Amir Reza Koohestani Dance on Glasses

Una giornata a Santarcangelo45

Il secondo giorno della 45a edizione del Festival di Santarcangelo, con i suoi spettacoli, i suoi incontri, le sue performance partecipate, le sue magliette, le borsine e i cartelloni disseminati per la città ha sintetizzato perfettamente gli obiettivi del festival tutto: ispirare, ci dice Silvia Bottiroli nell’editoriale di Index (il giornale che accompagna le visioni degli spettatori), “domande sul ruolo dell’arte, su quel che può fare e che le è permesso di fare”, articolare il “rapporto tra corpo e archivio, tra gesto e storia, tra danza e politica”.
Di quanto offerto nell’intera giornata, abbiamo avuto modo di vedere quattro spettacoli-percorsi.

Piazza Ganganelli, con un'opera di Andreco

Piazza Ganganelli, con un’opera di Andreco

Audio-Guide di Christian Chironi è un attraversamento di alcuni luoghi del paese – simile a quello già ideato dall’artista per il Marché de la Libération di Nizza e per il Mercato di Piazza Seminario di Cuneo. Vengono fornite allo spettatore un’audio-guida e una mappa che riproduce la piazza principale della città – dove il venerdì si fa il mercato – e alcuni luoghi limitrofi, e gli viene data un’ora per fare la sua passeggiata. Si raggiunge il luogo deputato, si digita il numero legato al quel preciso punto, segnalato sulla cartina, e si ascolta una voce narrante. Quest’ultima, nella maggior parte dei casi, introduce audio-registrazioni delle voci e dei rumori del mercato, brevi scambi tra l’artista e un commerciante, o rumori altri, associati alla bancarella che si posiziona nel punto scelto. Ad esempio, arrivati al banco della pesca, dopo una breve descrizione di quanto vedremmo se ci fosse il mercato – i tipi di pesce venduto, le cassette di polistirolo, un delfino di plastica – inizia uno scrosciare di onde che ci accompagna ancora per qualche secondo: documento sonoro.
La città si fa allora museo, la piazza luogo di contemplazione, l’udito spazio di visioni. È un breve percorso di vivisezione dei luoghi e, allo stesso tempo, un gioco di immaginazione e, a tratti, di immedesimazione in un compratore, in un venditore, in un banale osservatore che passa di lì.

Il grande rifiuto di Ligna – artisti performativi e radio-attivisti tedeschi – mette in scena un evento storico progettato ma mai avvenuto: il Congresso della Seconda Internazionale Socialista che si sarebbe dovuto riunire nell’agosto del 1914 con l’obiettivo di organizzare un grande sciopero volto a impedire l’intervento in guerra. Ma il conflitto arrivò troppo presto e l’iniziativa fu annullata. Anche in questo caso, agli spettatori viene fornito un piccolo apparecchio audio e, per circa due ore, essi diventano gli attori del congresso e dello spettacolo sul congresso. Siamo una comunità – quella allargata contemporanea – omologata in una socialità imposta dall’esterno e incapace di compiere atti di rifiuto. Si generano, dunque, azioni, relazioni, gruppi: c’è chi compie ogni minimo movimento richiesto, chi si immedesima, chi detesta e sbuffa, chi si siede in un angolo e diserta, noncurante di quanto gli viene detto dall’apparecchio. Perlopiù: ci si osserva gli uni con gli altri e, più tardi, per strada o durante altri spettacoli, ci si riconoscerà complici. Intanto, però, la storia scorre nell’udito e nella mente ed è difficile ascoltarla, troppo impegnati come si è a svolgere azioni. Inoltre, si assiste a una serie di fenomeni interessanti: anche chi non compie l’azione richiesta sta, in realtà, influenzando l’andamento dell’intero processo, poiché la mancanza del suo movimento incide sulla struttura complessiva; quando lasciati liberi di agire nello spazio, molti degli spettatori tendono a guadagnare una posizione di frontalità, come a voler sfuggire all’eterodirezione, a volersi ritirare nella fruizione tradizionale; i più timidi sembrano diventare più timidi, i più estroversi più estroversi.

Breivik’s Statement di Milo Rau, artista svizzero, è esattamente ciò che dice di essere: la dichiarazione di Anders B. Breivik, terrorista norvegese che, nel 2011, sterminò 77 persone. Il discorso di circa un’ora viene letto sul palco da una donna (Sascha Ö. Soydan) ripresa da una telecamera, la cui immagine si raddoppia in un grande schermo alla sua sinistra. Non c’è apparentemente nulla di più.
Solo che: la dichiarazione venne censurata dalle televisioni e dai giornali; ha una sua logica interna che, se si dimenticano i diritti umani, è una logica stringente; è piena e argomentata, con le sue statistiche e i suoi autori di riferimento.
Solo che: Breivik ha ucciso a sangue freddo 77 persone; noi crediamo nei diritti umani; le argomentazioni e le statistiche ci appaiono deliranti.

