arte, far rinascere un sentimento comune, iniziare ad esprimere per ritrovare la libertà.
Incredibilmente attuale il testo del drammaturgo inglese e intelligente la scelta di metterlo in scena da parte di Fabrizio Arcuri, regista di Accademia degli Artefatti. Nascita di una nazione fa parte di una serie di 17 frammenti teatrali basati sulla tematica della seconda Guerra del Golfo, ed ispirati ad altrettanti poemi o film famosi (tra cui La guerra dei mondi, Odissea, Le troiane, Orgoglio e pregiudizio). Nonostante il riferimento all’oriente sia chiaro, non si può non pensare all’Italia ed alla situazione culturale attuale: tagli, censure e limitazioni. Una riflessione sicuramente valida, ed un operazione drammaturgica e registica di valore.
La compagnia, ormai famosa per la ricerca di drammaturgie ipercontemporanee o post moderne che dir si voglia, compie l’ennesima azione spiazzante. La ricerca e lo studio su personaggi non personaggi coinvolge il pubblico, lasciandolo a volte disorientato, provocando reazioni diverse tra riso e perplessità. Il risultato però è garantito: la giusta sensazione di impotenza di fronte a disastri che toccano da lontano, si ripercuote sulla platea, coinvolgendola in un gioco di Voi/Noi, un rapporto attore spettatore che non lascia scampo.

foto di Andrea Cravotta
foto di Andrea Cravotta

Ancora una volta il confronto con le nuove drammaturgie provoca un sansazione destabilizzante: testi brevi, battute sintetiche, un grosso lavoro di interpretazione delle stesse parole declinate in mille sfumature diverse. Semplicità ed efficacia, rendono la regia quasi invisibile, lasciando l’opera proprio nel momento in cui sembra prendere il via. La chiusura è infatti un inizio, un’apertura concettuale verso tutto quello che potrebbe succedere se ‘la città’ iniziasse ad esprimersi attraverso l’arte. Lo spettacolo basato sull’impossibilità d’esprimersi, una stimolazione ed invito all’espressione, si chiude proprio nel momento in cui l’arte inizia a manifestarsi: «Sta succedendo». Sta succedendo?

Visto al Bastione Alicorno, Padova

Camilla Toso

Incontro con Accademia degli Artefatti

Quello che si cerca è la sensazione di penetrazione fisica che confonde il proprio corpo con quello rappresentato,  al punto da da trasformare la relazione tra spettatore e attore in corpo a corpo. Non è un atto di voyeurismo ma di partecipazione e di collaborazione alla costruzione dell’identità del personaggio, perché penso che l’impossibilità latente di una interpretazione razionale di ciò che accade è lo spazio che fa nascere il desiderio che permette al personaggio di esistere.”                                                                                                                                                                           Fabrizio Arcuri

Fabrizio Arcuri e Andrea Porcheddu foto di Alvise Nicoletti

Fabrizio Arcuri e Andrea Porcheddu foto di Alvise Nicoletti

Andrea Porcheddu, critico e direttore artistico del Festival Teatri delle Mura di Padova, conduce l’incontro con Accademia Degli Artefatti, dopo lo spettacolo My Arm al Teatro Fondamenta Nuove.

« L’Accademia Degli Artefatti di Roma, che lavora da circa un ventennio, è una compagnia ancora giovane con una grande forza di rinnovarsi e presentare sempre delle strade nuove in Italia. Porta in scena Tim Crouch, autore che è esploso sulla scena contemporanea proprio con questo testo, My Arm, un monologo dalla forza dirompente, una grande vivacità di scrittura e originalità. Fabrizio Arcuri, regista e fondatore del gruppo, come sei incappato in questi testi? Come sei arrivato a Crouch, a Ravenil, autori in cui la parola e il linguaggio tornano prevalenti sulla scena e dove la presenza scenica dell’attore e l’essenzialità tornarono protagonisti.»

