È nel 2004 che Nikolai Khalezin, autore teatrale, e Natalia Koliada, organizzatrice, dopo un concorso di drammaturgia, decidono che è ora di fare qualcosa in Bielorussia: a loro si unisce il regista Vladimir Scherban, con cui fondano, l’anno successivo, il Teatro Libero. La ricerca drammaturgica che mescola citazioni da testi teatrali e frammenti di vita vissuta – dalle esperienze personali più comuni alle testimonianze di prigionieri politici del loro paese –, l’azione travolgente, la magia scenica realizzata con pochissimi elementi sono i caratteri di questo teatro, segnalato con una menzione speciale nella sezione nella sezione Nuove Realtà dell’ultimo Premio Europa per il Teatro.
Osteggiato in patria (le performance del Teatro Libero avvengono in totale segreto), il lavoro di questo ensemble ha ottenuto enorme riconoscimento all’estero, con il sostegno di artisti come Harold Pinter, Vaclav Havel, Mark Ravenhill.
Dall’ultima dittatura d’Europa, il Teatro Libero arriva per la prima volta in Italia a VIE di Modena, dove è presente con ben quattro spettacoli.
Recensione di Being Harold Pinter e Zone of silence – Belarus Free Theatre
Una necessità impellente di fare teatro, affrontare i problemi della società di oggi, esternare e affermare la propria esistenza. Una recitazione che arriva diretta allo stomaco, una finzione scenica superata che si fonde con la realtà. Diventa riduttivo parlare dei Belarus Free Theatre, la compagnia bielorussa formatasi a Minsk nel 2005 dall’incontro tra il giornalista Nikolai Khalezin, la produttrice teatrale Natalia Koliada e ilregista Vladimir Scherban. Complice la dittaturasotto cui vivono, che li costringe ad andare in scena in clandestinità, il teatro dei Belarus è agito, sentito: trasuda un’energia impressionante, difficilmente riscontrabile in altre realtà teatrali. Assistere a Being Harold Pinter e Zone of silence, presentati per la prima volta in Italia a VIE- Scena Contemporanea Festival di Modena, è un’esperienza da vivere sulla propria pelle.
In entrambe le pièce bastano pochi mezzi per creare spettacoli di forte impatto emotivo: un piccolo quadrato disegnato in terra per delimitare lo spazio, attori preparatissimi che tramite il corpo, lo sguardo e le parole taglienti – pronunciate in russo e bielorusso sovratitolato in italiano – tolgono il fiato.
“Non vi è una rigida distinzione tra ciò che è reale e ciò che è irreale. Non è necessario che una cosa sia vera o falsa, può essere entrambi”. Con queste parole, sospese tra la vita e l’arte, si apre Being Harold Pinter: un concitato susseguirsi di frammenti tratti da alcune drammaturgie dell’autore inglese, che si alternano al suo discorso di accettazione del Premio Nobel per la letteratura nel 2005 e a lettere di prigionieri politici bielorussi.
La violenza – in tutte le sue sfaccettature, dalla famigliare a quella politica e sociale – fa da collante alle situazioni rappresentate, ma non è ostentata realisticamente, viene suggerita. Le immagini riprodotte in scena hanno una potenza evocativa, come la sensazione di claustrofobia data dal telo di plastica agitato sopra i corpi degli attori, mentre un crescendo di canti si trasforma in impercettibili grida. Disturba il suono stridente prodotto dalle dita che strisciano sull’orlo di bicchieri, mentre il linguaggio diventa sempre più crudo.
“La ricerca della verità non può essere rimandata, ma cercata subito. La reale verità delle nostre vite e delle nostre società è un compito decisivo che incombe su noi tutti. Se una tale determinazione non si incarna nella nostra visione politica, non avremo nessuna speranza di ripristinare ciò che per noi è così prossimo ad essere perduto: la dignità dell’uomo”. Una verità che i Belarus fanno sfociare nel volo di un aeroplanino fatto di carta e che alle sopracitate parole di Pinter viene dato alle fiamme: libertà di volo negata che diventa un’esplicita provocazione riguardante la situazione politica bielorussa, ma che abbraccia una realtà più ampia e che interessa il mondo intero.
L’atmosfera diventa colloquiale in Zone of silence – moderna epopea bielorussa in tre capitoli, dove differenti personaggi raccontano uno spezzato significativo della propria vita. Anche qui è labile il confine tra ciò che è reale o fittizio: l’infanzia difficile e la diversità diventano oggetto di analisi ma anche un modo per affrontare ed espiare, tramite l’atto scenico, delle verità che pesano come macigni. Si incontrano storie di bambini umiliati e mortificati, come quella di Vika Moroz, strappata a chi considerava essere i suoi genitori, nonostante fossero italiani: la ragazzina di dieci anni, diventata un caso per la stampa internazionale, prende vita con i Belarus attraverso un corpo fatto di giornali, tanti pezzi di carta costretti ad accartocciarsi di fronte a un amore negato. Se nel secondo capitolo si alternano personaggi ai margini della società, i cosiddetti ‘diversi’, e si passa dal nero omosessuale alla signora solitaria innamorata di Lenin, nella terza parte dello spettacolo vengono denunciate, attraverso semplici gesti e dati statistici, le condizioni esasperanti e preoccupanti di un paese che nega l’esistenza di gravi problematiche sociali come l’alto numero di aborti e di suicidi e le scarse condizioni di salute e di lavoro.
In Zone of silence il linguaggio corporeo è il vero protagonista: il silenzio verbale,a loro imposto in Bielorussia, non riesce ad impedire a questi attori straordinari di trovare attraverso la loro espressività gestuale un contatto con il pubblico, che diventa così ancora più potente. Il teatro diventa l’unico strumento che dà la possibilità a questo contatto di esistere, lasciando ai Belarus un ultimo spazio per affermare la propria dignità umana.
Visto a VIE – Scena Contemporanea Festival, Modena