Ragionamenti possibili fra scena e platea. E società.
Si dice spesso che il segno della società di oggi, almeno dal punto di vista relazionale, siano i social network (peraltro già in brutale discesa). Uno per tutti: apri Facebook, che chiede immediatamente “A cosa stai pensando?”. Si risponde di solito con una frasetta, ma si possono aggiungere anche foto, video, link. E soprattutto commentare quelli degli altri, come in una specie di piazza virtuale, in cui si trovano volentieri anche amici di amici di amici. Su Youtube – uno fra tanti anche qui – puoi caricare i tuoi video; di più, puoi prendere frammenti di altri autori (canzoni, immagini, quello che vuoi) e trattarli a modo tuo, pubblicandoli poi in barba al tradizionale diritto-dovere d’autore. Infine, c’è Wikipedia – “l’enciclopedia libera” recita il sottotitolo – in cui gli utenti-lettori sono gli stessi produttori dei contenuti: la democrazia della conoscenza, verrebbe da pensare, in tutte le sue declinazioni.
Sono almeno quarant’anni che l’idea di co-autorialità, quella prospettiva che considera il pubblico altrettanto creatore al pari dell’autore stesso, ha invaso ogni piega della produzione artistica e non solo. Nello spirito, l’opera aperta di Umberto Eco e compagni sembra incredibilmente prossima alla democrazia estrema sbandierata da Youtube e simili, vere e proprie cattedrali della produzione dal basso, nel contesto di quella che ormai è una tradizione dell’occidente culturale. Ma guardando bene, non si tratta proprio esattamente della stessa cosa.
Mi ricordava un amico qualche giorno fa, leggendo Elias Canetti, come la definizione “società di massa” sia nata (anche), o almeno si sia diffusa, per definire quel fenomeno di omologazione dello sguardo che si ha con la fruizione televisiva; ma niente è più lontano dai termini “società” e “massa”, insomma dallo stare insieme in uno stesso posto – e dalla singolare prosa vitalistica di Canetti in materia – di quell’esperienza mediatica che ci vuole tutti irriducibilmente soli sul nostro divano davanti al nostro schermo (che riporta, certo, la stessa immagine). Insomma, dietro la società di massa che propone il potere, si può nascondere la società dei piccoli uomini soli, ultima avanguardia biopolitica del divide et impera che, visti gli esiti, negli ultimi decenni a quel potere ha fatto proprio comodo. E potrebbe essere, azzardo, che dietro tanta co-autorialità iper-democratica dei giorni nostri, si nasconda un tentativo di depotenziamento del singolo: in una realtà parallela in cui tutti sono fichissimi, nascosti da avatar immaginati ad hoc, con identità modificate o quando va meglio declinate, con volti affascinanti e frasette cool, oggi la piazza (virtuale) commenta la vita propria e altrui senza però metterci la faccia. E allora tutto è concesso, anche la sperimentazione di posizioni estreme che non devono essere mediate dalla responsabilità del soggetto che le esprime. Più che aprire al dibattito (come potrebbe sembrare), sembra piuttosto che questi meccanismi siano funzionalmente utili innanzitutto allo sfogo. Che poi, magari – non voglio dire che sia solo per quello – debitamente sedato, non ha più la forza di reagire nella realtà (quella vera).
Certo, in questo contesto si trovano anche possibilità enormi, per l’informazione e non solo. E si sviluppano, vivaci, un sacco di percorsi di resistenza e cambiamento. Non solo per comodità (ma anche!), alcuni di questi si trovano proprio negli ambienti culturali e artistici e, più che mai, nei territori della performance live. Non so dire, ora, quanto le due cose siano collegate, ma mi piace accostare qui – e forse la comparazione è pertinente – i tentativi mediatici di svuotamento culturale con quello che sembra, di recente, un ritorno del pubblico a teatro. In un momento di crisi nera, per la cultura e non solo, e di difficoltà anche teatrale, vedo i teatri pieni di pubblico, almeno da queste parti. Sale, salette, stabili e festival, da qualche tempo, si sono ripopolati di un pubblico nuovo, curioso, attento.
