Prosegue il lavoro di Città di Ebla sul racconto di James Joyce The Dead e l’indagine sulla fotografia a teatro: una ricerca complessa, che apre una molteplicità di letture disseminate in questo secondo studio presentato a B.Motion Teatro 2011. Un frammento che dimostra la necessità della compagnia di riprendere quel sezionamento delle potenzialità visive insite in pillole letterarie perfettamente compiute nella loro forma: la scrittura. Claudio Angelini, dopo La metamorfosi kafkiana, riprende un percorso di indagine rischioso, ma che — al di là del risultato scenico — permette di spostare la percezione dello spettatore, creando cortocircuiti interessanti nelle modalità interpretative ormai acquisite dal pubblico teatrale (o almeno da una parte di esso) contemporaneo: i linguaggi continuano ad incrociarsi sulla scena e non solo, dando luogo ad uno spazio in perenne movimento in cui far confluire il bisogno di rompere stilemi e moduli che inaridiscono la comprensione del reale. The Dead si configura come intervallo di sperimentazione profonda e coerente, ma soprattutto aperta ad accogliere, inglobare e sintetizzare codici, magari sedimentati, ma che trovano qui un interstizio per spingere il proprio confine “un po’ più in là”.
È ancora un ambiente intimo e privato che attira l’interesse di Città di Ebla: se per La metamorfosi l’azione si svolgeva in un bagno, qui ci troviamo ad osservare vouyeristicamente una stanza da letto dai contorni definiti, resa irreale da un controluce suggestivo e tecnicamente impeccabile. Un velo separa lo spettatore dalla realtà scenica, creando una distanza altamente significativa dal punto di vista drammaturgico. Lo svolgimento si mostra come un istante di quotidianità strappato dalla sua dimensione originaria, un’inquadratura fissa che conserva la profondità di campo di wellesiana memoria. Una prospettiva perfettamente a fuoco, incorniciata come un piano sequenza cinematografico che esaurisce in se stesso una narrazione apparentemente lineare, scandita da silenzi e musiche di Janis Joplin. Il Tempo scivola lentamente all’interno della rappresentazione di un quadro rubato da un universo interiore e personale, trascinando il pubblico in un limbo inizialmente rassicurante: la scena restituisce un’energia vitale, destabilizzante se associata alle scelte estetiche altamente evocative. Già a partire da questa frizione, si crea una rottura che lentamente introduce a una memoria traumatica: l’abbraccio della luce in scena si trasforma lentamente in trappola del ricordo, della staticità, della morte. Una dimensione, questa, cara alla fotografia, arte dell’istante e del congelamento, della vita fissata in un tempo immortale, che si inserisce prepotentemente sulla scena, trasformandola in un luogo di proiezione di fotogrammi e di sofferenza accennata. Il pubblico si trova catapultato in un limbo dalle svariate connotazioni, narrative, semantiche e temporali, in grado di produrre quello sfasamento tra la ricerca di un senso e una chiave di lettura che si situa tra i diversi linguaggi. La potenzialità insita nella scelta di proiettare una serie di fotografie (catturate in real time) è riscontrabile proprio nella decisione di rappresentare la memoria attraverso una forma espressiva che trova nei suoi risvolti temporali il proprio punto di forza: attraverso la staticità delle immagini si ripercorre un viaggio che riporta al punto di partenza, al momento scatenante quella rievocazione, e che cristallizza le fasi del lutto e della sua elaborazione. È possibile leggere all’interno di questo sviluppo, una riflessione sulle arti e i loro punti di contatto: se già in La jetée di Chris Marker (felice esperimento di un film costruito accostando freeze frames) il mezzo cinematografico veniva fatto collidere con la fotografia, a teatro l’operazione rivela tutto il suo potenziale. Costringere il pubblico alla fruizione di un’arte “morta” nel tempio della rappresentazione dal vivo, provoca un senso di spaesamento simile a quello che si prova nel momento in cui viene a mancare una persona amata, obbligando a risolvere traumi e sofferenze.
Nonostante la pertinenza e la profondità di analisi che nasce da una lettura filosofica e visiva dell’opera e della biografia di James Joyce, l’attrito provocato dalla giustapposizione delle due parti di cui si compone The dead risulta ancora troppo forzato, forse a causa del mascheramento del rapporto tra performer (Valentina Bravetti) e fotografa (Laura Arlotti). Una relazione interessante, che tuttavia non si percepisce in questo secondo studio, ma che − se sviscerata − potrebbe contribuire a rafforzare quell’idea di ombre che riemergono modificando la percezione del presente e restituendo il senso di un passato in continuo movimento. Una questione decisamente intrigante, sulla quale Città di Ebla si sta ancora interrogando e di cui continua a ricercare una compiutezza formale ed estetica.
Visto a B.Motion Teatro 2011, Bassano del Grappa (VI)
Per il Diario di Bordo di B.Motion 2011 la redazione del Tamburo di Kattrin si apre ad accogliere contributi e segni degli ospiti del Festival: critici, studiosi, operatori che passano per Bassano del Grappa in questi giorni sono invitati a lasciare un intervento sulle nostre webzine, per raccontare, tramite i diversi canali del web, quello che accade a B.Motion.
Ultimi articoli da B.Motion 2011 e ultimi Special Guest che ci hanno accompagnato nei molteplici attraversamenti di questo Festival: on-line le ultime recensioni di Roberto Rinaldi (Rumor(s)cena), su Maurizio Lupinelli (Squarci dall’ignoto) e i due attesi debutti del Festival, AURE di Teatropersona e Duramadre di Fibre Parallele.
Un grido di dolore squarcia l’ignoto. Maurizio Lupinelli rilegge l’Antigone
Sono squarci che provengono dalle tenebre, quelle più fosche, appartenenti all’ignoto universo dell’essere umano, capace di far soffrire e di togliere la vita ai propri simili. L’ignoto che convive dentro di noi, capace di materializzarsi quando il dolore risale la china, ed esce come fiotti di sangue da una ferita mortale. Squarci dall’ignoto, è l’ultimo impegno di Maurizio Lupinelli e Sabrina Lupinelli per Nerval Teatro, da sempre impegnato a sondare nei meandri della psiche umana, nel tentativo di captare significati e misteri universali, labirinti dove si celano storie di sofferenza, solitudine, amore. Come nella tragedia di Antigone che trafuga e seppellisce di nascosto il fratello, ucciso perché oppositore del regime.
La stanza del tempo perduto è nella memoria presente di Teatropersona
C’è qualcosa che ti riconduce al segreto mondo dell’inconscio onirico, come un viaggio dentro la memoria ancestrale dell’animo umano, dove trovi sempre in fondo una porta chiusa che si apre su di un’altra. All’infinito. Sono sensazioni visive estemporanee, mentre assisti ad Aure, ultima creazione per il teatro di Alessandro Serra di Teatro Persona, capitolo conclusivo della “Trilogia del Silenzio”, ispirato all’opera monumentale di Marcel Proust, (tremila pagine pubblicata in sette volumi), dove l’autore si è cimentato nel cercare di capire di cosa il tempo è costruito, nell’intento di fuggire il suo corso.
Duramadre, una donna e i suoi figli. Crudele e irrisolta…
Consultando la scheda di presentazione di Duramadre, la nuova creazione di Fibre Parallele, al suo debutto in prima nazionale a Bassano del Grappa – spettacolo molto atteso – (ospite del B. Motion – sezione teatro- dell’Opera estate festival) anche per la fama e il prestigio che questa compagnia detiene, le note di regia di Licia Lanera, spiegano quali e quanti personaggi animano la storia di una donna, madre – matriarca, i suoi figli, il mondo in cui vivono, le miserie umane cui sono costretti subire, e le regole di una strana famiglia, dove crudeltà, anarchia, severità, e strane forme di amore, si mescolano.
Per il Diario di Bordo di B.Motion 2011 la redazione del Tamburo di Kattrin si apre ad accogliere contributi e segni degli ospiti del Festival: critici, studiosi, operatori che passano per Bassano del Grappa in questi giorni sono invitati a lasciare un intervento sulle nostre webzine, per raccontare, tramite i diversi canali del web, quello che accade a B.Motion.
Simona Polvani è arrivata a Bassano il 1 settembre. La sua presenza in redazione prende forma, su queste pagine web, attraverso la tweet-intervista che ha condotto con Stefano Ricci e Gianni Forte della compagnia ricci|forte: pochi velocissimi caratteri per parlare di un lavoro artistico che sta girando tutta l’Italia e interrogando profondamente i limiti di teatro e drammaturgia.
Qui potete dare un’occhiata alla schermata di Twitter o leggere l’intervista trascritta per intero.
