Arsenale della Danza

A Venezia la delicatezza di Brilliant Corners

Recensione a Brilliant CornersEmanuel Gat Dance

Semplicità, delicatezza e leggerezza si intrecciano come su una tela e costituiscono i colori primari di Brilliant Corners, spettacolo di Emanuel Gat Dance che ha chiuso la Biennale Danza 2011. Al Teatro Piccolo Arsenale l’israeliano Emanuel Gat, naturalizzato francese, diventa una sorta di pittore ed è autore completo, un dio che cura coreografia, luci e colonna sonora; dispone i corpi dei suoi ballerini come fossero dei personaggi dentro dipinti, li guida in una danza che abita lo spazio vuoto del palcoscenico costruendo una struttura che rimane aleatoria ma significante. Gat sembra il pittore di un polittico o di un numero imprecisato di tele che, affiancate tra loro, hanno nel complesso un fascino particolare, colpendo per l’accuratezza e la precisione con cui sono state realizzate, studiate nel minimo dettaglio. In questa coreografia non vi è un concetto o un soggetto ben preciso; Gat si è ispirato al compositore Theolonious Monk e al suo album del 1957 che portava lo stesso titolo dello spettacolo qui presentato in prima mondiale e che presto toccherà diverse città e capitali europee, ma anche gli Stati Uniti. Seguendo il processo di creazione jazzistica che utilizzava lo stesso Monk per le sue musiche, il coreografo israeliano si prefigge di sostituire alle note – che all’alternarsi sviluppano nuovi percorsi sonori – i passi, i movimenti, gli intrecci corporei attraversando armonie ma anche dissonanze. Ne esce un lavoro che a tratti sfiora la danza accademica per passare a posizioni e gestualità più personali e di moderna. È pur vero che lo spettacolo ha un andamento altalenante dove il ritmo è eccessivamente rallentato, soprattutto durante i duetti o i terzetti in cui gli altri rimangono in ombra a guardare o scompaiono in corse in diagonale fin troppo utilizzate. Ma la gioia di vedere quei dieci meravigliosi danzatori in abiti casual che si fanno perfetti e impeccabili interpreti di ogni movimento, andando a dipingere un vuoto fisico, fa perdonare i momenti meno attraenti in cui si perde l’energia della danza corale. I corpi dei ballerini sembrano comporre un percorso di leggerezza e purezza, di fascino e di delicatezza: nonostante siano molti sul palco, sembrano alleggerire lo spazio intorno a loro e modificarlo continuamente. L’impatto visivo e la collettività dei movimenti sono gli elementi che fanno di Brilliant Corners uno spettacolo minimale – anche per la musica a tratti assente o sempre molto essenziale – che va visto per la sua bellezza compositiva in cui non solo gli angoli ma tutto il palcoscenico diventa brillante. I danzatori, perfetti nel loro ruolo, meritano tutti di essere nominati: Hérvé Chaussard, Amala Dianor, Andrea Hackl, Fiona Jopp, Pansun Kim, Michael Lohr, Philippe Mesia, Genevieve Osborne, François Przybylski, Rindra Rasoaveloson.

