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Squarci su una ricerca. Intervista a inQuanto teatro

Caffé dei Libri - Intervista a inQuanto teatro

Caffé dei Libri, uno degli angoli più belli e tranquilli di una Bassano in fermento (il sabato pomeriggio delle passeggiate, il boom di Infart e la conclusione di B.Motion), a pochi passi dal fiume e dalla folla che sembra invadere la città. Qui, l’appuntamento con inQuanto teatro, giovane compagnia formatasi l’anno scorso nei pressi di OperaEstate (complice il progetto dell’Attore Performativo) e reduce dalle finali del Premio Scenario con Nil Admirari (che le è valso una menzione speciale da parte della giuria). I suoi componenti sono di nuovo a Bassano certo per presentare proprio quei venti minuti di studio, ma anche per una residenza in cui stanno sviluppando ulteriormente quello stesso lavoro: hanno accompagnato la nostra permanenza fin dal primo giorno, dalle colazioni assonnate alle serate interminabili, dalle chiacchiere pomeridiane in qualche pausa nel giardino di Palazzo Bonaguro alle discussioni più intense su quello che si è visto ogni sera in scena.

Floor Robert, Giacomo Bogani e Andrea Falcone (il quarto, Matteo Balbo, non è potuto esserci) ci aspettano al tavolino più appartato del caffè. Arriviamo un po’ in ritardo, di corsa, facendoci spazio sul Ponte fra raggruppamenti di personaggi molto molto urban-street e assembramenti di alpini in visita. Siamo qui per parlare di teatro e di ricerca, di com’è nato Nil Admirari e, soprattutto, di come sta crescendo.

 

Simone Nebbia: Come prima cosa volevamo chiedervi com’è iniziato tutto, quando avete capito che il progetto era nato?
Andrea Falcone:
Accade come un colpo di fortuna, te ne accorgi a cose fatte: un blocco di ghiaccio che prima era acqua… è successo qualcosa di eclatante, ma non sapresti dire quando… Si può dire che il lavoro che sperimentiamo sia quasi combinatorio: come nella chimica, la reazione può andare ben al di là delle aspettative, di quello che ognuno di noi singolarmente ha portato al gruppo.
In questi giorni questa domanda ci è stata posta più volte. E ci ha messo un po’ in difficoltà, perché non abbiamo iniziato – e questo non è un caso: ci rispecchia molto – da un pensiero, ma da un’immagine che ci parlava. Questo in qualche modo è quello che facciamo anche per costruire le scene: condividiamo un’immagine di cui non abbiamo una spiegazione e di cui non vogliamo dare una narrazione, ma cerchiamo di ricrearla, di farla vivere, di esplorarla. E di mantenere intatto quanto più possibile il senso dell’equivoco e di instabilità…
F.R.: …di fragilità e di umanità…
A.F.: Questa è la nostra idea di storia, di passato, di realtà che portiamo in Nil Admirari: l’atto di ricordare è qualcosa che si fa aggiungendo pezzi e reinventando qualcosa, piuttosto che rimanendo fedeli a una realtà.  Questo è il nostro modo di costruire queste scene ed è il modo che stiamo esplorando anche qui a Bassano, perché il frammento scenico che abbiamo portato è esito di una ricerca, ma non ne era l’obiettivo: Nil Admirari non è uno spettacolo, ma piuttosto lo specchio di quello che stiamo elaborando e lavorando.

Roberta Ferraresi: Ci volete svelare qual è questa immagine?
A.F.:
“C’è una stanza vuota…” – addirittura nei primi cinque minuti di lavoro che abbiamo presentato al Premio Scenario, iniziavamo dicendola, descrivendola…
F.R.: Ma nel processo di creazione, poi, questo pezzo è stato eliminato. È uno scarto importante quando, lavorando a un progetto, apparentemente si perdono gli elementi forti; ma per te rimangono e così possono diventare altro.
A.F.: Comunque si tratta di una fotografia di Robert e Shana Parkeharrison: è un interno completamente ricolmo d’acqua in cui affiorano oggetti o parti di oggetti con una calma innaturale.
G.B.: È una fotografia che non cattura il frammento o il momento, ma dà l’impressione dell’attesa, che ci sia qualcosa che è successo, che sta lì e galleggia…
F.R.: Qualcosa di catastrofico è successo, e da lì partiamo, senza però ricordare il passato… Come aprire un libro a metà e cominciare a leggerlo da lì, che è la situazione in cui ci troviamo, quello che siamo.
A.F.: Fantasticando su questa immagine di allagamento abbiamo iniziato a cercare dei materiali che ci permettessero di ricrearla, tra cui il tappeto specchiante che ancora usiamo. E poi, via via, ci siamo accorti che stavamo facendo vivere quell’immagine senza bisogno di realizzarla. Ad esempio, la presenza della finestra si è trasformata in una specie di schermo (che, invece di aprire, blocca l’orizzonte, riflettendo la nostra ombra e i nostri movimenti) e l’idea di una superficie permeabile in cui gli oggetti affiorano è mutata in un pavimento che, coprendo il palcoscenico, lo trancia…

S.N.: Parlando del vostro lavoro tornano spesso idee legate alla storia, ai ricordi, alla memoria… Cosa v’ha fatto il passato?
F.R.:
Il passato è una cosa che ci dice molto…
A.F.: Il nostro passato è molto presente. Sovvertendo la celebre sentenza sartriana “Io sono il mio passato”: noi non siamo il nostro passato, perché a livello collettivo è qualcosa di impersonale e a ben vedere fasullo, che viene inventato volta per volta. A livello culturale, godiamo della vita in città d’arte meravigliose, come Firenze o Bassano; e vediamo che gli spazi per il passato aumentano, vengono nuovamente inventati, vengono scoperti quartieri medievali, mesi medicei quando anche di Medici non ce n’è più traccia… Dante a Firenze ha tre o quattro case, noi in tre o quattro non ne abbiamo una. Questo intendiamo per passato: una creatura che viene creata ed è accanto a noi, con cui abbiamo a che fare. Questa operazione di affastellare, di comporre questa specie di mostro – da qui il titolo del nostro secondo pezzo, Monstrum – ci diverte ed è quello che anche noi vogliamo fare in scena.
F.R.: Ed è quello che stiamo facendo in questi giorni qui a Bassano. Stiamo prendendo questo passato e lo stiamo facendo diventare una cosa che chiamiamo Monstrum, qualcosa di incredibilmente lontano da noi, di diverso, di vivo… che ci spaventa.
A.F.: L’anacronismo, l’avvicinamento, la moltiplicazione…
G.B.: Il passato che diventa una replica, una copia…

R.F.: E invece dove state cercando di andare?
F.R.:
Ora siamo arrivati a parlare di Monstrum...
A.F.: …che è il nostro secondo frammento…
R.F.: Quindi Nil Admirari non è il nome del progetto, ma del primo frammento?

