Città di Ebla - The dead (foto di Adriano Boscato)
A passeggio per un viale a mezza sera, con la vallata di fianco e le montagne quasi invisibili poco lontano, con solo qualche luce fioca che ne dice la fisicità imponente, mi trovo a ragionare con veemente sveltezza di pensiero e di passo con il direttore di questo B.Motion 2011 al quarto giorno, Carlo Mangolini, mentre ci rechiamo al Garage Nardini per vedere il lavoro ultimato di Anagoor dal titolo Fortuny, di cui altrove si darà conto; allora è un’altra percezione che mi cattura, quando scopro questi strani alberi buffi e simpatici lungo il viale, vicino al parapetto, tosati a forma di fungo; di questa buffa scoperta dico a Carlo, ma m’inchioda all’evidenza la mia percezione di superficie: lui mi invita a guardare meglio, sono gli alberi degli impiccati, dove i martiri della Resistenza hanno strozzato – ognuno a un albero diverso – l’ultimo respiro. Capisco oggi di più, quanto la prima vista sia fallace.
Come era prevedibile fin dalla prima presentazione, fin dalla conferenza stampa, i giorni-chiave di B.Motion Teatro sono stati questi 30 e 31 agosto a mezza settimana: non solo i pur attesissimi debutti di fine festival (Fibre Parallele e Teatro Persona), né il ritorno, con nuovi lavori, di artisti ormai “di casa” (Babilonia e Anagoor, tanto per citare i casi esemplari), ma innanzitutto e soprattutto le serate dedicate a progetti ancora in lavorazione – attenzione che ha distinto negli ultimi anni il lavoro di OperaEstate sul contemporaneo. Due serate dedicate alle compagnie della Generazione Scenario, certo, che con i loro 20 minuti di studio stanno girando i festival estivi, ma anche a progetti e idee diversi, che trovano nel contesto del festival una prima o primissima occasione di esposizione e confronto.
Degli artisti di Scenario qualcosa s’è già detto in diretta dalle finali (leggi l’articolo); si può aggiungere che sono stati protagonisti di due sessioni di incontri a Palazzo Bonaguro, per incontrarne le poetiche e farle incrociare fra loro, discutendo di teatro e d’altro con gli organizzatori e gli ospiti del Festival. Grande occasione per ricostruire identità e provenienze, per illuminarne i propositi e – perché no – mettere insieme i pezzi: dalle chiacchiere pomeridiane di B.Motion sono emerse molte differenze e specificità, ma anche tratti comuni che possono aiutare a fare i conti con le modalità del Premio e con le condizioni del processo creativo al giorno d’oggi. Un punto (di forza e di difficoltà) riguarda il formato richiesto dei venti minuti: le compagnie trascorrono diversi mesi (quantomeno dalla semifinale di marzo alle finali di luglio, più la tournée) a lavorare all’interno di una forma davvero sintetica; per tutti è una sfida, soprattutto declinata nel comprimere o selezionare la gran quantità di materiale elaborato durante il processo creativo in un insieme coerente di breve durata – per alcuni “trailer” capace di presentare o lasciar intuire l’intero lavoro, per altri invece corrispondente ai primi minuti (in senso cronologico) del futuro spettacolo. E dopo un così intenso periodo di concentrazione sui “venti minuti”, per tutti ad oggi la domanda è come andare avanti: per chi aveva già un piano di lavoro abbastanza definito sono cambiate tante cose, che mettono in discussione i progetti iniziali; per chi invece è arrivato alla finale “solo” con la dimensione legata allo studio, la scommessa è adesso nello sviluppo dei singoli elementi presentati. Poi l’accento è posto sulla duplice occasione offerta dal Premio, sempre nel contesto di una dimensione di confronto: prima con gli operatori (con cui vengono discussi ogni volta i lavori), ma anche con gli altri gruppi, di cui è possibile non solo vedere i progetti ma anche intercettare in alcuni casi il processo creativo.