La tweet-intervista a ricci/forte
Twitter intervista a ricci/forte: una performance verticale di Simona Polvani
Days after Twitter. L’intervista è stata fatta. In tutto, tra domande e risposte, 27 tweet per entrare nel mondo allegorico, iperreale, pop-poetico di ricci/forte. Un flusso di parole in diretta,che per chi non avesse potuto seguirlo in live, riproduciamo qui di seguito. È annullata l’esperienza del tempo che cesura il manifestarsi di un tweet dall’altro, carica l’attesa di aspettative, e si appaga con il gusto della scoperta, possibile solo seguendo i tweet nel loro apparire live. Permane però la forza del pensiero modellato in una parola che è costretta e liberata assieme nella dimensione di un tweet di (al massimo) 140 caratteri.
ricci/forte si producono così in un’altra performance, scolpendo immagini tridimensionali e metriche che hanno la vertigine della verticalità, piombo fuso colorato in biglie lanciate nella rete, concentrati della loro visione estetico-politica.
Simona Polvani
1 – La realtà è senza fiaba?
ricci/forte
1/1 Al contrario. il mondo che ci circonda trabocca di prodigi, tutti incastonati dentro una voliera toracica..
1/2 e pronti ad essere sprigionati con un briciolo di coraggio. ma il reale è fatto anche di malefici…
1/3 nani da circo infidi, donne cannone rosse e prive di grazia, tese ad avvelenarti non appena presa coscienza,…
1/4 ..al cospetto di biancaneve, di essere nate ruote di scorta senza corona in testa. la fiaba, però, insegna…
1/5 …una mela al giorno toglie lo sporco e la perfidia di torno.
Simona Polvani
2 – Qual è il vostro modo di intendere la commistione di linguaggi sulla scena?
ricci/forte
2/1 …Il flusso vitale, il respiro che ci distingue dagli oggetti inanimati è download sciamanico che ci connette…
2/2 …direttamente con il pianeta e il tempo che occupiamo. Brandelli di esistenza, suggestioni, grida notturne…
2/3 …veglie sotto il sole diventano gli ingredienti edificanti; il novello frankestein che assume vita. Nulla è escluso…
2/4 …perché nulla esula dalla nostra permanenza. Spetta poi alla pupilla, in sintonia coi ventricoli, stabilire…
2/5 …il dresscode d’accesso alla messa in scena.
Simona Polvani
3 – Che ruolo hanno e come incidono le biografie dei performer nella costruzione drammaturgica dello spettacolo?
ricci/forte
3/1 Un’oasi di acqua potabile che scioglie cattedrali di sabbia tenute in piedi dall’assenza di etica/
3/2 lattine di redbull che vanno ad espandere un codice genetico visionario in continua muta. I performer isolano i virus/
3/3 ne amplificano le virulenze identificando un antibiotico all’assenza di domande e al morbo dei culidipietra/
3/4 …quel ceppo infettivo accomodante che ha sterminato il nostro paese.
Simona Polvani
4 – Che rapporto esiste tra musica e scrittura scenica in Grimmless e in genere nelle vostre creazioni?
ricci/forte
4/1 La musica è il ticchettio universale, l’ingranaggio che dipana il pop-up di ognuno di noi. Come emuli di silver surfer/
4/2 …sdruccioliamo sulle impalcature sonore per svelarne il richiamo soffocato, l’S.O.S. di soccorso che nessuna vocale/
4/3 …potrebbe esprimere. La musica sussurra, implora, schiaffeggia (e) la sonnolenza: è il CAFÈ ZERO della nostra coscienza/
4/4 …che ci permette di lanciare personali fughe, variazioni di un’urgenza mai doma.
Simona Polvani
5 – Che tappa rappresenta Grimmless all’interno del vostro percorso artistico?
ricci/forte
5/1 È l’alba di un giorno nuovo. Ricco di promesse. tenero di nostalgie. pessimo al domani. Quando altra luce/
5/2 …segnerà un giorno in più sul calendario. Saremo sempre gli stessi, sempre differenti. Cresciuti a ovest dei ricordi/
5/3 …al desiderio delle esperienze future… perché la vita disattende, fortunatamente, i nostri piani consegnandoci/
5/4 perenni 24ore tutte ancora da scrivere.
Caffé dei Libri, uno degli angoli più belli e tranquilli di una Bassano in fermento (il sabato pomeriggio delle passeggiate, il boom di Infart e la conclusione di B.Motion), a pochi passi dal fiume e dalla folla che sembra invadere la città. Qui, l’appuntamento con inQuanto teatro, giovane compagnia formatasi l’anno scorso nei pressi di OperaEstate (complice il progetto dell’Attore Performativo) e reduce dalle finali del Premio Scenario con Nil Admirari (che le è valso una menzione speciale da parte della giuria). I suoi componenti sono di nuovo a Bassano certo per presentare proprio quei venti minuti di studio, ma anche per una residenza in cui stanno sviluppando ulteriormente quello stesso lavoro: hanno accompagnato la nostra permanenza fin dal primo giorno, dalle colazioni assonnate alle serate interminabili, dalle chiacchiere pomeridiane in qualche pausa nel giardino di Palazzo Bonaguro alle discussioni più intense su quello che si è visto ogni sera in scena.
Floor Robert, Giacomo Bogani e Andrea Falcone (il quarto, Matteo Balbo, non è potuto esserci) ci aspettano al tavolino più appartato del caffè. Arriviamo un po’ in ritardo, di corsa, facendoci spazio sul Ponte fra raggruppamenti di personaggi molto molto urban-street e assembramenti di alpini in visita. Siamo qui per parlare di teatro e di ricerca, di com’è nato Nil Admirari e, soprattutto, di come sta crescendo.
Simone Nebbia: Come prima cosa volevamo chiedervi com’è iniziato tutto, quando avete capito che il progetto era nato?
Andrea Falcone: Accade come un colpo di fortuna, te ne accorgi a cose fatte: un blocco di ghiaccio che prima era acqua… è successo qualcosa di eclatante, ma non sapresti dire quando… Si può dire che il lavoro che sperimentiamo sia quasi combinatorio: come nella chimica, la reazione può andare ben al di là delle aspettative, di quello che ognuno di noi singolarmente ha portato al gruppo.
In questi giorni questa domanda ci è stata posta più volte. E ci ha messo un po’ in difficoltà, perché non abbiamo iniziato – e questo non è un caso: ci rispecchia molto – da un pensiero, ma da un’immagine che ci parlava. Questo in qualche modo è quello che facciamo anche per costruire le scene: condividiamo un’immagine di cui non abbiamo una spiegazione e di cui non vogliamo dare una narrazione, ma cerchiamo di ricrearla, di farla vivere, di esplorarla. E di mantenere intatto quanto più possibile il senso dell’equivoco e di instabilità… F.R.: …di fragilità e di umanità… A.F.: Questa è la nostra idea di storia, di passato, di realtà che portiamo in Nil Admirari: l’atto di ricordare è qualcosa che si fa aggiungendo pezzi e reinventando qualcosa, piuttosto che rimanendo fedeli a una realtà. Questo è il nostro modo di costruire queste scene ed è il modo che stiamo esplorando anche qui a Bassano, perché il frammento scenico che abbiamo portato è esito di una ricerca, ma non ne era l’obiettivo: Nil Admirari non è uno spettacolo, ma piuttosto lo specchio di quello che stiamo elaborando e lavorando.
Roberta Ferraresi: Ci volete svelare qual è questa immagine?
A.F.: “C’è una stanza vuota…” – addirittura nei primi cinque minuti di lavoro che abbiamo presentato al Premio Scenario, iniziavamo dicendola, descrivendola… F.R.: Ma nel processo di creazione, poi, questo pezzo è stato eliminato. È uno scarto importante quando, lavorando a un progetto, apparentemente si perdono gli elementi forti; ma per te rimangono e così possono diventare altro. A.F.: Comunque si tratta di una fotografia di Robert e Shana Parkeharrison: è un interno completamente ricolmo d’acqua in cui affiorano oggetti o parti di oggetti con una calma innaturale. G.B.: È una fotografia che non cattura il frammento o il momento, ma dà l’impressione dell’attesa, che ci sia qualcosa che è successo, che sta lì e galleggia… F.R.: Qualcosa di catastrofico è successo, e da lì partiamo, senza però ricordare il passato… Come aprire un libro a metà e cominciare a leggerlo da lì, che è la situazione in cui ci troviamo, quello che siamo. A.F.: Fantasticando su questa immagine di allagamento abbiamo iniziato a cercare dei materiali che ci permettessero di ricrearla, tra cui il tappeto specchiante che ancora usiamo. E poi, via via, ci siamo accorti che stavamo facendo vivere quell’immagine senza bisogno di realizzarla. Ad esempio, la presenza della finestra si è trasformata in una specie di schermo (che, invece di aprire, blocca l’orizzonte, riflettendo la nostra ombra e i nostri movimenti) e l’idea di una superficie permeabile in cui gli oggetti affiorano è mutata in un pavimento che, coprendo il palcoscenico, lo trancia…
S.N.: Parlando del vostro lavoro tornano spesso idee legate alla storia, ai ricordi, alla memoria… Cosa v’ha fatto il passato?