A.F.: Abbiamo deciso che Nil Admirari è sia il progetto che il primo studio, anche perché è un frammento che contiene un po’ tutti i nodi sui quali vogliamo lavorare: c’è una realtà di noi, quattro giovani, che si preparano per il loro presente, lo aspettano, e invece vengono sopraffatti da oggetti e storie del passato… anzi, vere e proprie scorie, che non sanno come gestire. E alla fine scompaiono, lasciando solo questo agglomerato di oggetti ed effetti che rimangono con lo spettatore.
Poi abbiamo deciso, più per il lavoro che vogliamo fare che con un’idea di marketing, di presentare in altre due tappe degli elementi separati: in uno, Monstrum,  c’è l’apparizione di un passato inventato e ingombrante, con tutte le sue manifestazioni di anacronismo, di sincronia, di stranezza; e nell’altro, Tabula rasa, rimaniamo soli con la nostra realtà di vuoto, di ricerca di qualcosa, di un appiglio, di una concretezza che – mancando queste illusioni, queste chiacchiere del passato, questi elettrodomestici, questi sogni che riempiono invece gli altri due studi – vogliamo scoprire dove può portare.
G.B.: E poi ci siamo tenuti sempre, con questa tipologia del frammento, la possibilità di ricombinarli: sappiamo bene che Monstrum arriva a un certo momento di Nil Admirari, del primo frammento…
F.R.: Bisogna esaurire delle idee, così poi possiamo farne a meno. Questo è il metodo di creazione. La possibilità di poter presentare i due studi slegati ci dà l’opportunità di mettere in campo delle cose e vedere se funzionano, sperimentare e scoprire, tenere o lasciare…
A.F.: E in una combinatoria finale presenteremo – non si sa ancora dove e quando – Nil Admirari completo.

R.F.: Ma se il processo di lavoro è collettivo, siete tutti in scena, com’è possibile mantenere uno sguardo sull’andamento del lavoro?
F.R.:
È successo che qualcuno venga a vederci, ma già quando siamo a un livello da farci vedere.  Chiaramente abbiamo la videocamera…
G.B.: Che usiamo però poco… E anche qui, solo quando abbiamo già tante cose montate.
F.R.: Quando abbiamo cose che secondo noi funzionano già. Abbiamo comunque dei momenti in cui uno si può tirare fuori e osservare l’altro e dire, digerire… Ah, scusate: dirigere. E questa comunque è una forma ancora un po’ caotica…
A.F.: …da perfezionare.
G.B.: La cosa importante da dire è che ci piace confrontarci.
A.F.: Infatti, abbiamo diverse cose in mente per migliorare e perfezionare questa forma di lavoro collettivo da sottoporre a un pensiero o a una “digestione” esterna. Una che ci piacerebbe molto e che abbiamo vorremmo inziare a provare è quella di intraprendere delle collaborazioni anche brevi in cui enti o gruppi teatrali ci offrono non solo lo spazio ma anche uno sguardo. Perché è molto interessante un contatto tra le compagnie nel momento in cui stai lavorando in modo completamente aperto, anche fragile…
F.R.: È una cosa che manca un po’ nell’ambito teatrale, mentre nella danza c’è.
A.F.: Ci sono molti gruppi, anche che sono stati qui, con cui ci piacerebbe avere questo tipo di scambio e di contatto. Ora cominceremo con Kinkaleri, che è un gruppo che ha una storia e…
F.R.: …una cifra estetica che…
G.B.: …che sentiamo abbastanza vicina…
F.R.: Come l’interesse verso i materiali, che per noi ha un ruolo molto importante: la plastica, questo grigio molto presente…
A.F.: E poi l’agire in scena una partitura visiva degli oggetti, in cui c’è una drammaturgia fra un oggetto e l’altro e un percorso visivo, una specie di mappa…
F.R.: Le tracce che vengono lasciate…
A.F.: E, a pensarci bene, è questa l’opportunità di OperaEstate: uno spazio che quasi naturalmente, senza neanche che l’avessimo pensato, offre la possibilità di uno scambio abbastanza continuo fra artisti: quest’anno Chiara Bersani e Sara Vilardo, qui con un primo studio, è bello poterci parlare… O con il gruppo foscarini:nardin:d’agostin…

Roberta Ferraresi / Simone Nebbia

Andrea Falcone: Accade così, come un colpo di fortuna, te ne accorgi così, a cose fatte: un blocco di ghiaccio che prima era acqua… è successo qualcosa di eclatante, ma non sapresti dire quando… E noi siccome è molto che parliamo tra di noi, ci incrociamo – non tutti assieme: due a due, tre, quattro – e di conseguenza quando alla fine arriviamo tutti e 4 sulla stessa idea c’è stato un lavoro lungo prima di arrivare a quel punto. Anche perché questo ha influenzato il nostro modo nostro di lavorare, che è sì in scena un collettivo, quindi ognuno si mette in gioco e cerca di proporre agli altri qualcosa su cui incontrarsi, delle sfide… Ma queste sfide che ci lanciamo sono già articolate quando arriviamo alla scena, perché ci arriviamo dopo un lungo periodo in cui ognuno di noi pensa, parla, ricerca… Alla fine il lavoro che facciamo è quasi combinatorio… Come nella chimica, la reazione può andare ben al di là delle aspettative, di quello che ognuno di noi singolarmente si era portato
Giacomo Bogani: Diciamo che di solito le idee che portiamo sono grandiose, sono enormi. Le presentiamo in sala e lì ci guardiamo negli occhi spesso e viene subito il no.
Floor Robert: E questo è un modo in cui lavoriamo spesso molto volentieri. Però poi si presenta anche quello invece dell’improvvisazione, che lì per lì in sala non si sa perché, che siamo magari stanchissimi o anche nel cazzeggio… però lì viene a galla qualcosa che ci convince tutti moltissimo
A.F.: Da momenti anche ludici, ma di ludismo scelto e consapevole, tante cose poi si sono unite a un’idea più pensata

 

Simone Nebbia: Quindi lo spazio scenico è giudice, nel bene o nel male: accoglie o respinge…
A.F.: Sì, noi arriviamo come supplicanti con carovane di cose sulla scena – che per lungo tempo è stata una stanzetta privata, poi una palestra di Rifredi…
F.R: Siamo stati al Garage Nardini che non era male
G.B.: Al Teatro Astra
F.R.: E ora andremo Prato che è un po’ più vicino
A.F.: Per rimanere ancora sui nostri punti di partenza, che è una cosa che in questi giorni ci è stata chiesta più volte e che ci mette quasi in difficoltà, perché non abbiamo iniziato – e questo non è un caso: ci rispecchia molto – da un pensiero, ma da un’immagine di cui non avevamo idea ma che ci parlava. E questo in qualche modo è quello che facciamo anche in scena per costruire le scene: condividiamo un’immagine di cui non abbiamo una spiegazione e di cui non vogliamo dare una narrazione, ma cerchiamo di ricrearla, di farla vivere, di esplorarla. E di mantenere intatto quanto più possibile il senso dell’equivoco e di instabilità…
F.R.: Di fragilità e di umanità…
A.F.: E questa è la nostra idea di storia, di passato, di realtà che portiamo in Nil Admirari:  l’atto di ricordare è qualcosa che si fa aggiungendo pezzi e reinventando qualcosa, piuttosto che essendo fedeli a una realtà.  Questo è il nostro modo di costruire queste scene in scena; ed è il modo che stiamo esplorando anche qui a Bassano, perché il frammento scenico che abbiamo portato è esito di una ricerca ma non era il suo obiettivo: non è uno spettacolo, ma piuttosto lo specchio  di quello che stiamo elaborando e lavorando.