Il merito è sicuramente di operatori e artisti: gli uni impegnati a creare programmazioni agili e contesti di risonanza capaci di attirare anche lo spettatore più pigro; gli altri che percorrono lo stivale teatrale instancabilmente, proponendo opere che sanno intercettare i più vari immaginari e linguaggi. Se la ricerca si è spesso distinta per una sostanziale lontananza dal pubblico “normale”, forte di codici e linguaggi tutti suoi, oggi non è più così: lungi dalle post-avanguardie che, ammutolite dagli anni di piombo, andavano forse a cercare un linguaggio altro, la generazione presente sembra essere tornata a parlare al pubblico. Sicuramente, una delle ragioni si trova in un dato meramente generazionale: i giovani artisti – «mia mamma è giapponese, mio papà è Berlusconi», ha dichiarato qualcuno, assolutamente fuor di metafora – sono cresciuti ben oltre l’alienazione della seconda Repubblica, nell’epoca, appunto, dell’ascesa del berlusconismo mediatico e politico. La separazione, gerarchica e di genere, dei linguaggi pare sia assorbita e superata: così si fanno spazio – anche se qualche dubbio fra critica e ammiccamento, devo ammettere, può restare – riferimenti alle serie tv e ai telequiz, alla moda, ma anche diretti al cuore dell’attualità politica, sociale e culturale. E forse non è un caso che tanti nuovi spettacoli di questi tempi, seppur profondamente critici, abbiano abbandonato le derive da lirismo post-concettuale per cui si è distinta tanta avanguardia e siano tornati, finalmente, anche a far ridere. Le giovani compagnie, poi, battono tutte le piazze – e questo mi sembra un altro tratto distintivo degno di nota, che ha permesso un ritorno del pubblico a teatro. Basta dare un’occhiata veloce ai calendari di Babilonia Teatri, Anagoor, Teatro Sotterraneo: sale comunali e musei, stabili e festival, fra piccoli centri di provincia e grandi capitali della scena nazionale e non. Diversamente dalle scorse generazioni della ricerca, non si tratta più di creare cartelli, reti ad hoc o circuiti alternativi perfettamente (e in certi casi autarchicamente) funzionanti, a perenne rischio di isolamento e autoreferenzialità, ma di invadere quelli esistenti: la rete del teatro contemporaneo non è più un progetto, ma diventa spesso una realtà, una conseguenza dell’intensissima attività di promozione e diffusione operata insieme da compagnie e operatori del settore. Abbiamo a che fare con un teatro che torna a parlare alla gente (dalle forme più dichiaratamente d’attualità socio-politica a quelle più astratte) per un pubblico che sta tornando a riempire il teatro, a crescerci insieme, a scuoterlo e interrogarlo. Si tratta di elementi di provenienza varia (dalla logistica all’estetica, dai concetti ai borderò), ma è proprio con l’insieme di tutte queste nuove spinte che occorre oggi fare i conti.