F.R.: Il passato è una cosa che ci dice molto… A.F.: Il nostro passato è molto presente. Sovvertendo la celebre sentenza sartriana “Io sono il mio passato”: noi non siamo il nostro passato, perché a livello collettivo è qualcosa di impersonale e a ben vedere fasullo, che viene inventato volta per volta. A livello culturale, godiamo della vita in città d’arte meravigliose, come Firenze o Bassano; e vediamo che gli spazi per il passato aumentano, vengono nuovamente inventati, vengono scoperti quartieri medievali, mesi medicei quando anche di Medici non ce n’è più traccia… Dante a Firenze ha tre o quattro case, noi in tre o quattro non ne abbiamo una. Questo intendiamo per passato: una creatura che viene creata ed è accanto a noi, con cui abbiamo a che fare. Questa operazione di affastellare, di comporre questa specie di mostro – da qui il titolo del nostro secondo pezzo, Monstrum – ci diverte ed è quello che anche noi vogliamo fare in scena. F.R.: Ed è quello che stiamo facendo in questi giorni qui a Bassano. Stiamo prendendo questo passato e lo stiamo facendo diventare una cosa che chiamiamo Monstrum, qualcosa di incredibilmente lontano da noi, di diverso, di vivo… che ci spaventa. A.F.: L’anacronismo, l’avvicinamento, la moltiplicazione… G.B.: Il passato che diventa una replica, una copia…
R.F.: E invece dove state cercando di andare?
F.R.: Ora siamo arrivati a parlare di Monstrum... A.F.: …che è il nostro secondo frammento…
R.F.: Quindi Nil Admirari non è il nome del progetto, ma del primo frammento? A.F.: Abbiamo deciso che Nil Admirari è sia il progetto che il primo studio, anche perché è un frammento che contiene un po’ tutti i nodi sui quali vogliamo lavorare: c’è una realtà di noi, quattro giovani, che si preparano per il loro presente, lo aspettano, e invece vengono sopraffatti da oggetti e storie del passato… anzi, vere e proprie scorie, che non sanno come gestire. E alla fine scompaiono, lasciando solo questo agglomerato di oggetti ed effetti che rimangono con lo spettatore.
Poi abbiamo deciso, più per il lavoro che vogliamo fare che con un’idea di marketing, di presentare in altre due tappe degli elementi separati: in uno, Monstrum, c’è l’apparizione di un passato inventato e ingombrante, con tutte le sue manifestazioni di anacronismo, di sincronia, di stranezza; e nell’altro, Tabula rasa, rimaniamo soli con la nostra realtà di vuoto, di ricerca di qualcosa, di un appiglio, di una concretezza che – mancando queste illusioni, queste chiacchiere del passato, questi elettrodomestici, questi sogni che riempiono invece gli altri due studi – vogliamo scoprire dove può portare. G.B.: E poi ci siamo tenuti sempre, con questa tipologia del frammento, la possibilità di ricombinarli: sappiamo bene che Monstrum arriva a un certo momento di Nil Admirari, del primo frammento… F.R.: Bisogna esaurire delle idee, così poi possiamo farne a meno. Questo è il metodo di creazione. La possibilità di poter presentare i due studi slegati ci dà l’opportunità di mettere in campo delle cose e vedere se funzionano, sperimentare e scoprire, tenere o lasciare… A.F.: E in una combinatoria finale presenteremo – non si sa ancora dove e quando – Nil Admirari completo.
R.F.: Ma se il processo di lavoro è collettivo, siete tutti in scena, com’è possibile mantenere uno sguardo sull’andamento del lavoro?
F.R.: È successo che qualcuno venga a vederci, ma già quando siamo a un livello da farci vedere. Chiaramente abbiamo la videocamera… G.B.: Che usiamo però poco… E anche qui, solo quando abbiamo già tante cose montate. F.R.: Quando abbiamo cose che secondo noi funzionano già. Abbiamo comunque dei momenti in cui uno si può tirare fuori e osservare l’altro e dire, digerire… Ah, scusate: dirigere. E questa comunque è una forma ancora un po’ caotica… A.F.: …da perfezionare. G.B.: La cosa importante da dire è che ci piace confrontarci. A.F.: Infatti, abbiamo diverse cose in mente per migliorare e perfezionare questa forma di lavoro collettivo da sottoporre a un pensiero o a una “digestione” esterna. Una che ci piacerebbe molto e che abbiamo vorremmo inziare a provare è quella di intraprendere delle collaborazioni anche brevi in cui enti o gruppi teatrali ci offrono non solo lo spazio ma anche uno sguardo. Perché è molto interessante un contatto tra le compagnie nel momento in cui stai lavorando in modo completamente aperto, anche fragile… F.R.: È una cosa che manca un po’ nell’ambito teatrale, mentre nella danza c’è. A.F.: Ci sono molti gruppi, anche che sono stati qui, con cui ci piacerebbe avere questo tipo di scambio e di contatto. Ora cominceremo con Kinkaleri, che è un gruppo che ha una storia e… F.R.: …una cifra estetica che… G.B.: …che sentiamo abbastanza vicina… F.R.: Come l’interesse verso i materiali, che per noi ha un ruolo molto importante: la plastica, questo grigio molto presente… A.F.: E poi l’agire in scena una partitura visiva degli oggetti, in cui c’è una drammaturgia fra un oggetto e l’altro e un percorso visivo, una specie di mappa… F.R.: Le tracce che vengono lasciate… A.F.: E, a pensarci bene, è questa l’opportunità di OperaEstate: uno spazio che quasi naturalmente, senza neanche che l’avessimo pensato, offre la possibilità di uno scambio abbastanza continuo fra artisti: quest’anno Chiara Bersani e Sara Vilardo, qui con un primo studio, è bello poterci parlare… O con il gruppo foscarini:nardin:d’agostin…
Roberta Ferraresi / Simone Nebbia
Andrea Falcone: Accade così, come un colpo di fortuna, te ne accorgi così, a cose fatte: un blocco di ghiaccio che prima era acqua… è successo qualcosa di eclatante, ma non sapresti dire quando… E noi siccome è molto che parliamo tra di noi, ci incrociamo – non tutti assieme: due a due, tre, quattro – e di conseguenza quando alla fine arriviamo tutti e 4 sulla stessa idea c’è stato un lavoro lungo prima di arrivare a quel punto. Anche perché questo ha influenzato il nostro modo nostro di lavorare, che è sì in scena un collettivo, quindi ognuno si mette in gioco e cerca di proporre agli altri qualcosa su cui incontrarsi, delle sfide… Ma queste sfide che ci lanciamo sono già articolate quando arriviamo alla scena, perché ci arriviamo dopo un lungo periodo in cui ognuno di noi pensa, parla, ricerca… Alla fine il lavoro che facciamo è quasi combinatorio… Come nella chimica, la reazione può andare ben al di là delle aspettative, di quello che ognuno di noi singolarmente si era portato Giacomo Bogani: Diciamo che di solito le idee che portiamo sono grandiose, sono enormi. Le presentiamo in sala e lì ci guardiamo negli occhi spesso e viene subito il no. Floor Robert: E questo è un modo in cui lavoriamo spesso molto volentieri. Però poi si presenta anche quello invece dell’improvvisazione, che lì per lì in sala non si sa perché, che siamo magari stanchissimi o anche nel cazzeggio… però lì viene a galla qualcosa che ci convince tutti moltissimo A.F.: Da momenti anche ludici, ma di ludismo scelto e consapevole, tante cose poi si sono unite a un’idea più pensata
Simone Nebbia: Quindi lo spazio scenico è giudice, nel bene o nel male: accoglie o respinge… A.F.: Sì, noi arriviamo come supplicanti con carovane di cose sulla scena – che per lungo tempo è stata una stanzetta privata, poi una palestra di Rifredi… F.R: Siamo stati al Garage Nardini che non era male G.B.: Al Teatro Astra F.R.: E ora andremo Prato che è un po’ più vicino A.F.: Per rimanere ancora sui nostri punti di partenza, che è una cosa che in questi giorni ci è stata chiesta più volte e che ci mette quasi in difficoltà, perché non abbiamo iniziato – e questo non è un caso: ci rispecchia molto – da un pensiero, ma da un’immagine di cui non avevamo idea ma che ci parlava. E questo in qualche modo è quello che facciamo anche in scena per costruire le scene: condividiamo un’immagine di cui non abbiamo una spiegazione e di cui non vogliamo dare una narrazione, ma cerchiamo di ricrearla, di farla vivere, di esplorarla. E di mantenere intatto quanto più possibile il senso dell’equivoco e di instabilità… F.R.: Di fragilità e di umanità… A.F.: E questa è la nostra idea di storia, di passato, di realtà che portiamo in Nil Admirari: l’atto di ricordare è qualcosa che si fa aggiungendo pezzi e reinventando qualcosa, piuttosto che essendo fedeli a una realtà. Questo è il nostro modo di costruire queste scene in scena; ed è il modo che stiamo esplorando anche qui a Bassano, perché il frammento scenico che abbiamo portato è esito di una ricerca ma non era il suo obiettivo: non è uno spettacolo, ma piuttosto lo specchio di quello che stiamo elaborando e lavorando.