Visto a Teatro Piccolo Arsenale, Venezia

Carlotta Tringali

Un terzo paradiso lontano

Recensione a Babilonia – Il terzo paradiso – coreografia di Ismael Ivo

foto di Akiko Miyake

Ultimo anello di una trilogia iniziata nel 2009 con The Waste Land e proseguita l’anno scorso con Oxygen, Babilonia – Il terzo paradiso è la nuova coreografia di Ismael Ivo che si avvicina più degli altri spettacoli a un forte concettualismo.
Anche al puro astrattismo, se non è strettamente necessaria una chiave di lettura, si richiede di diffondere emozioni, regalare in maniera indiretta sensazioni, per trovare un significato di esistenza. Davanti a un quadro non figurativo, con qualità comunicanti pur nel suo apparente non-sense, il nostro corpo è a volte attraversato da vibrazioni difficilmente descrivibili e che non sempre richiedono una razionalizzazione: semplicemente veicolano impressioni grazie alle quali si comprende di essere vivi. Babilonia – Il terzo paradiso ha forse la pretesa di paragonarsi a un quadro, come sottolinea il coreografo Ismael Ivo nelle note di regia: «un percorso astratto. Di esplorazione e libertà (…). Come su una tela bianca, si incidono le immagini delle performance fatte di visioni, suoni, passioni, gesti e movimenti che si offrono alla riflessione». Il lavoro – portato in scena da 25 giovani ballerini, tutti allievi dell’Arsenale della danza, la scuola di perfezionamento diretta dallo stesso Ivo – è composto da diverse scene che purtroppo rischiano di rimanere piccoli momenti di pura esibizione di tecnica e virtuosismo, dove i ragazzi mostrano il loro alto livello qualitativo e il loro consapevole utilizzo del corpo. Entra prepotentemente nello spettacolo, seppur in un breve momento, anche la parola: alla Babilonia danzante si aggiunge così una Babilonia linguistica come da manuale. Ecco che l’astrattismo segue, in alcuni punti, una schematicità didascalica, data non solo dalle frasi pronunciate in lingue differenti, ma anche dalla scelta di separare gli uomini dalle donne in alcune delle coreografie proposte e di lasciare che i loro corpi si connotino di una forte sessualità conforme agli stereotipi tanto combattuti nella danza contemporanea. E una volta lasciata da parte la rigorosa schematicità tornano continuamente i momenti sconnessi tra loro. I ballerini entrano ed escono dal palco dando vita a immagini molto differenti tra loro, spaziando dal balletto a movimenti meno convenzionali e attraenti, a tentativi registici di rendere un’atmosfera onirica – come il ballerino dalla testa di cavallo che più volte appare in scena, o uno specchio con cui una danzatrice tenta una interazione . Seppur curate nei movimenti, queste immagini vengono lanciate come fossero dei sassi piatti in mezzo al mare: ma chi coordina l’azione non riesce a far saltare più di una volta la stessa pietra sulla superficie dell’acqua perché sprofonda immediatamente. Rimane forte l’assenza di un legame che unisca queste piccole esibizioni e le faccia esistere e sopravvivere nel tempo, anche se solo in quello mentale. Le stesse musiche, parte integrante di tutta Babilonia, non aiutano lo spettacolo a essere coerente: regalano frammenti di leggiadra poesia le bellissime melodie barocche di Sacrificium interpretate dalla potentissima voce di Cecilia Bartoli e associate ai corpi danzanti; ma allo stesso tempo fanno rimanere perplessi se accostate a suoni mistici e distorti che in alcuni momenti interromponol’atmosfera secentesca ricreata per tentare di portare lo spettatore in una sospensione misteriosa. Sospensione suggestiva solo inizialmente su un palco attraversato da una folta nebbia dove delle pareti bianche altissime circoscrivono un interno non facilmente riconducibile a un luogo: uno spazio vuoto in cui dei corpi corrono per poi cadere e diventare un unico ammasso significante. Nell’atmosfera rarefatta – ricorda per certi versi Tristi tropici di Virgilio Sieni dove in una sorta di atemporalità apparivano corpi come provenissero da un aldilà – i ballerini rendono vibrante lo spazio, lo attraversano e lo squarciano. Dopo un inizio promettente si cade però da quel terzo paradiso promesso e si scende verso un limbo dove i corpi si fronteggiano nel tentativo di risalire verso l’alto; solo nelle ultime scene ritrovano la giusta via: con l’utilizzo di tavoli, i ballerini creano delle coreografie più convincenti, destreggiandosi tra fermo-immagine a effetto – come moderni apostoli di un’ipotetica ultima cena danzante – e regalando composizioni e movimenti che si intrecciano in una danza ben amalgamata.  Ma non bastano questi momenti per raggiungere quel paradiso cercato: esso rimane un miraggio ancora lontano.