Fuori dalle dinamiche legate alle modalità del Premio – che pure hanno assorbito buona parte delle nostre domande e delle considerazioni emerse – si riescono anche ad intuire dei frammenti di immaginario che mettono in condivisione lavori e idee tanto differenti, dall’impatto sulla scena delle più recenti evoluzioni dei mezzi di comunicazione (il modello di autorialità da “wikipedia” su tutti, ma anche quello della playlist) alla condizione generazionale, che mostra i trentenni di oggi alle prese con le macerie del capitalismo occidentale e con la precisa (precisissima in alcuni di questi lavori!) volontà di non sottrarsi alla responsabilità di raccontare il proprio mondo (altro che fine della storia!). E, infatti, ulteriore elemento che ritorna, si trova una sorta di riemersione della componente biografica, ad innesco o cornice dei singoli progetti, forse nel contesto di un tentativo di recupero dell’individuo – e quindi della sua responsabilità, della sua collocazione nella società e nella storia.
Per quanto riguarda il processo creativo, ognuno “scrive” a modo suo – e qui si avvertono le diverse specificità che caratterizzano i gruppi: se i danz’autori di Spic & Span hanno sviluppato un modello che essi stessi definiscono di “scrittura automatica”, a 6 mani, Carullo – Minasi concordano in una modalità molto simile, che però si muove per sottrazione, mentre quello di foscarini:nardin:d’agostin è condotto per accumulo e variazione. ReSpirale e inQuanto teatro tentano processi di scrittura collettiva; Matteo Latino intende invece sperimentare una dimensione drammaturgica e performativa più definita, assumendosi la responsabilità autoriale e registica del progetto (salvo poi segnalare la consistenza del continuo confronto con Fortunato Leccese, interprete con lui di Infactory). Certo, ognuno “scrive” a modo suo: si vede tanto negli studi e altrettanto torna nelle discussioni; ma, se si può azzardare una messa in prospettiva dell’esperienza di questi giorni, ognuno è dichiaratamente alla ricerca di un nuovo linguaggio teatrale, che proprio in queste settimane sta mettendo a punto. Vedremo nei prossimi quali ne saranno gli esiti.
Ma nelle serate del 30 e 31 agosto il pubblico non solo ha avuto l’occasione di conoscere i vincitori e segnalati del Premio Scenario (sempre emblemi delle nuove generazioni che si affacciano sulle scene italiane), ma anche di incontrare altri progetti in fase di lavorazione, ad opera di alcuni giovani artisti che il festival ha deciso di ospitare.
Bersani | Vilardo "Le mie parole..." - foto di Adriano Boscato
Il 30, oltre ai lavori di ReSpirale e inQuanto teatro dal Premio Scenario, sono stati presentati Pas d’hospitalité di Davide Dolores e Laura Graziosi e Yogurth di Ailorus. Se la prima creazione, pur mostrando soltanto 20 minuti di lavoro, riesce a offrire al pubblico l’occasione di visionare alcuni materiali eterogenei, a diversi gradi di lavorazione, la seconda assume invece l’aspetto di uno spettacolo già concluso. Pas d’hospitalité propone una struttura testuale magnetica, ben “indossata” dalla partitura gestuale e dall’espressività dell’interprete; l’idea è curiosa quanto inquietante: una donna, sempre sola in scena, prepara (a parole) una cena per tanti amici, salvo poi scoprire che è tutto nella sua testa e nessuno si presenterà all’appuntamento. Il testo esplode nella concentrazione iniziale, in particolare nell’incalzare quasi futurista del menù che l’attrice presenta a fior di proscenio, con gli occhi sbarrati verso il pubblico, lasciando mano a mano trasudare un’ansia che inghiotte le parole e i sensi; dopo questo incipit, capace di suscitare un certo interesse, tuttavia la drammaturgia rischia di appiattirsi su modalità più canoniche del monologo d’attore, scivolando dalla buona incisività dei momenti iniziali a una più consueta interpretazione teatrale, rilanciata, in qualche caso, da una partitura fisica che nel suo affannarsi diventa quasi coreografia. Curiosa l’idea (formale e concettuale) nell’innesco, che lascia appunto trapelare la ricerca di un dispositivo testuale originale, che sembra voler fondere corpo e linguaggio – meccanismo sviluppato solo in parte ed oggetto, in qualche passaggio, di una sorta di “ritorno all’ordine” della scena, verso esiti più visti e conosciuti.
