Parte la nuova Biennale Teatro. Fra i prestigiosi Leoni (che hanno inaugurato il festival il 4 agosto), gli incontri con gli artisti nel tardo pomeriggio e le prime presentazioni delle compagnie in residenza, è cominciata la quinta edizione della rassegna con la direzione di Àlex Rigola. Già questi primi momenti di confronto e condivisione si dimostrano importanti opportunità per provare a rintracciare qualche elemento che contraddistingue il lavoro svolto dall’artista catalano nei suoi anni di lavoro a Venezia.
Il festival si è inaugurato con i prestigiosi riconoscimenti che ogni anno l’istituzione veneziana conferisce alla carriera di un artista di riconosciuta fama internazionale (Leone d’Oro) e all’innovazione di una giovane promessa del teatro (Leone d’Argento). Il primo va quest’anno a Jan Lauwers, ormai gradito habitué della scena italiana e anche della Biennale veneziana; Leone d’Argento invece per il giovane Fabrice Murgia, purtroppo meno noto ai palcoscenici nostrani ma promessa riconosciuta a livello internazionale.
È una Biennale che non a caso quest’anno premia due artisti basati in Belgio (Lauwers ad Anversa, Murgia a Bruxelles). Questo, infatti, negli ultimi anni si è consolidato come territorio di riferimento per la sperimentazione artistica, soprattutto nell’ambito delle live arts (con la danza in primis, ma negli ultimi tempi non soltanto).
Va notato che nella gran parte dei casi non si tratta di percorsi di sperimentazione fini a se stessi o comunque attivi sul piano eminentemente formale: se il teatro di Lauwers diventa naturale e potente punto d’incontro di arti diverse (dall’arte visiva al cinema, dalla musica al racconto alla danza) per scavare in profondità fra le luci e le ombre dell’umano, anche l’autorialità di Murgia sembra muoversi verso orizzonti piuttosto prossimi, utilizzando la commistione fra teatro e cinema per creare «ambienti che immergono lo spettatore in un magnetismo che lo avvicina alla parte più nascosta dell’essere umano» (così si legge nelle motivazioni del premio).
Si potrebbe dire qualcosa di simile per i lavori di Gabriela Carrizo di Peeping Tom (anch’essa torna in questi giorni a Venezia per la Biennale, con una residenza con la sua compagnia), da molti anni in Belgio: il suo teatro-danza prende molto, moltissimo dal cinema, ma ne riversa gli stimoli sul piano concettuale-emotivo creando scene dalla straniante cifra onirica, a volte straziante, altre sorprendente. Anche qui, si tratta tutt’altro che di manierismo o astrazione, o peggio ancora virtuosismo: le atmosfere quasi lynchiane che hanno fatto conoscere Peeping Tom sulle scene mondiali si originano dritte dal cuore stesso dell’inquietudine umana, delle paure e delle emozioni, del trasporto e delle relazioni che si sviluppano o meno fra l’uno e l’altro. Così anche si potrebbe dire per Jan Fabre (Anversa), altro artista che è tornato più volte alla Biennale veneziana, per spettacoli e/o laboratori.
Si potrebbe pensare che esiste grande affinità fra le edizioni del festival dirette da Rigola e quest’area della creazione. Ma se proviamo a dimenticare il dato geografico (pure importantissimo, come si è detto, anzi determinante), questa “doppietta belga” dei Leoni 2014 ci può forse offrire una qualche chiave di lettura in più per provare a comprendere il lungo e vario lavoro che l’artista catalano sta svolgendo a Venezia dal 2010, fra laboratori e spettacoli, incontri e residenze.
Quello dell’importanza di orientare una instancabile sperimentazione linguistica a precisi fini di carattere etico ed umano è uno dei temi portanti del primo incontro di questa Biennale Teatro: coordinate da Andrea Porcheddu, sul palco del Teatro Piccolo Arsenale, si sono presentate al pubblico le 5 formazioni in residenza per questa edizione del festival (oltre a Carrizo, i greci Blitz Theatre Group, gli andalusi La Zaranda, i catalani Sr. Serrano, gli italiani Ricci|Forte e gli artisti del progetto Author Directing an Author, Marco Calvani, Nathalie Fillion, Neil LaBute).
La prima (e fondante) questione su cui il critico ha invitato gli artisti a confrontarsi, infatti, è proprio quella del rapporto fra teatro e realtà, chiedendo loro che cosa possa, oggi, considerarsi contemporaneo.