Fabrizio Arcuri: «La questione è sempre stata la stessa: il teatro è fatto di elementi fondamentali, l’attore, la scena, il testo. Quest’ultimo nei secoli si è declinato fino a sparire e a ricomparire in altre forme; è stato maltrattato, ridotto all’osso, è diventato scrittura scenica. Di fatto non ci si riesce a staccare da questi elementi fondamentali. Qualche anno fa siamo arrivati ad un punto del nostro percorso in cui siamo entrati in crisi perché  il teatro fatto fino a quel momento dimostrava una certa sterilità. In quel periodo ho visto un documentario su Stanislavskij, dove lui metteva in discussione il suo metodo, dichiarando che non poteva essere un metodo, perché quell’atteggiamento attoriale e quella costruzione introspettiva psicologica che lui applicava ai suoi attori, gli scaturivano dai testi di Cechov; tant’è che se lui applicava quel modello a Cechov gli restituiva una verità, ma se lo applicava ad altri testi, ad esempio l’Otello, non funzionava allo stesso modo. Questo evidentemente accadeva perché Cechov essendo un uomo del tempo di Stanislavskij aveva lo stesso bisogno, la stessa necessità e lo stesso linguaggio. Allora ho pensato  che fosse necessario  cercare quale poteva essere l’atteggiamento corretto di un attore contemporaneo che decide di mettere in scena testi contemporanei. Quindi abbiamo semplicemente iniziato una ricerca, e ci siamo imbattuti in testi come questo, come Martin Crimp, Peter Handke, che sono dei testi non di drammaturgia tradizionale, qualcuno li definisce dei post-drama: perché sono testi cha hanno bisogno d’essere agiti per essere capiti. Ed è nell’azione che si crea, che noi cerchiamo di costruire una rete di relazioni, che nel nostro caso significa anche tentare di rispondere alle domande: che significa oggi essere un attore e interpretare un personaggio, lasciandosi alle spalle la tradizione».

Quindi, Matteo Angius, qual’è il rapporto che hai con questo testo, questo personaggio non personaggio

Matteo Angius: «Credo che la parola che spiega un po’ quello che abbiamo fatto sia legittimità, una questione di leggibilità. Cosa mi legittima a fare uno spettacolo; con quale legittimità assumersi un personaggio, assumersi una credibilità. E lavorando abbiamo trovato una forma che fosse quella di credere a delle piccole relazioni, che possono essere costruite sul palco, ma per essere vere e credibili devono partire prima di tutto dalla persona, prima che dall’attore o dal personaggio. Questi sono i tre livelli su cui lavoriamo, persona, attore personaggio, e uno quando viene a teatro non può vedere solo la persona o solo il personaggio. Ed è da qui che parte il lavoro sull’attualità della replica, che è un paradosso, ma è proprio questa l’idea, far sì che la replica sia sempre attuale e non vada a riprodurre semplicemente una regia, un’interpretazione o un testo,  ma lo metta in crisi ogni sera. La realtà è che quello che abbiamo lavorato, ogni volta lo mettiamo lì in crisi e a nudo di fronte allo spettatore, è a partire da qui che si stabilisce la relazione di partecipazione. E ogni volta lo spettacolo è diverso».

Una percezione sempre diversa quindi anche da parte del pubblico. Il teatro ormai lavora sempre più sulla percezione, è una delle frontiere che si sta attraversando…

Fabrizio Arcuri: « Il termine che userei non è percezione, nel senso che ci sono due cose fondamentali, una di queste è che gli spettacoli sono per gli spettatori. Quindi, quando noi facciamo teatro, lo facciamo per degli spettatori, è uno scarto che ci è accaduto nel corso degli anni. L’altro punto è l’importanza dell’inversione di rapporto di potere. Questo tipo di lavoro, pretende che lo spettatore parta da zero, e anche l’attore che sta in scena parte da zero, quindi la storia la costruiscono insieme. Normalmente a teatro siamo abituati a vedere delle persone che sanno delle cose e ce le rovesciano addosso, qui non è così.  Questo è il ribaltamento totale, è la decisione di consegnare il potere in mano allo spettatore. Un’apertura, una frantumazione dell’opera fondamentale. Perché se l’attore che sta in scena non fa in modo che il pubblico pensi con lui, ma possa anticiparlo, allora lo spettacolo non sta in piedi. La questione principale è partire da zero e costruire un pensiero comune che sostiene il testo, che è basato quindi, sulle relazioni che si vengono a creare, ogni sera diverse, ogni sera  come la prima.»