Se in questo piccolo lavoro in stadio ancora di elaborazione sono esposti pochissimi materiali, ma in alcuni casi con grande cura e concentrazione, in Yogurth la situazione è all’opposto: la scena è invasa da un’enorme quantità di linguaggi e registri, elementi e idee che non sembrano trovare una collocazione convincente nel montaggio. Viene proposto come uno spettacolo finito, ma si potrebbe considerare anche qui uno studio, pur forte di una gran varietà di materiali. Al di là di alcuni elementi che sicuramente troveranno armonia col tempo – diverse sbavature tecniche e il ruolo poco tagliente dei “servi di scena”, alcune lunghezze eccessive e qualche riferimento davvero troppo trash – sembra che Ailorus non abbia ancora trovato i limiti entro i quali racchiudere (e quindi lasciar schiudere) il lavoro: l’idea di un’indagine spietata intorno ai pilastri dell’eterna giovinezza che sembra oggi affliggere la società contemporanea, così come descritta nella presentazione dello spettacolo, può avere decisamente sviluppi differenti. Certo la carne al fuoco è tanta, troppa probabilmente, e così si rischia di perdere questa pur interessante prospettiva nella vivace confusione di idee ed elementi che si affastellano in scena.
Infine, il 31 agosto, assieme alla seconda parte della Generazione Scenario (foscarini:nardin:d’agostin, Matteo Latino, Carullo – Minasi), chiude la serata il primo studio di Chiara Bersani e Sara Vilardo per Le mie parole sono uomini. L’idea, nata nel contesto del laboratorio che Rodrigo Garcia ha tenuto per la Biennale Teatro nel 2010 e in cui le giovani performer si sono conosciute, è quella di mettere a confronto due differenti linguaggi, mondi, corpi. Il modo in cui il pubblico è reso partecipe di questa ricerca si sviluppa in un’esposizione di materiali dall’aspetto e dalla provenienza più disparati. In un angolo del Garage Nardini si inseguono, con insolita naturalezza e tranquillità, diverse scene – certo una consistente quantità di materiali ancora allo stato embrionale, ma che in alcuni momenti dimostrano una densità interessante. In particolare, la modalità testuale “a parete” e un particolare uso dello spazio, l’intreccio fra le due presenze in scena quasi contrappuntato così come la declinazione individuale di un’amara inadeguatezza, trattata con una certa ironia e sospesa fra il biografico e il performativo. Qualche resistenza invece si trova in una (forse) eccessiva complicazione della scena, sempre predisposta e smontata a vista, e, in alcuni passaggi, nel rischio che la vivacità e l’originalità dei materiali sia a volte inghiottita dai cliché teatrali. Non è possibile andare oltre, perché lo slancio che troverà o meno questo progetto attraverso le fasi di montaggio è, ad oggi, imprevedibile; per ora, in questo caso come negli altri incontrati qui a Bassano, è importante, davvero, dichiararne il segno e l’urgenza espressa dentro e fuori dalla scena.
Stamattina promette pioggia, sopra le case, le chiese, la campagna laboriosa di questa Bassano di frontiera, paese di confine tra l’operosità e il silenzio. Acqua, tanta ne passa sotto i suoi ponti, a volte rischia di scendere dall’alto. È solo allora che ci si interroga sulla fragilità di certe coperture, sull’accessibilità dei ripari, sulla perentoria accortezza che ne limiti lo scroscio e l’intemperia. È questo il pensiero più accurato – e accorato – che scivola sotto gli altri e si va ad accovacciare dove la città gli regala il silenzio, dove può cercare in una riflessione che riannodi questi primi giorni di B.Motion 2011 e gli studi proposti dall’ultima generazione di Scenario 2011.
Per il Diario di Bordo di B.Motion 2011 la redazione del Tamburo di Kattrin si apre ad accogliere contributi e segni degli ospiti del Festival: critici, studiosi, operatori che passano per Bassano del Grappa in questi giorni sono invitati a lasciare un intervento sulle nostre webzine, per raccontare, tramite i diversi canali del web, quello che accade a B.Motion.
Andrea Porcheddu, che a B.Motion ha condotto ieri pomeriggio l’incontro con la compagnia ricci|forte, ci ha inviato stamattina un breve commento sulla sua presenza al festival e sul ruolo che esso assume nel panorama della scena contemporanea.