Visto al Teatro Malibran, Venezia

Carlotta Tringali

Saper quadrare i cerchi

Presentazione dell’incontro con Susanne Franco.

Un bel racconto di O. Henry inizia così: «I moti della natura vogliono essere circolari; rettilinei quelli dell’arte. […] Quando cominciammo a muoverci lungo linee rette e far svolte ad angolo, la nostra natura cominciò a mutare». Si intitola

La quadratura del cerchio.

Partendo da questo presupposto, sembrerebbe che artista sia chi riesce a creare un punto di contatto tra la curva del cerchio e la retta del quadrato che lo inscrive.

La tecnica Graham domina la circolarità in maniera praticamente perfetta. È curioso il modo in cui questo metodo investe le fluidità corporee: fondandosi sull’articolazione tra addome e bacino, punti-culla della maternità, ne intercetta la potenza dinamica creando una sovrastruttura motoria dal forte riverbero geometrico. Il gesto è controllato, preciso come il risultato di un’operazione matematica: previsto in ogni sfumatura, ossigenato nella sua pienezza.

foto di Alvise Nicoletti
foto di Alvise Nicoletti

Attorno al corpo Graham ruota un’ortografia estetica impeccabile: silhouette atletica disegnata da tutine aderenti, presenza statuaria, gestione impeccabile dell’impulso del movimento. Quasi un cyborg fatto solo di materiale umano, ma con un sottotesto di forti – se non problematiche – pulsazioni psicologiche. Questo apparato formale, infatti, si integra alla ricerca di una comunicazione emotiva che si fonda su un personale recupero del concetto di ‘natura’. Cestinati i costumi ingombranti e la sclerodermia della tecnica accademica, il corpo si riappropria di se stesso restando lontano dalla danza libera alla Isadora Duncan, ma inscrivendo l’emozionalità all’interno dell’apparato muscolare, in una sorta di mappa corporea vitruviana.

«Martha Graham era una danzatrice, coreografa, intellettuale e americana»: questa prospettiva a fuochi multipli è il materiale vivo della riflessione di Susanne Franco, critica di danza e docente allo IUAV di Venezia, sabato 23 maggio per il penultimo appuntamento di Open Doors. Si indaga il ruolo complesso di Graham nella costruzione dell’identità artistica americana (quest’ultimo termine non è un aggettivo, ma un’attribuzione di appartenenza culturale e sociale), a partire dai modelli culturali adottati dalla coreografa. Viene proiettato Night Journey, composizione per tre personaggi principali ispirata alla tragedia di Edipo, ma filtrata dal corpo fisico e psicologico di Giocasta. Interpretata dalla stessa Graham, Giocasta è il cardine attorno a cui ruota il percorso narrativo, che si conclude rifluendo nel punto d’inizio, secondo una logica circolare che riecheggia dinamiche freudiane e junghiane.

Erede di Ruth St. Denis e Ted Shawn, Martha Graham si stacca dalla loro compagnia a metà degli anni Venti per portare avanti una propria linea di sperimentazione coreografica che porterà alla prima scintilla della modern dance. Ed è qui, forse, l’aspetto più interessante: non la tecnica in sé ma lo spirito di indipendenza mirato e consapevole che ne fa una sorta di pioniera, una donna di frontiera tra le linee rette della città.

Visto al Teatro Piccolo Arsenale, Venezia.

Agnese Cesari


 

Il respiro del corpo quotidiano

Presentazione della masterclass di Susanne Linke.