Ecco che allora entrano in gioco le piattaforme in cui artisti e pubblico si incontrano, ovvero la miriade di iniziative (che purtroppo va sempre più assottigliandosi) che popola l’Italia teatrale: nelle sue versioni più vigili e ricettive, infatti, il teatro ha intercettato le pulsioni che, muovendosi fra palco e realtà, vanno ultimamente a pizzicare sempre di più quello spazio di contatto, separazione, soglia che è l’arco di proscenio. Ed è così che festival e stagioni hanno colto la palla al balzo, dedicando la propria attenzione ai nuovi – eppure così viscerali, archetipici – rapporti possibili fra scena e platea. Ci sono percorsi che da qualche anno chiamano in causa direttamente il pubblico, e non è solo il caso ormai esemplare del Teatro Povero di Monticchiello, in cui tutto il paese si impegna ogni anno in una nuova rappresentazione teatrale. C’è la storia, ormai consolidata, dei “Visionari” del festival Kilowatt, che va a comporre la sua programmazione estiva attraverso un bando (pubblicato in questi giorni) e una selezione operata da un gruppo locale di non professionisti della scena; nei mesi invernali il gruppo si riunisce settimanalmente per analizzare e discutere i materiali inviati dalle compagnie che intendono partecipare al festival, per proporre poi la propria selezione; mentre durante il festival, i “Visionari” assieme a un gruppo di critici e operatori (i “Fiancheggiatori”) seguono tutti i lavori delle compagnie, li discutono e commentano, per andare a definire poi, per ognuno, un documento ad hoc. Certo si tratta di un caso abbastanza eccezionale. Ma ci sono, sempre più diffusi, esperimenti che intendono investire su nuovi modi per comunicare il teatro, per raccontare quello che succede dentro e fuori il palcoscenico al pubblico in modo nuovo: è il caso delle tante esperienze di laboratori di critica che accompagnano soprattutto i festival teatrali. Al pioniere Quaderno di Santarcangelo nato sotto la direzione di Leo De Berardinis a metà degli anni Novanta, agli albori del nuovo millennio hanno fatto seguito pubblicazioni cartacee e timidi tentativi sul web, per giungere all’enorme diffusione attuale di esperienze di documentazione ibride, che si concretizzano soprattutto on-line e sfruttano i meccanismi dell’avanguardia della comunicazione, con video-interviste e sondaggi su Facebook, commenti del pubblico e maratone via Twitter. E non si contano, poi, le esperienze che i singoli teatri propongono per mettere in contatto scena e platea, spesso offrendo nuovi spazi di azione anche alla critica e andando così a tracciare casse di risonanza di tutto rilievo intorno agli spettacoli. Fra le proposte di questo novembre segnaliamo Novocritico organizzato da Kataklisma e amnesiA vivacE a Roma da ottobre a dicembre, un’iniziativa di contatto unica nel suo genere, che invita dieci compagnie a presentare un estratto dal proprio lavoro e a discuterlo poi, ogni volta con la guida di un critico diverso, con il pubblico in sala. Casi più classici, ma altrettanto al centro dell’attenzione, sono gli innumerevoli incontri dopo-spettacolo organizzati dai teatri: se fino a qualche anno fa si percepiva l’imbarazzo di un incontro in realtà ancora di là da venire, nell’ultimo paio d’anni il pubblico è diventato sempre più attivo in questo contesto. Almeno nel caso di Venezia (dallo Stabile al Fondamenta Nuove), in cui gli appuntamenti dopo-spettacolo sono attesi e partecipati dal pubblico non professionista e si trasformano spesso in veri e propri dibattiti sul lavoro visto e, più in generale, sulle diverse questioni legate al teatro d’oggi.
Qualche tempo fa, Marco De Marinis proponeva una totale revisione del concetto di “fare teatro”, andando ad ipotizzare che anche l’osservazione, l’analisi, la partecipazione non artistica fossero pratiche attive all’interno della scena, capaci di influire su di essa, di viverla e di cambiarla: è in questa direzione che sembrano andare tutti i segnali accennati in questa breve panoramica sui rapporti attuali fra scena e platea. Non si può dire, ovviamente, se sia nato prima l’uovo o la gallina, se il merito sia dell’apertura degli artisti o della coraggiosa lungimiranza di alcuni operatori, della curiosità del pubblico o dell’originalità delle nuove linee di promozione. Ma credo sia importante segnalare il dato: anche il pubblico fa teatro. E ultimamente pare lo stia facendo molto più spesso. Con buona pace dell’omologazione mediatica ed esiti scenici di una vitalità che non si annusava da parecchio tempo.
Roberta Ferraresi