DA ANNI NON TORNAVO A BASSANO…
di Andrea Porcheddu
Da anni non tornavo a Bassano. Per mie colpe, non certo perché la proposta del festival fosse priva di interesse. Anzi. Va detto che qua, da anni, si vede non tanto il teatro che c’è, cosa che può accadere più o meno ovunque, quanto il teatro che verrà, ossia vedere in prospettiva le tendenze, le estetiche, gli stili che contageranno la scena italiana del futuro. Merito certo dell’attenta politica di Carlo Mangolini e del suo staff, capaci, stagione dopo stagione, di far di questo piccolo centro qualcosa di piu di un bel ponte da attraversare. Ma l’idea di “ponte”, a pensarci bene, deve essere radicata a Bassano. Perché in qualche modo qui si costruiscono ponti con il futuro, con ciò che sarà. Così, anni addietro, capitavano da queste parti i più o meno sconosciuti Ricci/Forte giovanissimi, a raccontare e mostrare il proprio teatro, oggi acclamato, discusso, adorato ovunque. E oggi, a distanza di tempo, con Stefano e Gianni si è discusso, in un ombroso cortile, di estetica e politica. Mi sono lanciato, introducendo l’incontro, in un azzardato confronto tra le categorie lacaniane (reale, immaginario, simbolico) e il teatro del gruppo romano che a B.motion presenta Grimmless, ulteriore fase della loro ricerca.
Ora, mentre scrivo queste note, chiuso in camera d’albergo – complice la presenza vivace e pervasiva di un bimbo di 4 anni che m’accompagna – risuona dalla strada la musica imperiosa e misteriosa di Anagoor, in scena con l’esito finale del lungo viaggio nell’universo immaginifico di Mariano Fortuny. Anche la compagnia di Casterfranco ha trovato in B.Motion una cassa di risonanza notevole.
Allora, quel che preme sottolineare, è che in questi anni il festival è cresciuto, si è guadagnato sul campo una identità forte, rocciosa come le montagne che circondano la città e fluida come il fiume che l’attraversa. L’espressione “bella realtà” è consunta, fin troppo abusata. Ma qui, nell’aria frizzante di un settembre appena iniziato, viene da pensare che questo festival sia davvero una bella realtà. Bella perché viva, ricca di senso e di persone appassionate. Realtà perché vera, concreta, costruita giorno dopo giorno in spazi, anfratti, palazzi, magazzini, distillerie di tutta Bassano. Il pubblico lo sa, e risponde con attenzione. Resta allora da capire che teatro vedremo nei prossimi anni. A fine festival sapremo qualcosa di più.
Abbiamo incontrato gli artisti del Premio Scenario 2011 in programma a B.Motion 2011 e alcuni street artists che presenteranno i loro lavori nell’ambito di Infart, una tre giorni di musica, urban art e street culture che animerà i garage di Nardini, l’Arena Cimberle, il Museo Civico e il Castello degli Ezzelini di Bassano del Grappa. In questo momento di contaminazioni, li abbiamo intervistati per sapere qualcosa di loro.
In questa prima parte ci rispondono inQuanto Teatro (Menzione Premio Scenario 2011), 108, Carullo-Minasi (Vincitore Premio Scenario per Ustica 2011) e Ufocinque.
Negli ultimi anni festival e rassegne sono invasi da una forma abbastanza inedita di creazione teatrale, quella dello “studio”: vuoi per via della struttura di alcuni premi (Scenario sceglie i propri vincitori fra progetti di venti minuti che saranno poi sviluppati), vuoi per le trasformazioni dei limiti della soglia di attenzione o per altre dovute a nuovi modi di fruizione, sempre sotto l’egida dei modelli assorbiti dai nuovi mezzi di comunicazione. Spesso il pubblico si trova dunque di fronte a formati brevi, sempre in divenire, quando addirittura non a veri e propri materiali di lavoro ancora allo stadio embrionale. In questo modo le compagnie possono sottoporre pubblicamente le proprie idee, sperimentare e testare le reazioni degli spettatori, in vista dello spettacolo definitivo.
“Genealogie” è un percorso che Il Tamburo di Kattrin intende offrire agli spettatori di B.Motion 2011: molti degli spettacoli e degli artisti in programma sono già stati presenti alle passate edizioni del Festival o hanno avuto, durante l’anno, la possibilità di lavorare a Bassano alle nuove creazioni. In questa sezione vengono ricostruiti i passaggi, fra presentazioni e diversi studi, che dalle prime fasi di lavoro hanno portato alla realizzazione dello spettacolo, andando a scoprire come i diversi artisti utilizzano questa possibilità e quanto essa diventi un’occasione di confronto capace di incidere sul processo creativo e sugli esiti del lavoro.