Susanne Linke, con una borsetta rossa a tracolla strizzata, sorride pacata come una tartarughina mentre Ismael Ivo la presenta al pubblico, più numeroso del solito, venerdì 22 maggio al Teatro Piccolo Arsenale. «Linke», spiega Ivo, «viene dalla mano di Wigman e Bausch», lanciando la palla alla coreografa tedesca a cui chiede di spiegare le origini storiche della danza espressionista e del Tanztheater. Ripercorrendo a grandi linee la propria esperienza come danzatrice e coreografa, Linke affonda il dito nella Germania degli anni ’50 invalidata dalla Seconda Guerra Mondiale, rifugiata nella linea brillante e “superomistica” del balletto classico. In questo contesto di negligente conservazione culturale il Tanztheater ha provocato un infarto sociale: il lavoro di introspezione a partire dalla semplicità disadorna del corpo quotidiano è stato un boccone amaro da inghiottire, appello vivo a una società irrigidita che non voleva vedere né sentire la carne viva sotto la pelle. Non è stato facile, per le linee di ricerca coreografica che riuniamo sotto il minimo comun denominatore di “Tanztheater”, trovare una piega accogliente all’interno della cultura tedesca, e soprattutto conquistarsi una cornice di legittimità tra gli operatori teatrali. Tra gli anni ’60 e ’70 è il perno della svolta, con un crescente sostegno di pubblico e critica: in questo periodo Linke entra nella compagnia di Pina Bausch, per poi proseguire lungo una direttiva coreografica propria.

foto di Alvise Nicoletti

foto di Alvise Nicoletti

Oggi, momento in cui più che mai il danzatore/coreografo deve guardare con coscienza al passato prima di mettere i piedi nel domani, l’Arsenale della Danza ha invitato Susanne Linke a tenere una masterclass di due settimane per gli allievi di Ismael Ivo. Una masterclass “per” e “con” i ragazzi, in cui si crea un circuito di comunicazione collettiva dalle forti sospensioni personali. Linke rifiuta le grandi drammaturgie, le tematiche imponenti che crollano dall’alto come soffitti pericolanti, per concentrarsi su ciò che è piccolo, palpabile, quotidiano, piuttosto che sulla sofisticazione di partiture astratte. Avendo cura di non dare volume a sfumature patetiche, eccessive, la coreografa stimola i danzatori a cercare se stessi nello spazio e nel gesto, valorizzando le proprie possibilità espressive senza deragliare verso derivevirtuosistiche o puramente estetiche. Si usano pochi elementi, nudi, freudianamente “ricchi di affetti”. La scena è vuota, le quinte sono sparite, la fila di specchi sul fondale è stata girata: se ne vede solo il dorso nero. La presentazione dei ragazzi comincia con l’elaborazione di un’improvvisazione già avviata con la coreografa che ha preceduto Linke, Geyvan McMillen. La seconda parte è una coreografia della stessa Linke che si fonda sui principi complementari di yin e yang: l’intero gruppo si muove in un unico abbraccio coreografico, percorrendo il palco con lunghe scie migratorie in cui la partitura gestuale è modulata dalla respirazione collettiva. I ballerini, doverosamente attenti alle interferenze delle risonanze cromatiche, sono vestiti con i consueti abiti da prova, ma stavolta in bianco e nero. Il respiro dei danzatori graffia aritmicamente l’aria. Non una nota di musica.

Visto al Teatro Piccolo Arsenale, Venezia.

 

L’esotico è un luogo culturale

Il video sul coreografo e artista cinese Shen Wei dura pochi minuti. Elisa Guzzo Vaccarino lo commenta per aprire la riflessione sul più ampio rapporto tra l’europeo e il non europeo/esotico, tematica malleabile che attraverso le esigenze sociali e culturali delle varie epoche è diventata una sorta di mitologia. ‘Esotico’ è l’alone suggestivo esercitato dai paesi lontani, specialmente tropicali e orientali, bottino succulento di un Occidente rampante e colonialista. Vaccarino cita giustamente Bayadère, balletto tardo-ottocentesco ambientato in un’India deformata dal gusto europeo, in cui danzatrici sacre si muovono a tempo di valzer. «Oggi», dice Vaccarino, «il fascino dell’esotico non esiste più», nel senso che ormai ogni cultura ha un suo esotico da captare e rielaborare, e l’univocità occidentale del fenomeno è andata sgretolandosi. Proprio questo è il fuoco del dibattito di sabato 16 maggio, ovvero come la danza sia uno dei primi e più diretti media per accogliere senza troppi scossoni il primo impatto di culture che si toccano.