Il pubblico di Breivik's statement

Il pubblico di Breivik’s statement (foto di Luca Telleschi)

Essendo ciò che dice di essere e venendo presentato per quello che è, con solo un sottilissimo margine di lettura registica – che si riduce alla scelta di una donna-lettrice, per evitare qualsiasi verosimiglianza –, lo spettacolo, in pratica, non ammette replica e nega dialettiche possibili, poiché l’atto compiuto è stato tanto disumano da essere assolutamente ingiustificabile. È come se, mentre l’attrice afferma un postulato, lo spettatore fosse portato ad affermarne, inevitabilmente, uno contrario, in un circolo vizioso chiuso senza soluzione di continuità e, soprattutto, senza alternative, in cui i linguaggi utilizzati sembrano non avere più valore, per lasciare il posto a una riflessione politica che si specchia in se stessa. Viene spontaneo domandarsi, quindi, per quale ragione un esperimento del genere si serva del teatro, arte relazionale e multidisciplinare per eccellenza.

Timeloss di Amir Reza Koohestani con il suo Mehr Theatre Group, regala, infine, una nuova sfida. Spettacolo di assoluta frontalità, vive in gemellaggio con Dance on Glasses, realizzato nell 2003 dello stesso regista. Allora, l’autore metteva in scena una separazione probabilmente amorosa, oggi richiama gli attori per chiedere loro di ri-doppiare il video del vecchio spettacolo. Quello che era un tavolo ai bordi del quale stavano seduti i due personaggi, uno di fronte all’altro, si è sdoppiato in due tavoli più piccoli, sfalsati, ai quali siedono i due, più provati, guardando il pubblico.

Timeloss (foto di Ilaria Scarpa)

Timeloss (foto di Ilaria Scarpa)

In un primo momento, l’uomo e la donna – interpretati dagli straordinari Mohmmadhassan Madjooni e Mahin Sadri – sembrano dialogare senza mai interagire, poi viene svelato il senso del loro essere lì e si assiste alla proiezione, su due schermi alle loro spalle, di Dance on Glasses. L’azione, quindi, inizia ad avvitarsi su se stessa, in un ping pong tra passato e presente, tra il video e il live, tra lo spettacolo che fu e gli attori-personaggi che oggi lo reinterpretano, doppiandolo. Ciò che è avvenuto, come le cose si sono evolute poi, ciò che sarebbe potuto avvenire ma i personaggi non sono stati abbastanza forti o pronti a realizzare: tutto questo passa e si intreccia. Poi, avviene una specie di magia: il video e il live vengono a combaciare e le parole dei personaggi di Dance on Glasses che, nel passato, acquisivano un significato, ora trapassano gli attori-personaggi di Timeloss, si fanno violente, crudeli, tragiche. La vita è passata addosso a quest’uomo e a questa donna e alle loro certezze, lasciandoli, infine, soli, traditi, disillusi. È un interessantissimo gioco di specchi che si serve di linguaggi diversi rendendoli funzionali a un racconto di straordinaria umanità.

Ogni cosa è difficile, oppure no. È tautologico.
Ognuno degli spettacoli appena descritti a grandi linee, può essere letto e visto da angolazioni differenti e con risultati estetici diversi, ognuno ispira domande e alimenta la coerenza della vision dell’intero Festival.
Ognuno di essi, alcuni più di altri, chiama alla partecipazione attiva il proprio spettatore: Audio-guide lo porta a muoversi nei luoghi e a interagire con storie e persone invisibili; Il grande rifiuto lo trasforma in “attore” della “Storia”; Breivik’s Statement lo agghiaccia nella sua brutalità e non ammette contraddittorio; Timeloss lo guida nell’attraversamento di situazioni e linguaggi diversi, paralleli e, infine, incidenti.
Ogni artista, inoltre, richiama un’idea di Storia e, quindi, di memoria: Chironi la storia dei luoghi; Ligna una fantastoria possibile; Rau una storia recente e condivisa; Koohestani una storia personale.
Ogni opera, infine, mira alla ricostruzione (re-enactment) di qualcosa: la prima, ricostruisce il percorso fatto dallo stesso artista durante il processo di creazione; la seconda l’evento mai avvenuto; la terza l’oggetto di censura e, di conseguenza, la strage; la quarta una vicenda passata che ha ancora eco nel presente.

Allora, forse, quello portato avanti a Santarcangelo è un discorso sul tempo e sul ruolo dei singoli e delle collettività nella sua gestione condivisa. Ma è anche un discorso sulla visione, come denunciano lo stesso editoriale della sua Direttrice e le frasi-manifesto di Romeo Castellucci: “Guardare non è più un atto innocente”, o “Sarà come non poter distogliere gli occhi dallo sguardo di Medusa”. Si viene chiamati all’incanto, a sostenere lo sguardo, a dichiarare un punto di vista, a combattere la codardia degli occhi bassi, della non-partecipazione. Ma si viene chiamati (e, a volte, si subisce), anche, al disagio, reazione naturale in alcuni casi, alla risposta violenta, alla presa di posizione univoca che può diventare impositiva. Allora, si intravede qualche pericolo e ci si domanda: dove finisce la provocazione costruttiva e inizia l’asserzione radicale?

Nicoletta Lupia