S. N.: Un po’ una messa in campo di elementi su cui volete lavorare. Quello che percepivo come impronta collettiva di alcune esperienze di questi giorni e anche nel vostro caso è di una macchinazione drammaturgica un po’ farraginosa di costruzione. Anche perché non vi credevo completamente: avevo l’impressione che dobbiate diventare ineccepibili tecnicamente… A.F.: Questo è un fatto difficile da affrontare, perché quello che ci interessa è mantenere un senso straniante… F.R.: E forse è quello che non vogliamo A.F: Però dobbiamo essere certi nel non volerlo: c’è una tecnica, un’abilità che dobbiamo maturare. Però il fatto di stare ricercando una qualità che ci permetta di non ignorare l’equivoco, anzi, di accompagnarlo verso lo spettatore. È quello che facciamo portando in scena oggetti ingombranti, anacronistici rispetto a quello che diciamo; utopie che sono storie esagerate, anche quelle in qualche modo ingombranti… non fingendo neanche noi che sia tutto naturale e scontato, perché è una chiave di lettura che cerchiamo di maturare rispetto alla realtà che ci circonda, che è piena di cose che sembrano le più naturali del mondo ma non lo sono. F.R.: Anche semplicemente osservarlo: metterlo lì e poi osservarlo A.F.: E forse questo richiede ancora più tecnica di quella che ci vorrebbe a fare una cosa in modo perfetto. Quindi, sì, ci vuole parecchio lavoro.
R.F.: Un passo indietro, ci volete svelare qual è l’immagine… A.F.: Addirittura nei cinque minuti iniziavamo dicendola a grandi line: “c’è una stanza vuota…” F.R.: Ma nella creazione poi è anche bello quando perdi gli elementi forti ma per te rimane e diventa altro A.F.: È una fotografia di un interno completamente ricolmo d’acqua in cui affiorano oggetti o parti di oggetti, con una calma innaturale. Addirittura ci siamo ispirati ad un’immagine in cui si intravvede anche qualcosa di umano, un corpo, ma ha una consistenza che non sembra più umano. E da questa immagine… G.B.: Una fotografia con un senso: non cattura il frammento, il momento, ma dà l’impressione dell’attesa, che ci sia qualcosa che è successo, che sta lì che galleggia A.F.: La fotografia è ferma, ma rappresenta una realtà che è anch’essa ferma… F.R.: Qualcosa di catastrofico è successo, e da lì partiamo, senza però ricordare il passato… Come aprire un libro a metà e partire da lì, che è come noi siamo. Noi che veniamo da un passato, da Firenze, dai ricordi, da un desiderio di volersi identificare con il tempo di ora, ma ci si accorge che magari non gli basta, non gli piace… A.F.: Fantasticando da questa immagine di allagamento abbiamo iniziato a conoscere dei materiali che ci permettessero di farlo, tra cui il tappeto specchiante che ancora usiamo. E poi via via lavorando ci siamo accorti che questa immagine la stavamo facendo vivere senza bisogno di realizzarla. Quindi il fatto che ci fosse una finestra è ritornato con una specie di schermo che invece di aprire, ci blocca l’orizzonte riflette la nostra ombra e noi stessi quando ci muoviamo. L’idea di una superficie permeabile in cui gli oggetti affiorano è cambiata con questa superficie che trancia, che copre il palcoscenico, che sembra forse un liquido in cui forse si può entrare ma che noi continuiamo ad attraversare.
S.N.: Cosa v’ha fatto il passato? F.R.: Il passato è una cosa che ci dice molto… A.F.: È molto presente. Sovvertendo la sentenza conosciuta “Io sono il mio passato”, che era Sartre: noi non siamo il nostro passato, perché a livello collettivo è qualcosa di impersonale e a ben vedere fasullo, che viene inventato nel momento in cui ci siamo. A livello culturale, noi che godiamo della vita in città d’arte meravigliose, anche Bassano, viviamo di questo. (portano il caffè)
Vediamo che gli spazi per il passato aumentano, vengono nuovamente inventati, vengono scoperti quartieri medievali dove ormai non ce n’è più traccia, mesi medicei quando anche di Medici non ce n’è più traccia… Dante a Firenze ha tre o quattro case, noi in tre o quattro non ne abbiamo una. Questo intendiamo per passato: una creatura che viene creata ed è accanto a noi, con cui abbiamo a che fare. Questa operazione di affastellare, di comporre questa specie di mostro – da qui il titolo del nostro secondo pezzo, Monstrum – ci diverte ed è quello che anche noi vogliamo fare in scena. F.R.: Ed è quello che stiamo facendo in questi giorni qui a Bassano. Stiamo prendendo questo passato e lo stiamo facendo diventare una cosa che chiamiamo Monstrum, qualcosa di incredibilmente lontano da noi, di diverso, di vivo… però ci spaventa. A.F.: L’anacronismo, l’avvicinamento, la moltiplicazione… G.B.: Il passato che diventa una replica, una copia… A.F.: Aver parlato con Claudio Angelini di Città di Ebla ci ha molto aiutato perché erano argomenti su cui stavamo pensando e sentirli espressi così bene ci ha permesso di riformulare alcune cose. F.R.: Si diceva che il passato era parte attiva A.F.: Sì, Mauro Petruzziello diceva che il ricordo è qualcosa che incombe e minaccia e cambia la realtà. Questo è anche per noi; mentre nel lavoro di Città di Ebla c’era una fotografia che bloccava una realtà in corso nello stesso momento in cui la realtà c’era e costituiva una sorta di doppio mostruoso della realtà stessa, perché era qualcosa di immobile. Era una specie di presenza che rendeva la cosa inquietante. Cerchiamo di indagare con Monstrum questa possibilità di sdoppiarci e di avere una memoria fittizia di noi con cui avere un conflitto.
R.F.: Modo di lavorare, quello che fate… G.B.: Decidiamo giorno per giorno come lavoriamo, anche rispetto a come ci sentiamo. F.R.: Lavoriamo insieme da un anno e possiamo dire che ora finalmente stiamo capendo un po’ com’è fatto l’altro e come fare per lavorare con l’altro. Ci siamo spaventati molto, ci siamo agitati tanto e così ci siamo anche dati dei limiti. A.F.: In realtà ci diamo un tempo e uno spazio per lavorare su delle cose che però non sono spesso discorsi o idee. Ma molto spesso oggetti o esercizi anche meccanici che sono alla base di una improvvisazione o di una sperimentazione. Ad esempio ieri abbiamo avuto questa enorme gonna di vinile e abbiamo iniziato a lavorarci, creando delle figure mostruose, multiple… E da lì è iniziato un lavoro sul testo e sulla voce… F.R.: …che Andrea aveva preparato. Perché c’è sempre la preparazione del testo. G.B.: Andrea fa una ricerca sul testo, su delle cose che possono entrare… F.R.: …che vengono introdotte, vengono lette insieme, vengono capite fino a un certo punto e poi nella prova – dove può esserci l’elemento della gonna o dello sparavento, che stiamo semplicemente esplorando… E poi scopri che sopra questo ci può anche entrare il testo. Capiamo come… G.B.: Un testo che è già stato pensato e scritto in una forma da Andrea. A.F.: Con i testi abbiamo per ora questa modalità, che credo poi cambierà ed è già cambiata: li usiamo come risorsa, io li preparo solo di riferimento, di ispirazione… A volte sono brevi biografie, descrizioni per avvicinarci alle immagini o all’argomento che vogliamo lavorare. O a volte diventano poi parte dello spettacolo. Dipende da quello che succede nella combinazione.