S. N.: Un po’ una messa in campo di elementi su cui volete lavorare. Quello che percepivo come impronta collettiva di alcune esperienze di questi giorni e anche nel vostro caso è di una macchinazione drammaturgica un po’ farraginosa di costruzione. Anche perché non vi credevo completamente: avevo l’impressione che dobbiate diventare ineccepibili tecnicamente…
A.F.: Questo è un fatto difficile da affrontare, perché quello che ci interessa è mantenere un senso straniante…
F.R.: E forse è quello che non vogliamo
A.F: Però dobbiamo essere certi nel non volerlo: c’è una tecnica, un’abilità che dobbiamo maturare. Però il fatto di stare ricercando una qualità che ci permetta di non ignorare l’equivoco, anzi, di accompagnarlo verso lo spettatore. È quello che facciamo portando in scena oggetti ingombranti, anacronistici rispetto a quello che diciamo; utopie che sono storie esagerate, anche quelle in qualche modo ingombranti… non fingendo neanche noi che sia tutto naturale e scontato, perché è una chiave di lettura che cerchiamo di maturare rispetto alla realtà che ci circonda, che è piena di cose che sembrano le più naturali del mondo ma non lo sono.
F.R.: Anche semplicemente osservarlo: metterlo lì e poi osservarlo
A.F.: E forse questo richiede ancora più tecnica di quella che ci vorrebbe a fare una cosa in modo perfetto. Quindi, sì, ci vuole parecchio lavoro.

R.F.: Un passo indietro, ci volete svelare qual è l’immagine…
A.F.: Addirittura nei cinque minuti iniziavamo dicendola a grandi line: “c’è una stanza vuota…”
F.R.: Ma nella creazione poi è anche bello quando perdi gli elementi forti ma per te rimane e diventa altro
A.F.: È una fotografia di un interno completamente ricolmo d’acqua in cui affiorano oggetti o parti di oggetti, con una calma innaturale. Addirittura ci siamo ispirati ad un’immagine in cui si intravvede anche qualcosa di umano, un corpo, ma ha una consistenza che non sembra più umano. E da questa immagine…
G.B.: Una fotografia con un senso: non cattura il frammento, il momento, ma dà l’impressione dell’attesa, che ci sia qualcosa che è successo, che sta lì che galleggia
A.F.: La fotografia è ferma, ma rappresenta una realtà che è anch’essa ferma…
F.R.: Qualcosa di catastrofico è successo, e da lì partiamo, senza però ricordare il passato… Come aprire un libro a metà e partire da lì, che è come noi siamo. Noi che veniamo da un passato, da Firenze, dai ricordi, da un desiderio di volersi identificare con il tempo di ora, ma ci si accorge che magari non gli basta, non gli piace…
A.F.: Fantasticando da questa immagine di allagamento abbiamo iniziato a conoscere dei materiali che ci permettessero di farlo, tra cui il tappeto specchiante che ancora usiamo. E poi via via lavorando ci siamo accorti che questa immagine la stavamo facendo vivere senza bisogno di realizzarla. Quindi il fatto che ci fosse una finestra è ritornato con una specie di schermo che invece di aprire, ci blocca l’orizzonte riflette la nostra ombra e noi stessi quando ci muoviamo. L’idea di una superficie permeabile in cui gli oggetti affiorano è cambiata con questa superficie che trancia, che copre il palcoscenico, che sembra forse un liquido in cui forse si può entrare ma che noi continuiamo ad attraversare.

 

S.N.: Cosa v’ha fatto il passato?
F.R.: Il passato è una cosa che ci dice molto…
A.F.: È molto presente. Sovvertendo la sentenza conosciuta “Io sono il mio passato”, che era Sartre: noi non siamo il nostro passato, perché a livello collettivo è qualcosa di impersonale e a ben vedere fasullo, che viene inventato nel momento in cui ci siamo. A livello culturale, noi che  godiamo della vita in città d’arte meravigliose, anche Bassano, viviamo di questo.  (portano il caffè)
Vediamo che gli spazi per il passato aumentano, vengono nuovamente inventati, vengono scoperti quartieri medievali dove ormai non ce n’è più traccia, mesi medicei quando anche di Medici non ce n’è più traccia… Dante a Firenze ha tre o quattro case, noi in tre o quattro non ne abbiamo una. Questo intendiamo per passato: una creatura che viene creata ed è accanto a noi, con cui abbiamo a che fare. Questa operazione di affastellare, di comporre questa specie di mostro – da qui il titolo del nostro secondo pezzo, Monstrum – ci diverte ed è quello che anche noi vogliamo fare in scena.
F.R.: Ed è quello che stiamo facendo in questi giorni qui a Bassano. Stiamo prendendo questo passato e lo stiamo facendo diventare una cosa che chiamiamo Monstrum, qualcosa di incredibilmente lontano da noi, di diverso, di vivo… però ci spaventa.
A.F.: L’anacronismo, l’avvicinamento, la moltiplicazione…
G.B.: Il passato che diventa una replica, una copia…
A.F.: Aver parlato con Claudio Angelini di Città di Ebla ci ha molto aiutato perché erano argomenti su cui stavamo pensando e sentirli espressi così bene ci ha permesso di riformulare alcune cose.
F.R.: Si diceva che il passato era parte attiva
A.F.: Sì, Mauro Petruzziello diceva che il ricordo è qualcosa che incombe e minaccia e cambia la realtà. Questo è anche per noi; mentre nel lavoro di Città di Ebla c’era una fotografia che bloccava una realtà in corso nello stesso momento in cui la realtà c’era e costituiva una sorta di doppio mostruoso della realtà stessa, perché era qualcosa di immobile. Era una specie di presenza che rendeva la cosa inquietante. Cerchiamo di indagare con Monstrum questa possibilità di sdoppiarci e di avere una memoria fittizia di noi con cui avere un conflitto.