Comincia Aggeliki Papoulia di Blitz. A suo avviso, «when you’re trying to create a dialogue with what happens – in every field –, it’s always contemporary» (“quando stai cercando di creare un dialogo con ciò che accade – in qualsiasi campo – è sempre contemporaneo”). Ma il teatro non si ferma qui: secondo Christos Passalis, sempre di Blitz, lo scopo del mezzo artistico non è quello di riportare la realtà in scena così com’è, ma di distorcerla; non si tratta di raccontare direttamente la crisi, il terrorismo, l’epoca mass- o post-mediale: «we strongly believe that this is not reality». O, meglio, che quella non è la nostra sola realtà. Questo è, a suo avviso, il senso di lavorare oggi al contemporaneo. Mentre per Nathalie Fillion «there is not only one “reality”», non c’è una realtà sola e univoca da trattare, ma è una questione di percezione individuale. Àlex Serrano aggiunge un elemento di grande importanza: secondo lui il contemporaneo ha poco o nulla a che fare con quello che accade per strada o con le notizie che rimbalzano sui giornali; e nemmeno si lega essenzialmente all’utilizzo di nuovi linguaggi e new media (campo che attraversa il lavoro dell’artista con la sua Agrupaciòn). «These are just forms – constata Serrano –, instead contemporary is to try to communicate your idea with best tools to an audience»; ed è così che entra in gioco nel discorso al Piccolo Arsenale, la cruciale questione del pubblico.
Sono posizioni diverse, idee differenti e a volte anche opposte (come sottolinea Gabriela Carrizo) di teatro e di vita. Come constata Stefano Ricci, ognuno di questi approcci è condivisibile; «tutte le motivazioni che ci portano a interrogarci sul linguaggio teatrale sono valide», per riprendere le parole stesse dell’artista. Anche quando si tratta di esplorare i delicati rapporti fra realtà e finzione o di affrontare il tema del contemporaneo. Tutto sommato, se proprio si volesse trovare a questo punto un filo comune, si potrebbe dire che sono tutti approcci “minimali” alla questione del reale e del contemporaneo; nel senso di quel minimalismo che ha scarnificato i linguaggi nell’arte del nostro tempo: che spoglia i mezzi artistici della tentazione virtuosistica, dal peso dei canoni, dalle stratificazioni autoreferenziali per indirizzarli alla migliore efficacia possibile. Ma questa è di nuovo, ancora, una questione soprattutto stilistica. Qual è il punto, quindi?
Un tassello al discorso si aggiunge se spostiamo l’attenzione sul tema dell’attore, della sua presenza e del suo ruolo nel lavoro scenico – altra domanda sottoposta agli artisti durante l’incontro pubblico. «I don’t really care about actors, I’m interesting in person» constata Papoulia, mentre per Josè Manuel Mora (collaboratore di Carrizo) il loro lavoro consiste prima di tutto in un incontro umano. Per La Zaranda, l’attore deve “avere le ali”, cercare di “costruire dei ponti” ma anche accettare “il rischio di cadere nel vuoto”. Per Stefano Ricci, l’unica caratteristica che deve possedere un attore è «respirare, essere in vita» («oggi non è così scontato», puntualizza l’artista); «con queste persone, poi, si può fare un viaggio e forse costruire dei ponti per comunicare a qualcun altro». Di nuovo l’idea del ponte, della relazione. Tutte le idee d’attore, per quanto diverse, insistono infatti sul piano dell’incontro umano, del confronto autentico innanzitutto fra persone (fra attori e poi con gli spettatori), dell’esperienza reale all’interno del teatro e della creazione artistica.
Una delle caratteristiche distintive delle 5 edizioni della Biennale Teatro dirette da Rigola si può pacificamente riconoscere nell’ampio ventaglio di artisti invitati al festival, nella molteplicità dei linguaggi e percorsi, nel “politeismo” teatrale si potrebbe dire, con Claudio Meldolesi, che è stato ogni anno testimoniato a Venezia: dal teatro-danza (Carrizo, Fabre, La Veronal) ai drammaturghi dei nostri tempi (LaBute, Ravenhill, ma anche Mouwauad, Tolcachir), dalle eccellenze della grande regia europea (Ostermeier, Castellucci, Bieito, Lupa) a artisti che investono invece sulla dimensione dell’ensemble; ci sono stati rappresentanti della cultura di gruppo e dell’autorità registica, autori-attori e autori tout court, amanti del classico e dei new media; tutti coinvolti in spettacoli, incontri, laboratori.
Ma scavando nella varietà e nella molteplicità di queste scelte artistiche, sulla scorta dei discorsi che si stanno portando avanti in questi giorni a Venezia, è possibile seguire in filigrana qualche strada ben solida. Si potrebbe allora ipotizzare – allargando gli orizzonti anche alle passate edizioni – che una di queste si possa rinvenire proprio essere quell’attenzione per i rapporti fra teatro e realtà, nello specifico della sua declinazione sul piano dello scavo dell’umano, sia esso espresso in senso emotivo-relazionale o etico-politico.
Roberta Ferraresi
Questi contenuti hanno origine dal laboratorio Theatre Community, diretto da Andrea Porcheddu e Anna Pérez Pagès con Roberta Ferraresi e Futura Tittaferrante per Biennale College – Teatro 2014.