Acqua di colonia, ultimo lavoro di e con Elvira Frosini e Daniele Timpano, è uno spettacolo sulla storia del colonialismo italiano. Sì, ma quale?, visto che è una vicenda durata pochissimi anni, che risale all’ormai ben superata (?) epoca fascista, e non siamo mica stati grandi imperi come l’Inghilterra o la Francia – questo è il luogo comune condiviso –, e comunque nessuno ce l’ha raccontata a scuola o sui giornali, se ne sa poco o praticamente niente: appunto, solo quel che resta di consolatorio e giustificatorio nell’immaginario collettivo. E invece non è così, lo spettacolo centra l’obiettivo fin dal titolo: è una vicenda rimossa, ben più profonda e radicata di quello che crediamo (risale addirittura alla fine dell’Ottocento, ben prima che Mussolini e i suoi andassero alla ricerca di “un posto al sole”) – proprio come un profumo, quell'”acqua di colonia” che resta sulla pelle a distanza di tempo, nell’aria, tutt’intorno a noi oggi che si dibatte tanto di Medio Oriente, migranti e ius soli.
Acqua di colonia si fonda da un lato sul montaggio, in una sorta di blob sempre più dilagante, di documenti che certificano la storia di colonialismo istituita e legittimata dal nostro Paese: dalle guide di viaggio dei primi del Novecento, citate parola per parola, alla testimonianza richiamata di personaggi celebri coinvolti nelle guerre d’Africa come Indro Montanelli; dalla creazione delle prime leggi razziali al razzismo veicolato dal cinema anche d’autore – si va dall’inquietantissimo Topolino in Abissinia a Tognazzi, e aprendo lo sguardo oltreconfine da Stanlio e Ollio alla Mia Africa con Meryl Streep – e ancora perpetrato decenni e decenni dopo dalle pubblicità in TV (dalle caramelle Tabù all’iconografia degli appelli delle ong); dalla passione esotista delle grandi opere della modernità (vedi Aida, scritta per l’inaugurazione del Canale di Suez da un Verdi che come Salgari e altri non aveva mai messo il naso fuori dall’Occidente) alle canzoni fasciste (Faccetta nera su tutte ovviamente) a quelle pop degli anni Settanta (basti pensare ai Watussi).
È una vicenda che comincia almeno nella seconda metà del XIX secolo, attraversa tutta la storia e la cultura del Novecento (siamo noi a sperimentare i primi bombardamenti aerei di sempre, in Libia nel 1911), per arrivare all’oggi in un intreccio di opinioni razziste e coloniali che saltano da Immanuel Kant al barista sotto casa, da Rousseau ai pregiudizi di amici e parenti, da Aristotele a youtube. Sarebbe impossibile riconoscere da chi proviene il commento in questione se gli attori dopo qualche secondo non ne dichiarassero la fonte, disegnando così una storia coloniale radicata e antichissima, e tuttora assolutamente operante, all’interno dell’immaginario e delle consuetudini europee; e però anche dichiaratamente, specificamente italiana, se pensiamo – come ci ricorda lo spettacolo – che pur non avendo una tradizione coloniale del calibro di Gran Bretagna o altri Paesi, l’Italia durante la guerra d’Etiopia – impresa sanzionata dal proto-Onu ma lasciata transitare da Suez – in pochi mesi ha impiegato 500.000 soldati, quanto gli americani in 15 anni di Vietnam.
Però, appunto, se ne sa poco o niente, e il senso primo nella visione di questo spettacolo di Frosini/Timpano è senza dubbio la scoperta e la condivisione fra gli spettatori di un rimosso storico comune e importantissimo, sia per il passato che per il presente: “c’abbiamo messo una bella pietra sopra… una pietra tombale”, ci dicono dal palco, su soprusi, abusi, sopraffazioni, distruzioni e guerre tanto che pochi ancora se ne ricordano e ne parlano, e il ruolo di Acqua di colonia è proprio portare a emergere questo rimosso, attenendosi talvolta ai fatti specifici legati all’Africa Orientale Italiana ma poi esorbitando verso quello che di coloniale permane nella cultura contemporanea del Paese, d’Europa e d’Occidente. Già “soltanto” per questa ragione è a mio avviso uno dei lavori del teatro italiano più importanti degli ultimi mesi: capace di intrecciare, com’è nella cifra della compagnia, informazione storica, analitica e verticale, e traiettorie orizzontali, più sfumate e culturali; comicità e – siccome in questo discorso c’è veramente poco da ridere – critica spietata, che non fa sconti a nessuno, nemmeno agli stessi autori e performer.