R.F.: In che modo è cambiata? A.F.: Quello che abbiamo deciso di richiedere al mio lavoro è più di scrivere apposta per una scena, cioè dei testi che già da soli portano l’elemento centrale, il perno di una scena, perché sono testi da dire al pubblico, come ce ne sono stati tanti esempi in questo B.Motion… Un testo di Babilonia Teatri, un testo di…
F.R.: Luca Scarlini! G.B.: Come mai hai detto Luca Scarlini? F.R.: Perché mi stavo ricordando anche che a volte entra anche nella nostra giornata di prove degli esercizi che abbiamo appreso da altri. Ed è super utile, perché così il gruppo lavora su un ascolto maggiore, su una consapevolezza maggiore dell’altro e di se stesso. G.B.: Ci sono dei giorni che lavoriamo molto su cose fisiche F.R.: E altri che ci concentriamo sulla voce G.B.: e sull’ascolto. Anche senza dirci niente: qualcuno di noi comincia a cantare e andiamo avanti così. Ad esempio la canzone che c’è in scena è nata così… Anche se lì in verità eravamo in macchina… abbiamo cominciato a cantare e non ci siamo fermati per quattro ore. A.F.: La macchina è un luogo creativo molto importante… G.B.: Per eccellenza F.R.: Perché facciamo molte residenze lontane… A.F.: E andiamo a vedere tanti spettacoli… È uno di quei momenti che ci costringe a stare insieme, concentrati a sopportarci completamente per 3 o 4 ore. E quindi si deve per passare il tempo parlare, affrontare le idee, confrontarci… Magari dopo un mese che ognuno ha degli impegni paralleli che l’hanno distratto, distolto o portato lontano.
R.F.: E invece dove state cercando di andare? F.R.: Vogliamo fare uno spettacolo di due ore… G.B.: Due ore no, però più di un’ora di sicuro: vogliamo un pochino sovvertire o un po’ cambiare questa cosa che c’è, che sono sempre tutti piccoli spettacoli, 50 minuti – 45… Ci piace anche la possibilità che a teatro le persone possano stare lì, anche un po’ annoiarsi F.R.: Secondo me uno spettacolo è bello… A.F.: …quando ha una vita… F.R.: Sì, quando mi dà la possibilità di potermi staccare…
R.F.: È una qualità del tempo, un trattamento, più che una durata… A.F.: Sì, una qualità che nella lunga durata è più facile o più giusto realizzare a pieno. Comunque la varietà, la qualità, la sovrapposizione, il tempo del tempo sono nodi che ci interessano molto, sia come tema che come caratteristica del linguaggio.
F.R.: Ora siamo arrivati a parlare di Monstrum... A.F.: …che è il nostro secondo frammento…
R.F.: Quindi Nil Admirari non è il nome del progetto, ma del primo frammento? G.B.: Nil Admirari è il nome del progetto… F.R.: …che abbiamo dovuto presentare a Scenario in 20 minuti… A.F.: Abbiamo deciso che Nil Admirari è sia il progetto che il primo frammento. Anche perché è un frammento che contiene un po’ tutti i nodi sui quali vogliamo lavorare. C’è una realtà di noi, noi 4, giovani che aspettano e si preparano per il loro presente e invece ripescano, vengono sopraffatti da oggetti e storie del passato… Anzi vere e proprie scorie che non sanno come gestire e alla fine scompaiono lasciando solo questo agglomerato di cose ed effetti che rimangono con lo spettatore. Poi abbiamo deciso, più per il lavoro che vogliamo fare che con un’idea di marketing, di presentare in altre due tappe gli elementi separati: in uno, Monstrum, l’apparizione di questo passato inventato e ingombrante, con tutte le sue manifestazioni di anacronismo, di sincronia, di stranezza; e nell’altro, Tabula rasa, rimanere soli con la nostra realtà di vuoto, di ricerca di qualcosa, di un appiglio, di una concretezza che mancando queste illusioni, queste chiacchiere del passato, questi elettrodomestici, questi sogni che riempiono invece gli altri due studi, vogliamo scoprire dove può portare. Abbiamo già alcune idee ma va lavorato bene in una residenza ad hoc futura. Perché se per Monstrum abbiamo già fissato sia i giorni di lavoro (che sono già iniziati qui a OperaEstate e poi continueranno allo Spazio K agli Ex Macelli a Prato) sia il momento d’apertura, che sarà durante Contemporanea di Prato e Fermenti di Parma; per Tabula rasa abbiamo il progetto aperto, ma non abbiamo ancora stabilito… G.B.: E poi ci siamo tenuti sempre, con questa tipologia del frammento, la possibilità di ricombinarli: sappiamo bene che Monstrum arriva a un certo momento di Nil Admirari, del primo frammento… F.R.: Bisogna esaurire delle idee, così poi possiamo farne a meno. Questo è il metodo di creazione. Avendo la possibilità di poter presentare i due studi slegati ci dà l’opportunità di mettere in campo delle cose e vedere se funzionano, sperimentare e scoprire, tenere o lasciare… A.F.: E in una combinatoria finale presenteremo, non si sa ancora dove e quando Nil Admirari completo.
R.F.: Voi dite mettiamo dfei mateirali e vediamo se funzionano; ma siete tutti in scena. Come si fa? Invitare qualcuno a vedere le prove? F.R.: È successo che qualcuno venga a vederci, ma già quando siamo a un livello da farci vedere. Chiaramente abbiamo la videocamera… G.B.: Che usiamo però poco… Solo quando abbiamo già tante cose montate. F.R.: Quando abbiamo cose che secondo noi funzionano già. Abbiamo comunque dei momenti in cui uno si può tirare fuori e osservare l’altro e dire, digerire… Ah, scusate: dirigere. E questa comunque è una forma ancora un po’ caotica A.F.: da perfezionare G.B.: La cosa importante da dire è che ci piace confrontarci A.F.: Infatti, in questa forma da perfezionare di lavoro collettivo da sottoporre a un pensiero o a una “digestione” esterna, abbiamo diverse cose in mente per migliorarlo. Una che ci piacerebbe molto e che abbiamo iniziato a mettere le condizioni per farlo è intraprendere delle collaborazioni anche brevi in cui enti o gruppi teatrali ci offrono non solo lo spazio ma anche uno sguardo. Perché è molto interessante un contatto tra le compagnie nel momento in cui stai lavorando in modo completamente aperto, anche fragile… F.R.: È una cosa che manca un po’ nell’ambito teatrale, mentre nella danza c’è. A.F.: Ci sono molti gruppi, anche che sono stati qui, con cui ci piacerebbe avere questo tipo di scambio e di contatto. Ora cominceremo con Kinkaleri, che è un gruppo che ha una storia e… F.R.: …una cifra estetica che… G.B.: …che sentiamo abbastanza vicina… F.R.: Come l’interesse verso i materiali, che per noi ha un ruolo molto importante: la plastica, questo grigio molto presente… A.F.: E poi l’agire in scena una partitura visiva degli oggetti, in cui c’è una drammaturgia fra un oggetto e l’altro e un percorso visivo, una specie di mappa… F.R.: Le tracce che vengono lasciate… A.F.: Questo ci piace molto, ma c’è anche in lavori di altri gruppi importanti, come Motus o Anagoor. E però OperaEstate questo offre: uno spazio quasi naturalmente, senza neanche che l’avessimo pensato, la possibilità di uno scambio abbastanza continuo e naturale fra artisti: quest’anno Chiara Bersani e Sara Vilardo, qui con un primo studio, è bello poterci parlare… O con il gruppo foscarini:nardin:d’agostin… F.R.: …che abbiamo seguito dai loro cinque minuti a Vicenza…
A B.Motion Danza è stato presentato Family Tree/Frammento #1: Volta, il lavoro vincitore del Premio Prospettiva Danza 2011. Abbiamo incontrato gli autori: Chiara Bersanie Riccardo Buscarini.
Come è nato il progetto Family Tree? Chiara: Inizialmente il progetto era stato scritto per la Biennale dei Giovani Artisti BJCEM. Doveva essere una cosa completamente diversa, un’installazione, ma era già presente la volontà di lavorare sull’albero genealogico, sul passato, presente e futuro e su noi come persone esistenti adesso e come anello di congiunzione. C’era tutta la poetica di base. Poi il lavoro è stato abbandonato perché ci sono stati altri impegni ed è stato ripreso quando ho conosciuto Riccardo e ho iniziato a pensare che poteva essere interessante lavorare insieme. Quando gli ho parlato di questo progetto a lui è interessato subito molto e abbiamo iniziato a dargli la struttura che ha adesso: un lavoro in capitoli, in generazioni, dotato di una frammentarietà e progettualità molto più ampia.
Riccardo: Il progetto generale è una serie e il primo elemento della serie è un trittico a cui stiamo lavorando in una sorta di creazione collettiva nonostante io sia il direttore del primo frammento, Matteo Ramponi, nostro collega e carissimo amico, lo sarà del secondo, mentre Chiara dirigerà il terzo.