R.F.: Modo di lavorare, quello che fate…
G.B.: Decidiamo giorno per giorno come lavoriamo, anche rispetto a come ci sentiamo.
F.R.: Lavoriamo insieme da un anno e possiamo dire che ora finalmente stiamo capendo un po’ com’è fatto l’altro e come fare per lavorare con l’altro. Ci siamo spaventati molto, ci siamo agitati tanto e così ci siamo anche dati dei limiti.
A.F.: In realtà ci diamo un tempo e uno spazio per lavorare su delle cose che però non sono spesso discorsi o idee. Ma molto spesso oggetti o esercizi anche meccanici che sono alla base di una improvvisazione o di una sperimentazione. Ad esempio ieri abbiamo avuto questa enorme gonna di vinile e abbiamo iniziato a lavorarci, creando delle figure mostruose, multiple… E da lì è iniziato un lavoro sul testo e sulla voce…
F.R.: …che Andrea aveva preparato. Perché c’è sempre la preparazione del testo.
G.B.: Andrea fa una ricerca sul testo, su delle cose che possono entrare…
F.R.: …che vengono introdotte, vengono lette insieme, vengono capite fino a un certo punto e poi nella prova – dove può esserci l’elemento della gonna o dello sparavento, che stiamo semplicemente esplorando… E poi scopri che sopra questo ci può anche entrare il testo. Capiamo come…
G.B.: Un testo che è già stato pensato e scritto in una forma da Andrea.
A.F.: Con i testi abbiamo per ora questa modalità, che credo poi cambierà ed è già cambiata: li usiamo come risorsa, io li preparo solo di riferimento, di ispirazione… A volte sono brevi biografie, descrizioni per avvicinarci alle immagini o all’argomento che vogliamo lavorare. O a volte diventano poi parte dello spettacolo. Dipende da quello che succede nella combinazione.

R.F.: In che modo è cambiata?
A.F.: Quello che abbiamo deciso di richiedere al mio lavoro è più di scrivere apposta per una scena, cioè dei testi che già da soli portano l’elemento centrale, il perno di una scena, perché sono testi da dire al pubblico, come ce ne sono stati tanti esempi in questo B.Motion… Un testo di Babilonia Teatri, un testo di…
F.R.:
Luca Scarlini!
G.B.: Come mai hai detto Luca Scarlini?
F.R.: Perché mi stavo ricordando anche che a volte entra anche nella nostra giornata di prove degli esercizi che abbiamo appreso da altri. Ed è super utile, perché così il gruppo lavora su un ascolto maggiore, su una consapevolezza maggiore dell’altro e di se stesso.
G.B.: Ci sono dei giorni che lavoriamo molto su cose fisiche
F.R.: E altri che ci concentriamo sulla voce
G.B.: e sull’ascolto. Anche senza dirci niente: qualcuno di noi comincia a cantare e andiamo avanti così. Ad esempio la canzone che c’è in scena è nata così… Anche se lì in verità eravamo in macchina… abbiamo cominciato a cantare e non ci siamo fermati per quattro ore.
A.F.: La macchina è un luogo creativo molto importante…
G.B.: Per eccellenza
F.R.: Perché facciamo molte residenze lontane…
A.F.: E andiamo a vedere tanti spettacoli… È uno di quei momenti che ci costringe a stare insieme, concentrati a sopportarci completamente per 3 o 4 ore. E quindi si deve per passare il tempo parlare, affrontare le idee, confrontarci… Magari dopo un mese che ognuno ha degli impegni paralleli che l’hanno distratto, distolto o portato lontano.

 

R.F.: E invece dove state cercando di andare?
F.R.: Vogliamo fare uno spettacolo di due ore…
G.B.: Due ore no, però più di un’ora di sicuro: vogliamo un pochino sovvertire o un po’ cambiare questa cosa che c’è, che sono sempre tutti piccoli spettacoli, 50 minuti – 45… Ci piace anche la possibilità che a teatro le persone possano stare lì, anche un po’ annoiarsi
F.R.: Secondo me uno spettacolo è bello…
A.F.: …quando ha una vita…
F.R.: Sì, quando mi dà la possibilità di potermi staccare…

R.F.: È una qualità del tempo, un trattamento, più che una durata…
A.F.: Sì, una qualità che nella lunga durata è più facile o più giusto realizzare a pieno. Comunque la varietà, la qualità, la sovrapposizione, il tempo del tempo sono nodi che ci interessano molto, sia come tema che come caratteristica del linguaggio.

F.R.: Ora siamo arrivati a parlare di Monstrum...
A.F.: …che è il nostro secondo frammento…

R.F.: Quindi Nil Admirari non è il nome del progetto, ma del primo frammento?
G.B.: Nil Admirari è il nome del progetto…
F.R.: …che abbiamo dovuto presentare a Scenario in 20 minuti…
A.F.: Abbiamo deciso che Nil Admirari è sia il progetto che il primo frammento. Anche perché è un frammento che contiene un po’ tutti i nodi sui quali vogliamo lavorare. C’è una realtà di noi, noi 4, giovani che aspettano e si preparano per il loro presente e invece ripescano, vengono sopraffatti da oggetti e storie del passato… Anzi vere e proprie scorie che non sanno come gestire e alla fine scompaiono lasciando solo questo agglomerato di cose ed effetti che rimangono con lo spettatore. Poi abbiamo deciso, più per il lavoro che vogliamo fare che con un’idea di marketing, di presentare in altre due tappe gli elementi separati: in uno, Monstrum,  l’apparizione di questo passato inventato e ingombrante, con tutte le sue manifestazioni di anacronismo, di sincronia, di stranezza; e nell’altro, Tabula rasa, rimanere soli con la nostra realtà di vuoto, di ricerca di qualcosa, di un appiglio, di una concretezza che mancando queste illusioni, queste chiacchiere del passato, questi elettrodomestici, questi sogni che riempiono invece gli altri due studi, vogliamo scoprire dove può portare. Abbiamo già alcune idee ma va lavorato bene in una residenza ad hoc futura. Perché se per Monstrum abbiamo già fissato sia i giorni di lavoro (che sono già iniziati qui a OperaEstate e poi continueranno allo Spazio K agli Ex Macelli a Prato) sia il momento d’apertura, che sarà durante Contemporanea di Prato e Fermenti di Parma; per Tabula rasa abbiamo il progetto aperto, ma non abbiamo ancora stabilito…
G.B.: E poi ci siamo tenuti sempre, con questa tipologia del frammento, la possibilità di ricombinarli: sappiamo bene che Monstrum arriva a un certo momento di Nil Admirari, del primo frammento…
F.R.: Bisogna esaurire delle idee, così poi possiamo farne a meno. Questo è il metodo di creazione. Avendo la possibilità di poter presentare i due studi slegati ci dà l’opportunità di mettere in campo delle cose e vedere se funzionano, sperimentare e scoprire, tenere o lasciare…
A.F.: E in una combinatoria finale presenteremo, non si sa ancora dove e quando Nil Admirari completo.

