In occasione della residenza artistica a Teatro Fondamenta Nuove, realizzata nel mese di febbraio, Ilaria Dalle Donne ha ideato un percorso di visione per introdurre gli spettatori al “duro” ring di Alice disambientata, una intensa rimeditazione fisica e mutante dell’omonimo libro di Gianni Celati. Nell’arco di pochi giorni è stato possibile, infatti, fare una breve sosta allo spazio WeCrociferi (un bellissimo palazzo veneziano) per la performance È l’ora del thè, e assistere alla presentazione del lavoro. A partire dalle bambine con marshmallow e mele candite, intente a suonare il violino o a bere del tè, Ilaria Dalle Donne ci ha guidati nella ricerca di una Alice meno fantastica anche se fantasmagorica. Terrenamente “disambientata”. Oltre a raccontarci l’esperienza veneziana, l’autrice e interprete veronese ha approfondito anche il processo creativo e la sua ricerca artistica.
Da cosa è scaturito il desiderio di creare un percorso – attraverso delle tappe d’incontro – prima della presentazione di Alice disambientata a Teatro Fondamenta Nuove?
Alice disambientata è uno spettacolo solista; per Alice è un ritrovarsi da sola e prenderne coscienza. Ho trasferito questo pensiero in teatro: tutti fanno il proprio lavoro, hanno un luogo da gestire, uno spettacolo da fare, e si formano così dei nuclei molto chiusi, autistici.
Mi piacerebbe che si creassero delle reti tra Venezia e Verona, tra Verona e Milano, ecc. perché credo che funzionerebbe meglio. Le occasioni che possono far nascere queste relazioni esistono già, ma chi lavora all’interno di un contesto ne perde i confini. Questo è diventato per me un micro-obiettivo: per far girare uno spettacolo e farlo vedere al maggior numero di persone, “io” divento un mezzo e, come Pollicino, creo un percorso e dei contatti.
Gli appuntamenti veneziani sono stati un esperimento; lo scorso anno ero già stata al S.a.L.E. Docks con #2 Appunti scritti a penna sul palmo della mano, un primissimo embrione di Alice e questo precedente ha consentito di tracciare un legame con Teatro Fondamenta Nuove. La massima collaborazione ha consentito di fare incontrare diversi pubblici.
Questo concetto è presente anche in Alice nel paese delle meraviglie: Gianni Celati scrive che «Alice è figura in movimento», questo crea già una rivoluzione (non politica), genera uno spostamento che travolge le cose inserite in una geometria. Lo stesso vale anche per lo sport: l’atleta è legato al movimento, anche se più fisico e meno concettuale, l’obiettivo è fissato nello spostamento da un punto all’altro. Cercare l’altro, non voler marcare un punto, vuol dire per Alice disambientata togliersi di dosso tutte le regole istituzionali e familiari, le identità posticce, perché soltanto nel nulla vi è la coscienza di ciò che si è. Alice trova questo nel tè delle cinque, dove non c’è il tempo, in quell’unico momento di non controllo, c’è controllo.
Come hai lavorato sull’Alice disambientata di Gianni Celati?
Il testo di Celati è uno scritto collettivo, sono quindi tutte frasi spezzate. La prima volta l’ho letto dall’inizio alla fine, come mi hanno insegnato, poi ho iniziato ad aprirlo casualmente. È stato un lavoro di ascolto sulle parole scritte, sui pensieri che non volevano mai porre di fronte a una conclusione, ma erano solo delle suggestioni. Tra i riferimenti su cui ho lavorato vi è certamente la concezione di Alice come una figura (non diventa mai un essere umano, un qualcosa di finito); l’idea di un contenitore, di un percorso a zig-zag, di una ricerca emotiva (molto affettiva), una ricerca di un’identità abbandonata e persa; e ancora, tutte le suggestioni sul Bianconiglio.
Ho cercato di tener presente tanto il testo quanto quella che era la mia ricerca, un’indagine su una nuova forma, un modo di stare, di parole da dire ma senza dirle. Alice disambientata sottolineava proprio il fatto che la parola stessa è una regola convenzionale e questo mi ha dato la forza di seguire il mio cammino senza la parola, mettendomi in bocca un paradenti.
La mia volontà era di consegnare alla parola la stessa sostanza diretta di un sogno; come quando lo si racconta – quando è ancora sotto la lingua e se ne sente il gusto – e nel descriverlo con le parole non è mai ciò che si è vissuto, sembra sempre un po’ troppo poco brutto o un po’ troppo poco bello. Alice disambientata deve restare sottopelle, è il suo unico posto perché non può essere nello stomaco, nel cuore o nel cervello, Alice ha bisogno di appropriarsi e andare via.
Dai 20 minuti presentati alla finale del Premio Scenario 2013 a Santarcangelo, allo spettacolo che hai portato a Fondamenta Nuove, Alice disambientata ha seguito un’evoluzione, un cambiamento. Qual è stato il lavoro di questi mesi?