a cura di Camilla Toso

 

Col braccio alzato e lo sguardo al pubblico

Recensione di My Arm – Accademia degli Artefatti

nella foto Matteo Angius

Il personaggio è un trentenne dell’isola di Wight che racconta la sua breve vita, segnata dalla scelta di sollevare un braccio,e le conseguenti cure psichiatriche, la fama artistica, la cancrena e la morte. Nella narrazione una bambola e altri oggetti, ripresi in diretta da una videocamera, lo supportano.
L’attore è doppio: alle sue spalle un video ne proietta l’immagine muta, con la quale crea un dialogo, ed insieme costruiscono la storia per il pubblico.
La persona è Matteo Angius, perfetto in questo ruolo per il suo sguardo profondo, a tratti, infantile, che attira subito l’attenzione e le simpatie del pubblico, ed il modo di fare spigliato, un po’ strafottente, completamente a suo agio tra platea e palco.
A fargli da “spalla” Emiliano Duncan Barbieri, che accompagna il racconto, ambientato tra gli anni ’70 e gli anni ’80, con interventi musicali dei maggiori successi rock di quegli anni. Con la chitarra elettrica ed un microfono, crea pause narrative ad alto volume, offrendo, inoltre, la possibilità al suo compagno di disparate gag.

Lo spettacolo diventa così molto divertente, e la storia acquisisce veridicità perché viene costruita di fronte ai nostri occhi, ci viene raccontata con una sincerità così disarmante da non sembrare mai assurda o irreale: viene quasi voglia di alzare il braccio per fare una prova. Questo perché Fabrizio Arcuri realizza una regia completamente aperta al pubblico, e dedicata ad esso, all’interno di un panorama teatrale di ricerca che ha spesso, ultimamente, relegato gli spettatori in poche file di sedie, concedendogli il privilegio di assistere al lavoro a patto che non disturbino l’”artista all’opera”.

Assitendo a My Arm ci si sente, invece, necessari: perché la necessità di cui parlava Antonin Artaud ne Il teatro e il suo doppio non appartiene solo a chi fa teatro, ma anche a chi lo guarda. La fame di ascolto, visione, rende consapevoli che senza i nostri occhi e le nostre orecchie lo spettacolo non sarebbe stato lo stesso: la splendida sensazione di assistere ad un evento unico ed irripetibile, che, pur appartenendo per statuto al teatro, in questo caso si fa più evidente e potente.
Con una forma teatrale che predilige il contenuto, il pensiero, la parola all’estetica, l’allestimento dell’Accademia degli Artefatti offre sessanta minuti di teatro puro, essenziale ma innovativo e carico di energia che non può lasciare indifferenti.

E lo stesso Artaud, in Vivere è superare se stessi, può venirci in aiuto per capire un po’ di più l’atto di sfida del trentenne narrato da Crouch:
Bisogna fare uno sforzo per risalire il corso delle cose, e capovolgere gli eventi. Con purezza e sincerità di fronte a noi stessi… perché vivere non è seguire come pecore il corso degli eventi, nel solito tran tran di questo insieme di idee, di gusti, di percezioni, di desideri, di disgusti che confondiamo con il nostro io e dei quali siamo appagati senza cercare oltre, più lontano. Vivere è superare se stessi, mentre l’uomo non sa far altro che lasciarsi andare.