R.F.: Voi dite mettiamo dfei mateirali e vediamo se funzionano; ma siete tutti in scena. Come si fa? Invitare qualcuno a vedere le prove?
F.R.: È successo che qualcuno venga a vederci, ma già quando siamo a un livello da farci vedere.  Chiaramente abbiamo la videocamera…
G.B.: Che usiamo però poco… Solo quando abbiamo già tante cose montate.
F.R.: Quando abbiamo cose che secondo noi funzionano già. Abbiamo comunque dei momenti in cui uno si può tirare fuori e osservare l’altro e dire, digerire… Ah, scusate: dirigere. E questa comunque è una forma ancora un po’ caotica
A.F.: da perfezionare
G.B.: La cosa importante da dire è che ci piace confrontarci
A.F.: Infatti, in questa forma da perfezionare di lavoro collettivo da sottoporre a un pensiero o a una “digestione” esterna, abbiamo diverse cose in mente per migliorarlo. Una che ci piacerebbe molto e che abbiamo iniziato a mettere le condizioni per farlo è intraprendere delle collaborazioni anche brevi in cui enti o gruppi teatrali ci offrono non solo lo spazio ma anche uno sguardo. Perché è molto interessante un contatto tra le compagnie nel momento in cui stai lavorando in modo completamente aperto, anche fragile…
F.R.: È una cosa che manca un po’ nell’ambito teatrale, mentre nella danza c’è.
A.F.: Ci sono molti gruppi, anche che sono stati qui, con cui ci piacerebbe avere questo tipo di scambio e di contatto. Ora cominceremo con Kinkaleri, che è un gruppo che ha una storia e…
F.R.: …una cifra estetica che…
G.B.: …che sentiamo abbastanza vicina…
F.R.: Come l’interesse verso i materiali, che per noi ha un ruolo molto importante: la plastica, questo grigio molto presente…
A.F.: E poi l’agire in scena una partitura visiva degli oggetti, in cui c’è una drammaturgia fra un oggetto e l’altro e un percorso visivo, una specie di mappa…
F.R.: Le tracce che vengono lasciate…
A.F.: Questo ci piace molto, ma c’è anche in lavori di altri gruppi importanti, come Motus o Anagoor. E però OperaEstate questo offre: uno spazio quasi naturalmente, senza neanche che l’avessimo pensato, la possibilità di uno scambio abbastanza continuo e naturale fra artisti: quest’anno Chiara Bersani e Sara Vilardo, qui con un primo studio, è bello poterci parlare… O con il gruppo foscarini:nardin:d’agostin…
F.R.: …che abbiamo seguito dai loro cinque minuti a Vicenza…

Low files: Appunti meteorologici – Nebbia su Bassano

fotogallery da Bassano – B.Motion 2011 di Simone Nebbia

Low files: istantanee da B.Motion

Note intorno un coordinamento della scena contemporanea

Note intorno al cambiamento del sistema produttivo
L’allontanamento produttivo dai teatri, che era già iniziato con l’avanguardia, negli ultimi anni si è consolidato e la cosiddetta scena contemporanea  ha trovato nuovi avamposti creativi nell’ambito di festival e residenze. Sono nati molti spazi autonomi e alcune strutture (come Armunia e Centrale Fies) offrono sale prova, durante tutto l’arco dell’anno, per dare spazio alle compagnie che altrimenti non avrebbero luoghi per concentrarsi sulla produzione. Un improvviso ricambio generazionale ha stimolato un drastico mutamento delle poetiche che si è ripercosso sui formati delle opere prodotte: studi e opere in più fasi hanno preso piede popolando le rassegne di tutta Italia. Forti contraddizioni vedono un panorama creativo, sempre più fertile e movimentato, crescere sulle basi di un sistema produttivo altrettanto fecondo ma al contempo instabile: il ricco proliferare dei festival (quasi 30 negli ultimi 2 anni) non ha trovato sostegno nelle politiche di finanziamento che – avendo ridotto drasticamente i fondi agli enti locali – hanno messo alle corde molte manifestazioni.
La frammentarietà delle poetiche artistiche rispecchia pienamente le problematiche di un sistema produttivo che si vede procedere a singhiozzo, sempre costretto ad avanzare per passi e a produrre opere mai complete e sempre spezzate. Logiche di mercato – alle quali spesso le stesse compagnie sono obbligate a ricorrere – che nel migliore dei casi vengono elogiate per ricalcare lo stile del serial televisivo, nel peggiore sembrano voler riproporre il metodo work-in-progress solo per vendere una prima al festival di turno. Equilibri precari e dinamiche che configurano una realtà difficile da identificare, decisamente variegata ed eterogenea, in rapido sviluppo ma sempre più in crisi e a rischio di declino. Proprio per questa sua natura particolare e non identificata, la scena contemporanea rientra a fatica nel sistema di finanziamenti nazionale, difficilmente le viene riconosciuta una natura indipendente e proprio per questo resta ancora sotto la dicitura di “altro”.

La necessità di un’autodefinizione e di un riconoscimento (prima di tutto interno) ha fatto sì che nell’ultimo anno, a partire dal Convegno di Sansepolcro, si mobilitassero delle energie volte all’istituzione di un movimento per la scena contemporanea. In seguito a quell’incontro – che ebbe forte risonanza a livello nazionale con la presenza di un centinaio di operatori da tutta Italia – una quindicina di volontari portò avanti un lavoro volto alla messa in pratica di proposte concrete nate dalle istanze esplicitate nel documento finale di Sansepolcro.

I risultati di un anno di lavoro sono stati esposti nel convegno che si è tenuto a Bassano dal 2 al 4 settembre: il gruppo guidato da Luca Ricci (Kilowatt Festival) ha presentato in tre giorni gli intenti e i versanti di studio e d’azione del nascente C.Re.S.Co., comitato per il Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea. Un movimento che si apre a situazioni eterogenee, diverse per linguaggi e problematiche, che si muovono su panorami distanti ma che si possono ancora definire comuni. Quella di Bassano più che una ricerca d’adesioni, è stata una chiamata a raccolta, un appello lanciato a molte delle realtà – operatori ed enti – che praticano quotidianamente la battaglia per il contemporaneo (qualunque forma esso abbia). Una ricerca di condivisione e confronto su tematiche che condizionano profondamente la sopravvivenza delle realtà produttive del teatro d’oggi: dalla proposta di aggiornamento del sistema dei finanziamenti nazionali e regionali al «riconoscimento normativo della natura atipica del lavoratore dello spettacolo». I partecipanti sono stati chiamati ad un dialogo attivo, favorito dalla divisione in gruppi di lavoro, che ha permesso a tutti di condividere la propria esperienza, di riconoscersi e di catalizzare nuove energie e proposte ridiscusse poi in assemblea plenaria.