Perché dall’altro lato – anche questo è un tratto distintivo del lavoro di Frosini/Timpano – al montaggio di scene, fonti, frammenti storici intorno al tema, spesso citati così come sono, da libri, film o canzoni d’epoca, fa da contrappunto la prospettiva individuale degli artisti, in questo caso localizzata soprattutto nel racconto della modalità in cui si avvicinano all’argomento e provano a portarlo in teatro in forma di spettacolo (tutta la prima parte di Acqua di colonia è un “come se” prima detto e poi anche fatto che ha al centro le potenziali soluzioni sceniche per trattare un tema così atroce, mentre torna in continuazione la parola “immaginate” rivolta al pubblico, a tessere un rimando sempre straniato fra scena e platea). Anche se il rapporto fra l’oggetto in questione e la posizione degli artisti a riguardo viene costruito su un piano di meta-discorso teatrale, mentre solo in piccolissima parte la dialettica storia/persona, teatro/performer riesce a esprimersi su un piano più biografico, fuori dai limiti del palcoscenico.
Ma il dispositivo in buona parte riesce a funzionare bene, certificando una tappa di sviluppo importante nella messa a punto di un linguaggio condiviso dal duo Frosini/Timpano (prima con un percorso artistico individuale ben marcato) in uno spettacolo che in fondo è fatto di “niente” (si fa per dire): senza supporti scenografici o effetti scenici, possibilità d’ambientazione o rappresentazione, rimangono soltanto gli attori, i loro corpi, i movimenti stilizzati e le loro parole, sopraffatti da un catalogo sempre inaspettato di elementi che rimandano a un colonialismo che si rivela essere non del tutto “post-“, ma sempre attuale, davanti all’incommensurabilità di una storia non voluta e rimossa che forse proprio perciò continua in sordina fino al giorno d’oggi (anche questo un elemento ricorrente e discriminante nel percorso della compagnia rispetto alla scelta dei temi su cui lavorare). E di fronte, per tutta la prima parte dell’allestimento, a una giovane seduta su una seggiolina, che assiste alla rappresentazione scrutando la platea: una persona di colore, diversa a ogni replica, che – ci informano – viene reclutata sul posto ed è ignara dello svolgimento dello spettacolo. Più di tutto il suo sguardo silenzioso è un ammonimento senza scampo, un innesco di straniamento continuo, a tratti lancinante per la giustapposizione a battute particolarmente feroci, che riporta alla realtà impedendo di lasciarsi andare alla messinscena, alle sue trovate sceniche e alle gag comiche che lo costellano.
Se la possibilità della rappresentazione e della narrazione è continuamente negata – l’una tramite i tentativi di messinscena, sempre interrotti, di fatti e figure del colonialismo storico e culturale, e l’altra per la tipologia di montaggio non lineare dei frammenti performativi –, va anche detto che dal punto di vista strutturale lo spettacolo dimostra una linea ben precisa: oltre il livello informativo e politico, pure importantissimo e primario, l’allestimento condivide anche una sorta di racconto di se stesso, in cui il discorso teatrale si apre al pubblico, tramite la messa in scena di alcuni passaggi del percorso di creazione. L’esito è quello di un meccanismo che rende gradatamente chi guarda partecipe di ciò che sta accadendo in scena, in un itinerario che parte dalle condizioni reali per svolgersi lungo un progressivo, graduale sprofondamento nella dimensione della finzione e dell’astrazione, come ad accompagnare il pubblico man mano al dato di sospensione dell’incredulità alla base del teatro che tante volte in epoca contemporanea è stato discusso e anche negato. L’allestimento parte all’inizio da un realissimo straniamento meta-teatrale (gli attori già sul palco che guardano il pubblico, e parlando di come e perché si potrebbe fare questo spettacolo); procede coi vari tentativi di racconto per frammenti della storia del colonialismo italiano fra passato e presente; per arrivare infine nella seconda parte a svilupparsi tramite la concretizzazione delle immagini/scene prima annunciate solo a parole, culminando in un finale di grande impatto visivo ed emotivo – che qui non sveliamo, ma che ci riporta in immagine il tentativo di rimozione da parte dei colonizzatori, mirato ad occultare le atrocità commesse, il fatto che anche l’Italia ha un suo passato squisitamente imperialista, profondamente coloniale. Che però – almeno con questo spettacolo – torna subdolamente a trafiggere le coscienze, instillando un retro-pensiero a cui poi è difficile non ritornare, appunto come un profumo di colonia troppo intenso rimasto dopo giorni e magari anche lavaggi a infestare menti, corpi e abiti di persone che tante volte non se ne ricordano neanche più.
Visto e rivisto al Teatro Ca’ Foscari (Venezia) e all’ITC di S. Lazzaro di Savena (BO)
Roberta Ferraresi