Babilonia Teatri è ormai una presenza fissa a B.Motion. Se l’anno scorso uno studio di The End aveva chiuso il Festival, è la versione definitiva dello spettacolo a inaugurare l’edizione 2011, come a segnare la continuità del lavoro che OperaEstate dedica agli artisti in programma. Lo spettacolo, ultima creazione della compagnia veronese, si concentra sulla tematica della morte e sulle modalità in cui è affrontata nella società contemporanea.
Prologo: This Is the End My Only Friend the End Progetto Speciale per Santarcangelo 40. Festival Internazionale del Teatro in Piazza
Santarcangelo di Romagna, 9-11 luglio 2010
È d’obbligo introdurre la nascita e lo sviluppo di The End attraverso la sua prima tappa di avvicinamento, un progetto speciale concepito per il Festival di Santarcangelo 2010. Questa azione site-specific si può considerare una sorta di “prologo” allo spettacolo, in quanto segna un primo approccio pubblico del gruppo al tema della morte; molti elementi individuati durante la preparazione del lavoro persistono, seppure come tracce, nel prodotto finito, mentre altri sono stati abbandonati.
Questo progetto, si legge nella presentazione, «è prima di tutto l’incontro di Babilonia Teatri con dieci persone, dieci teste, dieci corpi, per aprire nuove strade e lasciarsi spostare da nuove energie».Gli attori sono stati infatti selezionati tramite un bando che la compagnia ha lanciato su YouTube a febbraio 2010, cercando 10 persone per creare un “blob” teatrale per Santarcangelo 40. Si chiedeva di inviare, entro il 15 marzo, una video-risposta al messaggio, sempre tramite il celebre canale video. Al bando arrivarono centinaia di risposte – «un blob di voci, nomi, immagini, desideri» – fra cui i Babilonia selezionarono i 10 che avrebbero dato vita al progetto a Santarcangelo, dopo dieci giorni di residenza-laboratorio.
L’azione ha avuto luogo per tre giorni, dal 9 all’11 luglio, alle Corderie, segnando una consistente apertura per una compagnia il cui lavoro è solitamente affidato a due o tre performer. In fase iniziale sono tutti fermi al muro, nel grande spazio pieno di colonne che ospita l’azione; a un fischio, si gettano di foga a pulire il pavimento. Tutti e dieci i protagonisti corrono avanti e indietro, impegnati poi a pulire freneticamente il grande spazio in cui l’azione ha luogo, mentre prende vita quella forma di blob teatrale – un affastellarsi e rincorrersi di parole – a cui ci ha abituato la compagnia veronese. Ma quel blob di megafoni, che ormai è la cifra con cui i Babilonia si sono fatti conoscere sui palcoscenici d’Italia e non solo, è qui esploso in una polifonia di visioni e di voci, con una identità e una provenienza quasi riconoscibili: è un montaggio di pensieri intorno alla morte, citazioni che si sovrappongono, sguardi che tremano. E ancora tutti saltano, corrono, smuovono il buio con movimenti frenetici. Carcasse appese al soffitto incorniciano uno dei pochi momenti veramente corali: una coreografia su Ciao amore ciao di Tenco che prende le forme di un grande hully gully.
This Is the End My Only Friend the End «è poi anche la canzone dei Doors»: citata nel lancio del bando nel video-messaggio di Babilonia Teatri, oggi chiude nel finale lo spettacolo The end.
1° passaggio: The End – fase di lavoro 1 Anteprima per il festival B.Motion
Bassano del Grappa, 4 settembre 2010
Il nuovo lavoro di Babilonia Teatri vede un’ulteriore presentazione al pubblico in chiusura di B.Motion nel 2010. Abbandonata la molteplicità del gruppo dei dieci performer di Santarcangelo, in scena si trovano solo Enrico Castellani e Ilaria Dalle Donne. Anche loro corrono da un lato all’altro della scena; dietro, un grande crocefisso, mentre le carcasse appese hanno lasciato spazio, ai due lati della croce, a una testa di bue e una testa d’asino, penzolanti da un gancio da macellaio. Sfiniti, gli attori si accasciano sul pavimento, o contro un muro, dando vita a un soundscape di respiri e affanni.