Tra gli ambiti di confronto che hanno movimentato le giornate bassanesi: innanzitutto il sistema di finanziamento («profondamente ingessato») e le modalità in cui si possa attuare un sostegno capillare e diffuso. L’argomento affrontato da Davide D’Antonio (Teatro Inverso) e Gianni Berardino (Festival Voci di Fonte) è complesso e stratificato. Alcune proposte (accolte come utopie) prevedono la defiscalizzazione e la deducibilità di spese tangibili come i service, le autostrade, etc. Inoltre sono state individuate alcune istanze fondamentali per il rinnovamento quali la trasparenza normativa dei parametri d’accesso ai fondi e la necessità di amplificare l’attività degli Osservatori per migliorarne l’efficacia. Tra le proposte vi è anche quella di una divisione netta tra teatri stabili pubblici e teatri privati, un avvicinamento al sistema francese che renderebbe quello italiano più dinamico e agevole, agendo su due fronti totalmente separati (i teatri stabili dipenderebbero direttamente ed esclusivamente dal ministero, mentre tutto il resto sarebbe da considerarsi privato). Altro tema scottante riguarda il lavoratore dello spettacolo, una figura che fino ad oggi non è quasi stata presa in considerazione dalla legislazione e che necessita di una struttura diversa che comprenda forme contrattuali più agevoli e tutelate.

Per ogni tema trattato (di cui non si vuole fare un resoconto esaustivo) il nucleo base di C.Re.S.Co. ha elaborato specifiche azioni concrete attraverso le quali si potrà, in futuro, arrivare ad una messa in pratica degli ideali esposti. Proprio su questo fronte si muoverà Ugo Bacchella insieme alla Fondazione Fitzcarraldo – di cui è presidente – che si è resa disponibile ad effettuare una ricerca reale rispetto alla posizione del lavoratore dello spettacolo; dati che, si pensa, saranno molto diversi da quelli dichiarati all’Enpals e che non serviranno ad un confronto diretto con le istituzioni, bensì a stilare uno studio di settore che porti alla configurazione di profili e contratti più realistici rispetto alla situazione attuale.

L’impresa sembra decisamente ardua ma i presupposti sono ottimi, a partire da un’assunzione di responsabilità da parte di tutte le persone ed enti aderenti al C.Re.S.Co., le quali si impegnano a seguire un codice deontologico che agisca sulla base di un “patto tra generazioni”, il cui obiettivo è quello di attuare dialettiche di scambio e partecipazione attraverso politiche di trasparenza e confronto. Molti i dubbi sulla possibilità di riuscire ad aderire pienamente al codice, soprattutto finché la situazione resta quella attuale. Quello che è emerso, dal confronto tra diverse realtà, è che il cambiamento non deve essere lasciato in mano ai giovani (sui quali si sta scommettendo fin troppo) perché sono le dinamiche attuali che hanno portato ad un sistema, ad una generazione, destinati all’estinzione. Se non si procede subito alla salvaguardia di questo fermento – che da tre anni a questa parte si sta facendo sempre più vivo – arrivando a soluzioni concrete, assumendosi la responsabilità di mettere le basi per un reale cambiamento del sistema, stilando delle buone pratiche che non restino inattuate, tutto ciò che conosciamo come contemporaneo potrebbe sparire.

Azioni che interrogano lo sguardo

Recensione a La prima periferia Pathosformel

La prima periferia - foto di Giancarlo Ceccon

In un silenzio dai tratti rituali, all’interno di un quadrilatero chiaro, tre figure sono impegnate a far muovere altrettante creature, che vanno a costruire, successivamente, immagini e (più di rado) azioni. Si presenta quella che si può intuire come una serie di tableaux vivants, anche se gran parte delle composizioni non sono immediatamente riconoscibili o riconducibili alla figura originaria. Ma non è (solo) questo l’importante: La prima periferia è uno spettacolo di una delicatezza particolare, che condensa il coinvolgimento emotivo e percettivo del singolo spettatore attraverso una esile leggerezza visiva, la precisione delle linee compositive e – non ultime – la cura e l’attenzione quasi affettiva di cui è permeata ogni azione.
Protagonista è la fatica che sottende ogni movimento, anche il più piccolo: lo stridere delle articolazioni – che ognuno riconosce, ma nessuno sa – è un leitmotiv acustico talmente efficace da sovrastare il tessuto sonoro abbastanza convenzionale su cui si sviluppa lo spettacolo;
mentre, allo stesso tempo, lo sforzo implicito nella cinetica umana si esprime anche a livello visivo: tre persone possono non bastare a farne inginocchiare una quarta, qui “interpretata” da un modello anatomico umano a grandezza naturale. Proprio in questa dimensione si colloca uno dei tratti di questo lavoro, che – come anche altri di Pathosformel – interroga direttamente lo spettatore (riguardo gli automatismi della propria visione) e il performer (sulle emergenze della propria azione).

La prima periferia - foto di Giancarlo Ceccon

Di più, La prima periferia è la prima creazione in cui sono presenti attori tout court: tre performer, appunto, impegnati a comporre i movimenti e le pose dei modelli anatomici. Qui la ricerca sull’intuizione e l’immaginazione dello spettatore per cui l’ensemble si è distinto fin dall’inizio è sviluppata secondo un percorso estremamente interessante: smascherata, l’interrogazione sulla percezione e l’interpretazione si amplia fino a coinvolgere ulteriori livelli del discorso performativo e non solo, aprendo quesiti sulla collocazione dello sguardo, sul suo rapporto con l’immagine e sull’azione attoriale che travalicano i limiti della singola creazione. In Volta, come ne La timidezza delle ossa o La più piccola distanza, l’innesco concettuale – pur estremamente affascinante e coinvolgente sia a livello ideativo che nella sua concretizzazione in scena – rimaneva legato ad un dispositivo dichiaratamente spiazzante, destinato a mettere in crisi il ruolo dello spettatore, a interrogarlo e a condurre ognuno a ridefinirlo; la focalizzazione della percezione, pur interrogata e stimolata, restava in qualche modo legata al dispositivo con cui era prodotta, alla “magia” dell’accadimento e, forse, anche alla curiosità che suscitava. Ne La prima periferia invece, complice la presenza fisica dell’attore, sono messe in discussione l’azione e la visione stessa: cosa accade? L’azione (i movimenti dei manichini) o le forze che la determinano (quelli dei performer)? Il quesito posto da questa performance – capace di rivalutare o, quantomeno, di indicare altre possibilità di sviluppo per lo spettacolo live – è a dir poco calzante, soprattutto in questi anni di addomesticamento ai meccanismi televisivi, di fruizione scontata, di co-autorialità invocata ma mai realizzata, anzi sempre più circoscritta anche (e soprattutto) attraverso le ultime frontiere comunicative del web, dagli innumerevoli blog ai social network a youtube e wikipedia. In questo panorama che lavora (consapevolmente o meno) all’omogeneizzazione dell’individuo, La prima periferia è una performance che si inoltra nelle esperienze (attuali e passate) di ogni spettatore, andando ad invocare la singolarità dello sguardo: al di là di qualsiasi approfondimento concettuale, la dimensione emotiva, l’inclusione irriducibile, l’affondo personale sono senza dubbio al centro di questo spettacolo, che riesce a concentrare una così ampia varietà di dimensioni in azioni semplici dall’espressività artigianale. Quando il profilo del pavimento, a fior di palcoscenico, comincia a brulicare di un formicolio di minuscoli oggetti in movimento e, insieme, giganteschi, performer e manichini li osservano e tentano di afferrarli, si compie un’attenzione irriducibile, in una coincidenza fra agente e agito di un certo impatto e coinvolgimento emotivo, di grande resa scenica e di rara lucidità creativa.