C.: Siamo noi tre e Antonio de la Fe.
Come si sono accostate le vostre poetiche? R.: Questa è la parte più interessante del lavoro perché siamo uniti da un’amicizia recente che ha tuttavia come anello di congiunzione una carissima amica di entrambi. Le due poetiche si sono incastrate molto bene e il processo di Volta, che è il primo frammento, è stato uno dei più fortunati della mia vita perché non c’è stata mai una lite, una discussione… Io lavoro con dei media molto minimali e questo favorisce l’unione tra la mia poetica e quella di Chiara e di Matteo, che vengono da un percorso di visual theater e di teatro di ricerca che lavora molto con i materiali. La mia attenzione verso la gestualità più minimale e quotidiana, l’immagine del corpo, e il loro background di lavoro coi materiali si sono congiunti estremamente bene. Lo studio sulla luce si accosta alla ricerca di un movimento molto lento; io e Chiara facciamo le stesse cose, lei non utilizza la carrozzina, e questo è un modo per parificare i nostri corpi.
Ho imparato molto da loro e ho condiviso la mia prospettiva sul movimento che parte principalmente dal gesto quotidiano, o comunque molto semplice. Lavoro spesso con l’immagine in sé del corpo statico, su ciò che può comunicare.
C.:È stato un incontro fortunato. Parlando ci eravamo resi conto che avevamo interessi molto affini anche affrontando cose semplici, come il fatto che ci piacessero i carillon; immagini che entusiasmavano entrambi e che poi sono tornate nelle scelte della struttura del lavoro. Questo ha reso lineare il processo creativo.
Quindi avete lavorato anche per immagini? R.: Il concept è basato sull’iconografia classica religiosa dalla quale prendo spesso ispirazione; è in risposta al progetto globale di Chiara; è la traduzione di questo progetto sulla memoria e sulla famiglia.
Family Tree/Frammento #1: Volta è il lavoro vincitore del Premio Prospettiva Danza 2011… R: La sintesi delle due poetiche è stata uno dei motivi per il quale abbiamo vinto il Premio; lo abbiamo riscontrato spesso durante il feedback degli operatori e dei giudici. Il nostro è un linguaggio rischioso perché si colloca al limite della danza e della performance, anche se allo stesso tempo ci muoviamo costantemente. Io lavoro con il movimento e quindi posso solo definirmi coreografo.
C: Io ho deciso che sono una danzatrice! (ride, ndr)
Che cosa vi ha portato questo Premio? R.:È stata un’occasione di estrema visibilità, abbiamo ricevuto molti inviti, tra cui B.Motion; abbiamo avuto il supporto economico per la creazione della prima serie, il primo trittico, e anche inviti di co-produzione, supporto di residenza, di spazio per la creazione.
In quale spazio lavorate per la produzione? R.: Abbiamo il supporto dell’Accademia Domenichino da Piacenza, la scuola dove mi sono formato fino a cinque anni fa, che per noi è una base, e poi di Teatro Gioco Vita che ci ospiterà a marzo. Il loro sostegno è una cosa molto bella.
C.: La cosa strana per me è che eravamo tre artisti piacentini, anche Matteo è di Piacenza, e non avevamo mai lavorato nella nostra città. Avere quest’anno finalmente l’appoggio di Teatro Gioco Vita per me è importante anche a livello di ritorno alle origini, soprattutto per un lavoro come questo sulle radici.
Inoltre un altro ente che ci sta supportando è il Teatro Comunale di Ferrara…
R.: E poi ci sono gli sponsor privati come Stanhome e INA Assitalia.
Questi sponsor sono arrivati dopo il Premio Prospettiva Danza? C.: No, sono arrivati prima perché altrimenti per noi non sarebbe stato possibile partecipare al Premio, date le spese di vitto e alloggio della residenza.
Come è stato il confronto con gli altri ragazzi che hanno partecipato al concorso? R.: È stato un ambiente non competitivo, molto arricchente.
C.: È stato bello. Anche nel dietro le quinte, prima di performare, c’è stata molta solidarietà.
Volete darci qualche anticipazione sulla seconda parte? R.: La seconda parte è stata scritta da Matteo. Sarà collocata prima di questo lavoro, in linea con un’operazione cronologica e concettuale. Il titolo è HALLWAY | prima che tutto si distingua, quindi prima ancora della nascita, prima della distinzione, prima dell’identità. Per usare un’immagine concreta si potrebbe dire che è un lavoro visivo basato sulla non-definizione che precede l’identità, il concepimento. Per usarne una più astratta…
C.: … possiamo pensare al Big Bang! (ride, ndr)
E la terza parte? C.: Nella terza parte verrà coinvolto un altro artista, un dj, che è mio fratello. Visto che il finale tornava alla persona che aveva scritto il progetto, mi sembrava interessante inserire la famiglia vera, la famiglia di sangue. Il terzo frammento sarà un lavoro intenso, probabilmente, è ancora molto lontano, ma come progetto iniziale è fortemente musicale grazie al contributo di Mattia. Sarà un epilogo sull’addio, sulla distanza, sull’eredità; andarsene, salutarsi, lasciare una traccia; sarà un lavoro sulla nostalgia, tematica che è tornata spesso e che vorremmo affrontarla totalmente in questa parte.
Family Tree è un lavoro molto intimo. Cosa ha significato riprendere questo progetto dopo anni in cui è rimasto abbandonato? C.: È stato importantissimo; ero molto dispiaciuta di averlo messo da parte anche se volevo essere sicura che quando lo avrei ripreso sarei stata in grado di svilupparlo visto che pur sapendo dove volevo andare, non sapevo ancora come. Family Tree è un lavoro molto intimo ma reso aperto dall’idea di chiamare tanta gente, di affidarlo ad altri perché il progetto è tutto di consegne: io ti consegno il progetto, tu mi dai una risposta e poi ci lavoriamo insieme.
R.: È un modo per fare diventare il personale universale in una maniera onesta, pura e molto pratica; è una cosa concreta che secondo me funziona perché dà a Chiara una distanza ottimale per separarsi dal progetto, dalla sua idea e da questa dimensione intima.
C.: Anche perché l’idea è quasi di creare una stanza dove chi decide di entrare ci consegna la sua intimità. È un continuo riformularsi di una rete di persone con i propri segreti che dal personale, che può diventare anche un po’ morboso, portano la propria soggettività in scena, in maniera più aperta e in dialogo con il desiderio degli spettatori di entrare loro stessi nel lavoro.
Il tempo perduto ha sempre quella qualità intimamente percepibile di evocazione, si avvale dei sensi che ne rintracciano la pensosa attiguità col presente, riportandone in luce sensazioni nascoste e che si credevano dimenticate, nella densa melassa della memoria. Non è un caso dunque che proprio attraverso le presenze – le sagome fuggevoli di vite odierne che ombreggiano vite passate – Alessandro Serra e Teatropersona compongano questo debutto di Aure, immaginato seguendo la linea proustiana di Alla ricerca del tempo perduto, ricerca letteraria tra i simboli più netti dell’intero Novecento.
Il loro intento è dunque intessere l’evocazione nello spazio che ad oggi pertiene, esprimendo quanto questa appartenga a chi ricorda, non al ricordo stesso, componendo quindi le presenze come marionette inanimate che tuttavia, d’improvviso, iniziano a seguire un percorso autonomo. Lo spazio scenico è invaso da una suggestione pittorica che rende la riconoscibilità della compagnia, quell’atmosfera di eleganza stilistica che traccia linee spesse e di colore denso, impenetrabile, tenendo fede a una capacità di comporre immagini cariche di consapevolezza significante; da tre aperture bianche nel nero diffuso, porte di una percezione sbiadita eppure viva, entrano ed escono le presenze, i corpi che restano installati in quel ricordo, almeno quanto il ricordo è in loro installato.
Prosegue e si conclude con AURE la trilogia del silenzio e della memoria di Teatropersona, opera che ha debuttato a Bassano del Grappa durante B.Motion 2011 e coprodotta da Operaestate Festival Veneto. Un lavoro complesso e raffinato, in grado di aprire porte su mondi che conosciamo, ma di cui è impossibile restituire un quadro e una struttura razionali. La mente umana e la sua immensa capacità di rappresentazione – che assomigliano a quelle reali, senza tuttavia esserne una copia o un riflesso – si ergono sulla scena a protagonisti assoluti di un immaginario che non si serve di parole o racconti, ma di visioni fatte di corpi che oltrepassano l’umano. Nessuna narrazione (o perlomeno nessuna esplicita) governa quello che sul palcoscenico si trasforma in un universo intimo e personale, fatto di violenze celate e passioni dirompenti.