Qui, se alcuni elementi già presenti al primo step di Santarcangelo vengono recuperati e sviluppati (dalla corsa alla presenza dell’animale), prendono vita alcuni semi testuali che si ritroveranno poi nei nuclei drammaturgici dello spettacolo definitivo, fra cui il pezzo “del boia” (dedicato all’eutanasia), già presente anche a Santarcangelo.
foto di Adriano Boscato
Lo spettacolo: The End debutto: Teatro CRT – 25 gennaio 2011
visto a B.Motion – 29 agosto 2011
Dei passaggi precedenti, appena passati in rassegna, rimangono alcuni elementi-chiave, che vanno a caratterizzare lo spettacolo conclusivo: oltre l’impianto concettuale, di grande impatto, resta il colpo di pistola (presente anche nelle altre due tappe), le teste del bue e l’asinello ad incorniciare il crocefisso a centro scena, le musiche (Doors in chiusura e l’hully gully su Ciao amore ciao); così come alcuni nuclei testuali, che vengono incastonati in un più ampio affondo per frammenti intorno all’idea della morte.
Ma gli attori in scena diminuiscono ulteriormente: è Valeria Raimondi, sola, a interpretare tutto lo spettacolo. Niente corse, niente salti: l’attrice è quasi sempre immobile, non fosse per alcuni, pochissimi, gesti netti e decisi, di grande pregnanza scenica (dallo sparo all’elevazione del crocefisso). Fra il rumore delle paillettes d’argento del suo abito, capaci di riflettersi tutto intorno e di catalizzare ancora di più l’attenzione sulla sua figura, arriva inferocita a centro scena: all’inizio è una gran fatica per gli occhi, ma poi la luce con le sue rifrazioni e la litania-rap dal taglio precisissimo fanno passare oltre la percezione, per cui non è azzardato parlare quasi di ipnosi. Con The End si riesce a fare luce su un tratto dei lavori di Babilonia, che forse può schiudere anche prospettive sugli eventuali sviluppi del loro lavoro: il ritmo circolare delle parole, una phoné tagliente portata fino all’estremo, con un uso sapiente delle luci e il volto che non tradisce alcuno sforzo, intrappolano l’attenzione e possono trasformare la percezione in trance, in un unione radicale – più pre-concettuale che emotiva – fra scena e platea. Ed è probabilmente la presenza solitaria di Valeria, la monumentalità che trasuda dalla precisione dei suoi gesti, combinata con una (fortuita) visione particolarmente ravvicinata a far emergere questa ulteriore chiave di lettura sul lavoro dei Babilonia, sul dispositivo drammaturgico che stanno man mano affilando per la loro scena.
Le immagini sono poche, sempre più rarefatte, ma forse anche per questo assumono un certo impatto scenico, a segnare quel cortocircuito fra morte e vita che ha preso piede nella creazione di questo spettacolo. L’innesco, infatti, era sull’idea di morte e sulla sua rimozione ai giorni nostri. Questo è rimasto: dal discorso sull’eutanasia ai processi di invecchiamento, dalla ricerca dell’eterna giovinezza alla demistificazione o rimistificazione del lutto. Ma, in tensione magnetica rispetto a quella di partenza, vi si è affiancata un’altra dimensione, quella della nascita e della vita, di cui è oggi intessuto l’intero spettacolo. Un caso su tutti: non quarti di maiale a penzoloni, ma il bue e l’asinello, a tracciare una lettura sempre necessariamente doppia e complementare che esplode nel finale, quando l’attrice, sulle note di The End dei Doors, rientra in scena per qualche momento tenendo in braccio il piccolo Ettore, di cui è diventata madre da poco.
Abbiamo passato il primo giorno bassanese a immaginare, ascoltare, quasi voler misurare lo scorrere dell’acqua di qua e di là dal ponte, sul confine di due sponde che il Brenta tiene separate per soltanto non far credere agli uomini di poter tutto loro: puoi fare un ponte, mica unire le terre. Ma quel primo giorno a B.Motion 2011 era solo per prendere tempo, sapevamo già che poche ore dopo, in quel fiume, ci saremmo immersi tutti. E allora che immersione sia, nell’acqua e nel programma di questo festival che entra nel vivo, così da capire quanto di noi resterà asciutto, quanto si bagnerà a soltanto immaginare l’acqua, il teatro, sfiorarci la pelle.