Visto a B.Motion, Bassano del Grappa

Roberta Ferraresi

Ipotesi nebulosa

Recensione a Bestiale improvviso_3a ipotesiSantasangre

Bestiale improvviso_3a ipotesi - foto Adriano Boscato

Procedendo con metodo scientifico, Santasangre elabora, per B.Motion, un’altra ipotesi, la terza, sul suo progetto Bestiale improvviso, che verrà presentato nel suo esito definitivo ad ottobre in occasione di Romaeuropa Festival. Spunto di riflessione ed elaborazione dichiarato è l’energia nucleare, nella sua duplice espressione devastante se manipolata dall’uomo e di infinito e vitale fascino nella sua forma astrale.
Il teatro viene così invaso da una fitta nebbia, nella quale si intravedono figure che si muovono in un tappeto sonoro artificiale e fragoroso. Al diradarsi della coltre, divengono più percepibili i movimenti delle tre performer — Roberta Zanardo, Teodora Castellucci e Cristina Rizzo — che sviluppano una coreografia fatta di gesti rapidi e convulsi eseguiti con estremo rigore, ma che, coinvolgendo principalmente solo la parte superiore del corpo, risulta paradossalmente statica. La scena è mossa da un disegno luci complessissimo e articolato, che, forse ispirandosi proprio alla luce astrale, crea un continuo gioco di chiaroscuro a tratti quasi psichedelico.

Un’ipotesi spettacolare tecnicamente impegnativa e ben studiata, quindi, ma che probabilmente ribadisce un percorso di ricerca linguistico piuttosto che arricchirlo, realizzando un lavoro impeccabile ma forse autoreferenziale e poco azzardato. A farne più le spese è la comunicabilità stessa del lavoro: nonostante la nebbia avvolga indistintamente palco e platea, lo spettacolo non risulta altrettanto coinvolgente, per una gestualità eccessivamente reiterata ed un lavoro che, nel complesso, soffre di una eccessiva cripticità che fa percepire una distanza apparentemente insormontabile per lo spettatore con le premesse  — o promesse — del foglio di sala.

Visto a B.Motion, Bassano del Grappa

Silvia Gatto

Il nudo è di scena a B.Motion

Approfondimento sul Festival B.Motion Danza 2010

Corpi-carne in esposizione, che vanno verso una decomposizione. Corpi simil-velati, trasparenze verticali che mostrano una giocosa eleganza. Corpi che nascondono la loro natura dietro travestimenti, ingannando l’immaginario collettivo e rivelando la propria fisicità una volta spogliati delle vesti. Corpi che cercano un’identità, cambiando se stessi per passare verso un altro stato, un’altra immagine che rifletta il proprio Io. Corpi che ritornano al primitivo e al bestiale mescolandosi al materico, alla terra-torba da cui provengono e in cui un giorno ritorneranno. Corpi statuari e corpi deboli, indifesi, ma depositari di una purezza disarmante. Il nudo in scena si rivela in molti lavori presentati a B.Motion Danza 2010: la fisicità diventa una fonte inesauribile da interrogare, si sente il bisogno di “mettersi completamente a nudo” forse per trovare un punto di contatto con chi è seduto in platea.

Marco D'Agostin

Una necessità e un modo scelto dagli artisti per trattare argomenti che forse altrimenti non riuscirebbero a comunicare: un corpo nudo è portatore di verità, riesce a parlare anche semplicemente mostrandosi in tutta la sua vulnerabilità. È più semplice da colpire, da attaccare: i segni di violenza rimangono ben visibili e fissi nello sguardo del pubblico. Come in Co(te)lette di Ann Van den Broek dove le tre donne in scena iniziano ad infliggersi dei colpi: impossibile non empatizzare immediatamente, un dolore attraversa il pubblico messo di fronte a tale bombardamento. Riesce a veicolare le proprie emozioni in maniera diretta anche nel momento in cui le parole vengono meno, come nell’altro lavoro We solo men della coreografa olandese, in cui una sorta di boy-band di fronte ai tanti microfoni presenti in scena non può esprimersi a voce, ma solo con il linguaggio dei segni portato all’esasperazione; il corpo e il gesto diventano l’unico mezzo di espressione e di comunicazione. E sempre nella stessa pièce si svela il gioco del travestimento: chi si pensava fosse uomo – con tanto di basette e baffetti al volto e movimenti stereotipati tipici di una popstar – una volta denudato sorprende un pubblico che all’improvviso si ritrova a dover rivalutare tutto ciò che fin lì aveva visto. La sorpresa arriva anche con Marco D’Agostin, il giovanissimo vincitore del Premio GD’A Veneto 2010, che con Viola riesce a mutare il proprio corpo, da uomo a donna, creando l’immagine suggestiva di un corpo androgino che scompare lentamente dentro una luce fioca; in una posizione che ricorda il Cristo in croce, D’Agostin si priva di una sessualità ben specifica che lo caratterizzi, creando un’immagine di piena purezza che ricorda una pittura quattrocentesca. In The son dei greci Oktana Dance Theatre il corpo ritrova la sua natura primitiva: è solo, con la sua nudità, immerso nella torba, in un istinto primordiale che lo spinge a fondersi con la terra e riportare così la propria carne alle origini, alla creazione, ma anche alla sua fine. La matericità diventa simbolo di nascita ma anche di un ritorno definitivo, di morte.

Non è suggestione ma è disarmante la sensazione che suscita Alessandro Sciarroni nel suo spettacolo Your girl: in una tenera semplicità data dal solo mostrarsi nudi in scena in posizione statuaria, i fisici di Chiara Bersani e Matteo Ramponi si fanno portatori di diversità e vulnerabilità. Le due presenze sceniche acquistano un valore aggiunto in quanto diverse tra loro: la “Diversità” non trova un contrasto con la “Normalità” o la “Perfezione”, perché sono proprio queste definizioni qui a cadere; se la chiusura data dalle categorizzazioni mentali spinge a pensare che solo un corpo perfetto – e poi anche qui: che cos’è la perfezione in un corpo? – può farsi carico di emozioni, in Your girl sono le presenze sceniche dei due corpi a riempire di significato la pièce.