Come nei precedenti lavori della trilogia (Beckett box e Il trattato dei manichini) la parola regala la sua assenza per lasciare che siano gli altri elementi scenici a guidare lo spettatore in un antro che – nonostante abbia le fattezze di una stanza – si discosta dalle forme quotidiane per far scivolare il pubblico in una dimensione fatta (per dirla con le parole di Shakespeare) della stessa sostanza dei sogni e del ricordo. Alessandro Serra – regista e drammaturgo della compagnia – fa proprie le riflessioni sul tempo di cui si serve lo scrittore francese Marcel Proust ne Alla ricerca del tempo perduto, per animare lo spazio mentale in cui si muovono con disinvolta precisione e rigore Valentina Salerno, Francesco Pennacchia e Chiara Michelini, dando vita a quadri da cui si sprigionano emozioni che stringono lo spettatore in un abbraccio mai confortante. Durante lo spettacolo si sprofonda perdendo la percezione di quanto a fondo si stia andando: la potenza della rappresentazione – intendendo con questo termine la capacità di dipingere corpi in movimento, senza necessariamente tessere una fabula – si scatena in un moto verticale che crea un interessante accostamento tra una continua tensione verso il basso, l’inconscio, e il librarsi di immagini legate alla propria memoria, andando a sovrapporsi a ciò che si disegna di volta in volta sulla scena. Lo spettatore è quindi chiamato ad abbandonarsi per poter danzare con le presenze che si palesano in una stanza dai tratti ibseniani, sulla quale si aprono e chiudono bianche porte che celano segreti e a volte minacce, mai provenienti da qualcosa che sta “al di fuori”: barriere che richiamano più i meccanismi di autodifesa (la rimozione, giusto per citarne uno) che il cervello attiva per proteggerci dal passato, da noi stessi. Ed è in questa dimensione che si è chiamati a forzare i limiti che ostacolano il recupero di ciò che si pensava perduto in uno spazio e in un tempo irraggiungibili: al pari della figura austera che dispone sulla scena corpi-bambola dalle giunture scricchiolanti, fino a trovare la giusta combinazione in grado di far esplodere le mura che segregano i traumi e gli eventi rimossi, lo spettatore è spinto a ridare forma alle proprie reminiscenze. Necessari veicoli per poter suggerire al pubblico la via da percorrere, la drammaturgia gestuale e il ritmo (determinato più dall’alternanza di suono e silenzio che dalla musica in sé) ricostruiscono perfettamente le condizioni necessarie al riaffiorare del ricordo: note dolci, pause e rumori quasi strazianti si sposano perfettamente con l’apparire/scomparire – a volte improvviso, a volte suggerito – delle aure ospitate dalla scena.
La sottigliezza e l’eleganza del lavoro consiste nella maestria con cui vengono disseminati indizi e dettagli necessari non tanto a leggere l’intero spettacolo, ma a farlo proprio, innestando un’immedesimazione mai psicologica, quanto strutturale: lo spettatore è complice del processo in scena, nel momento in cui è chiamato a immergercisi per poter completare quelli che altrimenti potrebbero rimanere solamente degli splendidi squarci sul vuoto. Un invito che corre però il rischio di non essere còlto se non si abbandona la necessità di ricercare una traccia narrativa, che colleghi gli episodi che si susseguono sul palcoscenico: suggestioni ispirate alle opere di Vilhelm Hammershøi, pittore danese nelle cui rappresentazioni d’interni – dichiara Teatropersona – «il tempo fluisce come fatto luminoso» dove «tutto è al contempo immobile e vibrante». In questo ultimo capitolo, Serra dimostra ancora una volta di possedere una eccezionale abilità di plasmare la luce, al punto da farla divenire l’elemento in grado di conferire agli attori/danzatori una matericità straniante e che richiama alla mente i “corpi di vetro” delle allucinazioni del Solaris tarkovskijano. Complice l’uso di un suono mai naturalistico, capace di scatenare associazioni destabilizzanti che rimandano ad una artificiosità che – forse – si fa metafora del fare teatrale stesso.
Negli ultimi anni festival e rassegne sono invasi da una forma piuttosto inedita di creazione teatrale, quella dello “studio”: vuoi per via della struttura di alcuni premi (Scenario sceglie i propri vincitori fra progetti di venti minuti che saranno sviluppati in un secondo momento), vuoi per il mutare della soglia di attenzione o per assecondare i nuovi modi di fruizione, sempre sotto l’egida dei modelli assorbiti dai nuovi mezzi di comunicazione. Spesso il pubblico si trova dunque di fronte a formati brevi, sempre in divenire, quando addirittura non a veri e propri materiali di lavoro ancora allo stadio embrionale. In questo modo le compagnie possono sottoporre pubblicamente le proprie idee, sperimentare e testare le reazioni degli spettatori, in vista dello spettacolo definitivo.
“Genealogie” è un percorso che Il Tamburo di Kattrin intende offrire agli spettatori di B.Motion 2011: molti degli spettacoli e degli artisti in programma sono già stati ospiti delle passate edizioni del Festival o hanno avuto, durante l’anno, la possibilità di lavorare a Bassano alle nuove creazioni. In questa sezione vengono ricostruiti i passaggi, fra presentazioni e diversi studi, che dalle prime fasi di lavoro hanno portato alla realizzazione dello spettacolo, andando a scoprire come i diversi artisti utilizzano questa possibilità e quanto essa diventi un’occasione di confronto capace di incidere sul processo creativo e sugli esiti del lavoro.
Anagoor, compagnia di Castelfranco Veneto ormai presenza fissa di OperaEstate da diversi anni, giunge all’esito conclusivo del progetto Fortuny dopo un lungo percorso di ricerca, espresso di fronte al pubblico attraverso diverse performance: la prima al Festival Contemporanea di Prato, seguita da quella di Drodesera e di B.Motion 2010, fino all’esperimento site-specific che ha avuto luogo questa primavera a Palazzo Fortuny di Venezia. A differenza di altre modalità di ricerca, in cui lo studio è colto come occasione per approfondire un percorso lineare, che volta per volta viene rilanciato dall’esito scenico in questione, sembra che Anagoor utilizzi questi momenti per dare vita a uno sguardo ampio, divorante dell’immaginario e della storia. “Rizomatico” è forse la definizione che meglio si potrebbe accostare a un simile processo di lavoro, in cui i singoli episodi, pur nutrendosi di reciproche persistenze, si propongono in una dimensione di consistente autonomia.
1/4: HOW MUCH FORTUNE CAN WE MAKE? (performance) Contemporanea Festival (Prato) – 28, 29, 30 e 31 maggio 2010
«Questa breve performance intreccia una relazione tra un giovane e l’immagine della Venezia antica che appare ne Il miracolo della Reliquia della Croce o L’esorcismo dell’indemoniato (The Healing of the Madman) una tela di Vittore Carpaccio. Il riconoscimento della vibrazione dolorosa sotterranea, interna all’opera d’arte, innesca un processo di deflagrazione della rappresentazione solare di una società che desidera vedersi rappresentata all’acme del proprio successo economico, politico e culturale».
Non essendo in grado di fornire qui un documento personale di questo primissimo approccio al progetto Fortuny, oltre alle parole della presentazione è possibile approfondire attraverso la rassegna stampa sul sito della compagnia.
2/4: WISH ME LUCK. (performance + videoinstallazione)
Drodesera Festival (Dro) – 23, 24, 25 luglio 2010
Fin dal titolo, questo episodio evoca la dimensione del viaggio: “augurami fortuna”. E si apre l’itinerario all’interno del progetto Fortuny. Tre performer (Pierantonio Bragagnolo, Moreno Callegari e Marco Menegoni − anche interpreti dello spettacolo definitivo) alle prese con una sorta di rito iniziatico: la Forgia della Centrale Fies è trasformata in un interno antico, che potrebbe essere la sala di un palazzo o forse un laboratorio d’alchimia. Dal buio affioraun video, scomposto in due schermi vicini come nel lavoro precedente Tempesta: dalle estetiche inquietanti, mostra i tre emergere dalle acque lagunari e poi vestirsi per avviarsi a una rivolta mai rivelata. A conclusione del video, si scopre che uno dei tre è in scena, seduto su un tavolo, in attesa; subito un altro richiamo a Tempesta: il performer si avvicina alla Giuditta di Giorgione − ma qui non si tratta di contemplazione, mentre l’attore, dopo aver accarezzato l’immagine con una lama, ne incide e scalfisce la superficie lasciando fuoriuscire una nuvola di polvere dorata. Anagoor sembra voler introdurre lo spettatore nel proprio laboratorio intorno al progetto Fortuny, fra rimandi allo studio precedente e nuovi slanci, persistenze della propria biografia artistica e una quantità/varietà di materiali ancora in stato di lavorazione. Lo spazio è oltremodo saturo, una pienezza frutto di una composizione ben calibrata: i tessuti di Fortuny e i dipinti, i video e le progressive apparizioni dei performer che affiorano dal buio; ma la densità di questa creazione, già espressa dal suo disegno spaziale, si trova soprattutto nella precisione tagliente, nella decisione delle partiture gestuali e in una tensione irriducibile che fa vibrare la scena fra immanenza e trasformazione.