Foto di Alvise Nicoletti

Foto di Alvise Nicoletti

La barriera culturale tra l’Europa e il suo ‘oltre’ ha bisogno di essere continuamente frizionata per poter essere sensibile agli stimoli. In questo contesto si inserisce il lavoro di Shen Wei, ex danzatore dell’Opera di Pechino, transfuga a New York dove fonda la propria compagnia, la Shen Wei Dance Arts, e solo in seguito riabilitato dalla madre Cina.

Mentre Vaccarino e Ismael Ivo spiegano il ruolo della danza nei crocevia culturali come uno dei primi spazi occupati dal concetto di identità multiple (vedi Akram Khan, Sidi Larbi, Saburo Teshigawara), i ballerini dell’Arsenale della Danza occupano silenziosamente il palco, invitati da Ivo. Si scaldano lentamente, vestiti, come al solito, con i loro abiti di prova. Tutto è a vista. Segue un’improvvisazione, studiata dai danzatori nelle due settimane precedenti con la coreografa turca Geyvan McMillen, al cui centro ruota il tema dell’identità: “Chi sono io?”, esplorata da ciascuno dei ballerini in cinque diverse forme. Non c’è musica, solo i corpi-mappa dei ragazzi che tracciano le loro linee emotive e caratteriali. Ma la questione dell’interculturalità resta prioritaria e attuale, pulsando nelle orecchie di un pubblico chiamato a mettersi un po’ in discussione: se la danza sceglie di saltare qualche siepe nella corsa verso l’integrazione culturale, anche il pubblico deve mettersi in testa l’idea di sgambettare, ogni tanto… per non rimanere indietro.

Agnese Cesari

… Cenerentola arriva in ritardo

Così come Cenerentola arriva a palazzo a ballo già iniziato, il Tamburo di Kattrin mette il naso nella programmazione della Biennale Danza un po’ fuori orario. Analogia calzante, i bene informati sapranno che la danza si porta dietro il nomignolo di “Cenerentola del palcoscenico”, spedita in ultima fila dai circuiti teatrali italiani come una bimba miserabile. E speriamo che di questo il nostro principe azzurro non ce ne voglia.

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Foto di Alvise Nicoletti

Perciò sorprende che l’Arsenale della Danza, il cantiere di lavoro messo in piedi da Ismael Ivo, direttore artistico del Settore Danza della Biennale di Venezia, all’interno del progetto Grado Zero, intenda creare un ponte tra giovani allievi danzatori, coreografi di provenienza internazionale e pubblico. Il progetto, partito ufficialmente nel mese di marzo, prevede una formazione intensiva in danza contemporanea per un numero ristretto di allievi, proponendosi sotto forma di work in progress e andando a perlustrare i terreni della composizione e dell’improvvisazione coreografica. Non manca un buon armamentario teorico, dispensato attraverso lezioni e dibattiti a cura di critici e storici della danza.

Come i cantieri con le impalcature a vista, anche questo progetto scopre al pubblico le sue nervature strutturali, tramite appuntamenti fissi: Open Doors propone brevi rendez-vous, rigorosamente gratuiti, in cui vengono presentati i risultati delle masterclass oppure vengono spiegate alcune linee di percorrenza della danza contemporanea. Tutto ciò sia per testare la rispondenza del lavoro sviluppato da coreografi e allievi («il pubblico», dice Ivo, «è il nostro termometro»), sia per consegnare con non chalance una valigetta di istruzioni per l’uso agli spettatori che, tra giugno e luglio, andranno a vedere gli spettacoli programmati per la conclusione di Grado Zero. In questa occasione la performance finale dell’Arsenale della Danza, Waste Land, sarà inserita in una più ampia programmazione che alterna compagnie italiane e internazionali, in un’interessante commistione di opere di repertorio e nuove creazioni coreografiche.

Agnese Cesari