Visto al Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

Silvia Gatto

Uno spettacolo fatto ad arte

Recensione di My Arm – Accademia degli Artefatti

foto di Alvise Nicoletti

foto di Alvise Nicoletti

In un silenzio che sembra portare con sé qualcosa di sacro, una vecchia pellicola proietta sul fondale del palco del Teatro Fondamenta Nuove le immagini di un bambino cicciottello, felice e senza pensieri, circondato dall’affetto famigliare. Si prova una dolce sensazione malinconica, consapevoli di vedere un frammento di un passato gioioso, di una piccola storia che non è più e che non tornerà. Ma se lo spettatore si stava già crogiolando nella tristitia è subito costretto a rimescolare le sue sensazioni: le luci si accendono e il protagonista della serata, seduto comodamente in platea, scatta in piedi chiedendo se ‘vogliamo iniziare’. Strano modo di partire per uno spettacolo. Ancora più folle se l’attore chiede direttamente agli spettatori di dar libero sfogo ai loro pensieri, creando delle associazioni con ciò che si è appena visto, e per lo più se si fa consegnare degli oggetti personali per farli diventare complementari alla scena. Tutto previsto dal testo My Arm del drammaturgo inglese Tim Crouch che, riproposto dall’impeccabile compagnia dell’Accademia degli Artefatti, lascia spiazzati e spiazza continuamente, diverte e fa sorridere rendendo partecipe il pubblico alla storia personale, e assurda, di un ragazzo trentenne morto e vivo allo stesso tempo. È infatti un brillante Matteo Angius a dare vita a questo monologo che racconta di come da bambino abbia deciso di tenere il braccio sollevato sopra la testa per poi non tirarlo più giù, incuriosendo e irritando insegnanti dapprima, facendo disperare i genitori e i medici poi, per finire con il divenire un richiesto soggetto artistico e protagonista di opere d’arte. Ma la ‘Signora oscura’ si insinua dentro quel suo braccio atrofizzato, distruggendo i suoi organi interni e portandolo lentamente alla morte: lo spettacolo così si svolge come un paradosso, dal momento che chi narra dovrebbe trovarsi già nell’aldilà. Sospeso tra verità e finzione, Matteo persona-attore-personaggio esce da se stesso, declinando la sua parte e affidandola a un pupazzetto ripreso da una telecamera live e proiettato in un piccolo schermo alle sue spalle: continuamente veste e getta i panni del protagonista, creando una situazione assurda e cercando la complicità di chi sta in sala, con sguardi e battute ad hoc. Geniale la trovata dello schermo sul fondale del regista Fabrizio Arcuri, fondatore storico della compagnia: un video registrato mostra Matteo che con la sua gestualità dialoga con il protagonista in scena, commentando in silenzio ciò che viene raccontato. L’altro da sé, presente già nel pupazzetto col braccio alzato, continua a moltiplicarsi in modo schizofrenico: sulla scena si hanno così ben tre rappresentanti dello stesso personaggio ma sempre un unico attore bravissimo a far combaciare il suo mondo fatto di parole con quello delle immagini dato dal video – curato da Lorenzo Letizia – che continua a scorrere, battendo il tempo come un metronomo. Tempo che è anche scandito dalle musiche suonate con la chitarra elettrica da Emiliano Duncan Barbieri: dei brani rock inconfondibili come Knockin’on heaven’s door, Anarchy in the UK, Smells like teen spirit riportano a degli anni specifici, accompagnando Matteo nella rievocazione di alcuni episodi della sua vita.
Lo spettacolo, che insieme ad An oak tree fa parte del progetto Ab-uso, consegna un gioiellino impeccabile, un orologio svizzero fatto ad arte che si mette in discussione ogni sera, proponendo delle continue ipotesi, creando nello spettatore uno spiazzamento in grado di mettere in crisi il suo punto di vista e confondere il piano della realtà con quello della finzione. Un teatro che sorprende e lascia piacevolmente perdere le coordinate.

Visto al Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

Camilla Toso