3/4: CON LA VIRTÙ COME GUIDA E LA FORTUNA PER COMPAGNA (performance)
B.Motion (Bassano del Grappa) – 3, 4 settembre 2010
La performance di Bassano, terzo momento del progetto, è invece assolutamente priva di ambientazione scenografica, incastonata com’è nello spazio ellittico della Chiesetta dell’Angelo. Fa la sua apparizione una donna, completamente coperta d’oro: fra il fumo denso che pervade la scena e un soundscape estremamente materico, comincia a muoversi, come ad insegnare al gruppo di performer che la seguono la direzione e il tempo del percorso che andranno a intraprendere. Anche qui si impone il leitmotiv della preparazione al viaggio, con la progressiva vestizione e il lavarsi reciproco dei protagonisti − ulteriore dimensione presente in Tempesta (la preparazione del performer), fra disciplina e ripetizione, ascesa e fallimento, che forse può emergere come caratterizzante della ricerca della compagnia.
foto di Adriano Boscato
4/4: BALLO VENEZIA (insediamento performativo)
Palazzo Pesaro degli Orfei (Venezia) – 18, 19, 20 febbraio 2011
Questo “insediamento performativo”, ultimo passaggio prima dell’esposizione completa di Fortuny, si articola in diverse sessioni e approcci: al piano terra di Palazzo Pesaro degli Orfei (che fu abitato da Mariano Fortuny), l’installazione dei video già presenti nei precedenti episodi racconta tramite una tessitura vibrante della preparazione a una rivolta e rimanda alla distruzione delle gondole del 1507 ad opera di alcuni giovani veneziani. Dopo la video-installazione, che è una sorta di “prologo” capace di trasmettere una delle cifre ormai note della compagnia − quell’incontro mai garantito fra antico e contemporaneo − si accede alla performance vera e propria: la sala mantiene, seppur con un certo tentativo di sintesi, lo spessore dei tessuti di Fortuny, che qui trovano una precisa funzione scenica, mutandosi in progressivi sipari capaci di restituire un senso di stratificazione di segni ed emotività dalla qualità differente. I due schermi trovano posto su dei cavalletti da pittore, mostrando texture ipnotiche che poi si rivelano sculture mutilate, da intrecciare a malformazioni e deformazioni umane. La figura dorata di Con la virtù come guida rinfonde l’apprendimento di un moto a un gruppo di performer. Qui si innesta una variazione piuttosto singolare nel percorso del progetto: alzato un sipario, una schiera di figure femminili entra in scena ed entrambi i gruppi avviano una danza bidimensionale, che attraversa lo spazio in senso orizzontale, in una coreografia quasi di massa che sembra poter aprire nuovi sviluppi per il lavoro della compagnia.
Il soundscape materico lascia spazio, nell’ultimo momento della performance, ad una partitura di canti, eseguiti dal vivo al piano nobile del Palazzo.
Nel Ballo, allestito proprio in quegli spazi che furono laboratorio per Mariano Fortuny, si incontrano i segreti di una Venezia ferita (dal crollo del Campanile di San Marco in giù) e il labirinto di Teseo, imperfezioni e cangianze, la qualità luminosa della città e riferimenti estratti dal lavoro di Fortuny, segreti e rivelazioni − a comporre una performance che sembra porsi come manifesto di resistenza alle (non)politiche di un Paese che sempre meno si occupadel proprio patrimonio storico-culturale (e quindi, forse, del proprio domani), in un cortocircuito fra passato e futuro efficacemente evocato dal lavoro di Anagoor.
FORTUNY
debutto a Drodesera Festival (Dro, TN) – 28, 29 luglio 2011
visto a B.Motion (Bassano del Grappa) – 1 settembre 2011
La Fortuna incarnata da una figura femminile dorata che ricorda la “banderuola” di Punta della Dogana (Occasio di Bernardo Falconi che rappresenta proprio la fortuna) a insegnare la strada a dei performer che sembrano intraprendere un viaggio; i due monitor che presentano immagini di statue, Venezie trafitte e figure umane oggetto di mutilazioni; i tessuti di Mariano Fortuny a mo’ di sipari progressivi e il fumo che addensa la scena, la mummia, i dipinti e la cangianza dei corpi che svaporano ricoprendosi di glitter. E ancora la resistenza e la storia che riaccade, l’antico che incontra il moderno, l’apprendimento e la dimensione iniziatica, enigmatica. Sembra che Anagoor, nell’esito definitivo del progetto Fortuny, intenda far rientrare tutti gli (tanti degli) elementi incontrati lungo l’itinerario di indagine: in scena, infatti, si affiancano frammenti e squarci già intravvisti nelle performance che preludono allo spettacolo. Ma, estratti dal proprio contesto originario (quasi sempre gli interventi erano concepiti site-specific) e giustapposti, distillati in fermo-immagine da un percorso estremamente dinamico, sembrano più confondersi che partecipare a una composizione organica; forse è proprio la sottrazione dell’ambiente e il conseguente innesto in uno spazio neutrale (più vicino al non-luogo di Augé che alle raffinate collocazioni degli studi) a trasportare le azioni in una dimensione altra, fra l’impersonalità asettica, lo svaporamento dell’afflato filologico e l’affastellamento di idee. Sembra così che ognuno dei tre performer proceda all’interno di un proprio percorso conosciuto e definito (anche nelle situazioni più corali), facendo venir meno le linee di quella tensione che portavano a vibrare sia le partiture gestuali che i rapporti fra uomini e oggetti o immagini.
Di più, sembra che la compagnia si sia qui concentrata soprattutto sugli elementi residuali dalle performance di Drodesera e B.Motion 2010, privilegiandone i tratti costitutivi, mentre poco resta dell’efficace intervento a Palazzo Fortuny (dalla quantità dei performer coinvolti alla rarefazione iconografica, fino al rapporto con la storia, espresso là con particolare efficacia). Ma non è solo quest’ultima linea, che ha a che fare con la riappropriazione della storia (del passato e del futuro) in scena attraverso la performance − che sembrava di una pregnanza considerevole non solo nei termini di questo lavoro ma anche riuscendo a illuminare l’intera ricerca della compagnia − a mancare in Fortuny: anche la dimensione dell’apprendimento e dell’iniziazione (ulteriore elemento-chiave per il lavoro di Anagoor) è più accennata che sviluppata.
Si potrebbe ipotizzare che la compagnia si sia impegnata di più a risolvere un faticoso montaggio di spunti che ad esperire e trasmettere, com’è il suo solito e come si è visto nei diversi studi, un affondo progressivo nel materiale scenico. Gli episodi che precedono Fortuny erano infatti forti, da un lato, di una contestualizzazione ambientale che ne valorizzava la dimensione performativa e, dall’altro, di una concentrazione sorprendentemente eccessiva sui materiali che via via hanno caratterizzato la ricerca. Anzi, si può azzardare, quello che accadeva in scena e che magnetizzava l’attenzione del pubblico così come la tensione fra i performer, era proprio l’esposizione di una ricerca in atto, che dimostrava così tutta la propria instabilità, la propria urgenza, l’irriducibilità delle intenzioni; forse, in Fortuny, questa dimensione si è convertita in esito, andando a cristalizzare gli slanci interpretativi e ad omogeneizzare le relazioni fra i materiali.
Com’è bella l’acqua di un fiume, corre lungo una direzione che nessuno sguardo saprà mai contrastare: si potrà guardare controcorrente, ma lei continuerà a scorrere via; così bella è l’acqua del fiume, così bella che non te ne accorgi nemmeno di quanto la sua esistenza sia sempre intimamente connaturata alle terre che divide, ma senza mai dividerle davvero. Con Tommaso l’abbiamo percorse entrambe, correndo accanto a quell’acqua dal primo fino all’ultimo giorno di questo B.Motion 2011, abbiamo graffiato di passi e di parole la traccia sconnessa di lungofiume, abbiamo immaginato mondi calcandone altri,intrecciato tensioni ed ebbrezze che la scena ci consegnava a questo groviglio della natura, come se quel che accadeva in teatro dovessimo cercarlo altrove, negli spazi consegnati dalla bassa sotto il Monte Grappa, per davvero sentirli veri.