Carlotta Tringali

Testi d’oggi

Fibre Parallele - 2. (Due)

Attraverso quali traiettorie si può sviluppare oggi una ricerca drammaturgica? Il teatro di parola continua a parlare al pubblico o è rimasto ammutolito in un angolo della scena, complici decenni di ricerca (e di cultura) maggiormente orientata al visivo? Come si presenta un monologo all’epoca di facebook e del Grande Fratello, in cui il sé è in così tanti modi esplorato ed esposto?

La sezione Drammaturgie di B.Motion Teatro si può attraversare con interrogativi di questo tipo, che tentano di aprire varchi o di tessere reti fra quello che fino a qualche anno fa era considerato fra i più intoccabili tabù dalla ricerca scenica (il testo teatrale) e gli ambienti culturali che hanno promosso la diffusione di un’estetica legata più alla forza delle immagini che alla loro incarnazione in parola.

 

La rivoluzione registica, a inizio Novecento, si è realizzata e diffusa in parte proprio secondo interrogativi simili (sostituendo magari con il cinematografo e il feulletton i canoni mediatici di cui sopra): a difesa del testo e del suo autore, i teatri sono stati invasi e conquistati da un nuovo modo di pensare e agire lo spettacolo, ovvero da un coordinatore dalle svariate e imprecisate competenze, destinato a tirare le fila dell’opera e a cambiare per sempre i principi secondo cui si realizza la messinscena. Pochi decenni più tardi un’altra rivoluzione, altrettanto dirompente: è l’epoca della ricerca indipendente, della potenza dell’immagine e della poetica del gesto, dello sprofondamento nel processo e dell’apertura del prodotto – questi alcuni degli elementi con cui il teatro, dagli anni Sessanta, ha combattuto l’ormai vecchio teatro di regia e di parola, in nome di una ricerca più necessaria e più vicina alle urgenze dell’uomo pre- e post-sessantottino. Ora, dopo decenni di esplorazioni performative che – quando addirittura non lo hanno messo al bando – hanno fatto del testo un elemento fra gli altri (anche rinunciabilissimo) della messinscena e della ricerca, sembra che la questione drammaturgica sia tornata al centro delle pulsioni creative del teatro contemporaneo. Annunciata dall’esplosione del teatro di narrazione nei primi anni Novanta, mentre su altre scene si consumavano gli estremi del teatro-immagine, quella che è stata definita in più modi e che in questa sede preferiamo individuare come “text-renaissance”, in breve tempo si è imposta all’attenzione di artisti, critici e operatori. Ma se sui palcoscenici di tante sale si è manifestata attraverso risprofondamenti nell’ermeneutica testuale tout court, nel panorama della ricerca emergente si è proposta secondo impatti esplosivi, con conseguenze, sperimentazioni e invenzioni del tutto imprevedibili. Esemplare è, come in tanti casi, l’esperienza di composizione drammaturgica della Socìetas Raffaello Sanzio che, dopo percorsi legati allo svisceramento e alla rielaborazione di alcuni dei testi-cardine della cultura occidentale (dalla Genesi a Shakespeare), si è impegnata, dal 2002 al 2004 con Tragedia Endogonidia, in un progetto di creazione (anche testuale) del tutto autonomo.

Menoventi - Semiramis

Alcune delle linee più recenti ed emergenti di quello che è sembrato un ritorno al testo – ma che, come vedremo nei prossimi giorni, lo è solo in parte – si possono osservare all’interno della programmazione di B.Motion Teatro. La sezione Drammaturgie del festival si apre il 31 agosto con due monologhi tutti al femminile che accompagnano e fanno sprofondare lo spettatore negli abissi di due menti appartenenti a mondi differenti eppure legate da una follia per molti versi avvicinabile. Se Fibre Parallele, con 2. (Due), affronta la pazzia di una donna in una storia sospesa fra l’horror e il quotidiano, iper-realismo e surrealtà, Menoventi propone un affondo in uno dei più inquietanti personaggi del teatro occidentale, Semiramis. Le mitologie contemporanee legate al femminile – siano esse provenienti dalla grande drammaturgia europea o dalle altrettanto celebri cronache televisive – sono qui affrontate secondo un’urgenza originale, che sa unire la ricerca d’immagine alla sperimentazione testuale, l’incarnazione della parola all’esplosione visiva, facendo del rapporto maniacale con la realtà (comunemente quotidiana o del lavoro scenico) uno dei tratti distintivi dell’esperienza spettacolare. La dimensione visiva, in questi e altri progetti, è intimamente legata, quasi in simbiosi, al riverbero testuale, in un corto-circuito sensoriale di cui è difficile distinguere gli inneschi, siano essi di matrice teoretica (con la parola al seguito) o scatenati dall’incalzare verbale, che materializza di volta in volta i profili e le immagini protagonisti dello spettacolo.

Altra possibilità drammaturgica esplorata durante questi giorni di B.Motion si trova nella collaborazione, proposta dal festival, fra danz’autori e drammaturghi-registi, i cui esiti sono presentati sottoforma di primo studio:  Dreams Doubts Debts, che coinvolge Silvia Gribaudi e Giuliana Musso, è un progetto di teatro-danza civile destinato a raccontare le nuove povertà, mentre Ambra Senatore e Sandro Mabellini, con Nel lago, esplorano con ironia un classico dei classici del balletto.

In conclusione, una presenza ormai storica di B.Motion: Babilonia Teatri presenta, in anteprima, il nuovo lavoro The End, uno spettacolo sul tema della morte, concepito a partire dalla società dell’istante, che nega il passare del tempo e rifiuta l’invecchiamento. Caso esemplare delle potenzialità di incarnazione testuale, la compagnia ha dimostrato la varietà e la quantità delle possibilità legate alla parola in scena: frantumato in cori o trattenuto in monologhi, declinato in citazioni provenienti dagli ambiti più disparati dell’immaginario contemporaneo, il testo, nei lavori dei Babilonia, torna ad essere protagonista assoluto. Ma in questo, come negli altri casi appena citati, non si tratta certo di un semplice ritorno alla ricerca drammaturgica intesa in senso tradizionale: in ognuno di questi esempi (ma molti altri se ne possono trovare nei teatri di oggi) il testo conserva un rapporto eccezionale con la realtà, quella di ogni giorno che appartiene a tutti – con quegli exploit pop ormai celebri sui palcoscenici di tutta Italia – e quella del lavoro scenico sviluppata dalle compagnie. Mai a priori né tantomeno a posteriori, la drammaturgia contemporanea si mostra come un ibrido tra scrittura scenica, invenzione poetica e co-autorialità del pubblico, un mix fra processo e prodotto, forme e contenuti, che si è imposto all’attenzione negli ultimi anni, sapendo rinfrescare gli estremi della ricerca e rinnovare le modalità di relazione con il pubblico, e le cui declinazioni imminenti sono ancora del tutto imprevedibili.

Roberta Ferraresi