La necessità di cercare una mia forma, di affondare la lama su questo esempio del sogno, mi ha aiutato tanto nella creazione. Ho iniziato a pensare a cosa, questa suggestione, si potesse avvicinare di più nella vita quotidiana: non volendo attribuirgli alcun riferimento onirico ho escluso la poesia, e la cosa che ho trovato più simile (e terrena) è stata la musica. Anche un brano commerciale riesce a muovere qualcosa dentro di te; la sonorità, i bassi uniti agli alti, le sette note… credo sia questa l’unica cosa che ti entra o ti respinge, che può diventare un bellissimo o un bruttissimo sogno.
È stato questo il motivo che ti ha spinto a lavorare sul rapporto tra musica e scena?
Sì, sto lavorando tanto sulla musica. Lo spettacolo è diventato prima musicale, una colonna sonora. Quando trovavo le canzoni adatte e ne andavo ad analizzare il testo, anche le parole erano perfette, si adattavano perfettamente ad Alice: la doppia voce – maschile e femminile – di Baby’s on fire (di Die Antwoord, ndr), è Alice e il Gatto del Cheshire; Digital Versicolor di Glass Candy, è l’entrata nel mondo di Alice; per non parlare poi di In Heaven (da Eraserhead di David Lynch, ndr) o di Crying di Roy Orbison. Quest’ultimo brano è stato scelto anche in riferimento al primo, sono infatti la prima e ultima canzone di Gummo di Harmony Korine, un film tanto lavorato sulla colonna sonora.
Ora sarà fondamentale approfondire la costruzione e la geometria del movimento in relazione alla musica, così come la parte finale in cui la parola si appoggia alla canzone. Anche in SWEET HOME ho lavorato con l’immagine e il suono, come se la musica lasciasse più spazio al pensiero e ti mettesse in collegamento con ciò che senti.
Trasversalmente alla creazione, stai realizzando anche dei progetti laboratoriali, in collaborazione con l’Ospedale di Borgo Roma di Verona.
È iniziato questo percorso molto spaventoso ma estremamente interessante, in due reparti dell’Ospedale. Ero stata chiamata inizialmente per il reparto di Neuropsicologia in cui fanno tanta fisioterapia perché la maggior parte dei pazienti ha subito degli ictus e ha quindi una parte del corpo paralizzata da riabilitare, da riabituare. In tanti casi non ci sarà una guarigione totale, anzi nell’ictus si verifica una suddivisione netta tra la persona di prima e la persona di oggi, quest’ultima si riconosce solo in ciò che era.
All’interno di questo reparto vi è l’associazione A.l.i.c.e Verona Onlus che mi ha chiesto di fare un laboratorio teatrale senza alcuna pretesa rispetto alla consapevolezza di questo nuovo sé, ma semplicemente per dare la possibilità di uscire da una dinamica di ospedalizzazione pesante. Per loro infatti, la cosa più bella del mondo è essere messi in una macchina che ricrea il movimento e, di conseguenza, vorrebbero essere una macchina. Dopo vari colloqui con i medici e i fisioterapisti, ho pensato di proporre un laboratorio legato totalmente al movimento, senza alcuna finalità, quasi psicomotricità, tutto però seguendo la musica. Quando mi muovo io ho un mio ritmo, ho degli impulsi legati al carattere, non sono fluida, loro sono molto più a zig-zag di me, questo è dettato sia dal loro movimento odierno, sia da una carica emotiva molto forte. Si crea così un altro ritmo, una loro musica.
E poi vi è l’altro laboratorio…
In seguito alla presentazione del laboratorio in Neuropsicologia, una dottoressa del reparto di Disturbi del Comportamento Alimentare (sempre in Borgo Roma) mi ha proposto di fare un laboratorio di 10 incontri con le ragazze. Ho cercato di trovare una linea laterale al problema perché quando lavori in situazioni di terapia, il rischio è che diventi “teatro curativo”.
Ho cercato allora di strutturare il laboratorio in modo non inclusivo, ma sempre rivolto al movimento, esterno, da un punto verso un altro. Ho chiamato questo percorso Fallen princess, facendo riferimento a un progetto graffiante della fotografa Dina Goldstein (www.fallenprincesses.com), con fotografie di principesse – da Cenerentola a Biancaneve – rappresentate nel momento della loro fine.
Le ragazze sono tutte giovanissime, dai 16 ai 21 anni, e hanno occhi che sembrano urlare una necessità di espressione, senza però sapere come sia possibile farlo. Questo è l’aiuto che sembrano chiedere.
E come possono essere sufficienti 10 appuntamenti con loro?
Non bastano.
Va riconosciuta tuttavia all’ospedale un’apertura, l’attenzione verso un teatro che non sia unicamente inteso come terapia…
Questo è molto bello e la paura è legata al non cadere mai nel facile. È uno stimolo continuo a non fermarmi alla prima idea perché non è mai quella giusta. Questo dovrebbe valere anche nella creazione di uno spettacolo, indagare e andare oltre la prima suggestione.
E poi imparo, imparo da tutte e tutti loro.
Intervista a cura di Elena Conti