Recensione a Diario di un pazzo – regia di Andrea Renzi
Cappello calato in testa, occhiale spesso, fisico troppo piccolo nel cappotto troppo abbondante, Roberto De Francesco è Papaleo, immagine italiana del Propriscin gogoliano. Nella pièce in scena al Teatro Argot Studio fino all’11 novembre, Pietroburgo lascia il passo alla provincia italiana, gli anni trenta del 1800 diventano gli anni cinquanta del 1900, le Memorie di un pazzo si trasformano nel Diario di un pazzo, riadattato da Andrea Renzi per i Teatri Uniti.
La vita del modesto impiegato si srotola tra casa e ufficio, spazi angusti, claustrofobici, che nell’essenziale scenografia di Barbara Bessi sono racchiusi in un armadietto a due ante, prigione della realtà e covo della fantasia. Impastando dialetto napoletano e inflessioni lucane, Papaleo passa attraverso delusioni amorose e frustrazioni lavorative, umiliazioni appuntate giornalmente su un diario, unico confidente, unico amico. Incapace di fare i conti con la pochezza della propria occupazione e di affrontare la solitudine sentimentale, l’impiegatuccio si rifugia in un mondo immaginario. Dove temperare matite è un incarico prestigioso, dove il desiderio amoroso può essere corrisposto e dove i cani sono soliti intrattenere corrispondenze epistolari.
Una messa in scena tradizionale, sobria, senza grandi scossoni o grandi sorprese, che dipinge lo squallore e restituisce la mediocrità, incollata a quelle gocce di sudore che imperlano la fronte del protagonista. Uomo comune all’affannosa ricerca di un’identità diversa dalla propria, più apprezzabile, più influente, più regale, che finisce per corrispondere con quella di Ferdinando VIII. A questo proposito ci si chiede come mai la regia, che ha deciso di cambiare scenario storico e collocazione geografica, non abbia privilegiato un esempio culturalmente e temporalmente più vicino, e abbia fatto calare (così come accade nel racconto di Gogol) il modesto lavoratore dell’entroterra italiano nel reale spagnolo vissuto un secolo prima. E se questa vicenda senza via d’uscita appare distante, lontana, affidata a un momento e a un luogo che non ci appartengono, certo è che Roberto De Francesco, confuso, sconvolto, vestito di stracci e di tormenti, ben tratteggia la disperazione umana, ben incarna il delirio, ben interpreta la discesa nella follia, quella che nasce da un eccesso di normalità.
Visto al Teatro Argot Studio, Roma
Rossella Porcheddu