Tre esperimenti e una performance. Luci, piante, esseri umani, nello specifico bambini.
Sopravvivenza, competizione, aggressività. Evoluzione, sconfitta, morte.
Immaginare un altro mondo? Rinunciare a questo?
Il nuovo lavoro di Pathosformel – T.E.R.R.Y.– già transitato per il Festival di Santarcangelo e presentato a Dro in prima nazionale durante la XXXIII edizione di drodesera (in coproduzione con Centrale Fies), abita lo spazio del Garage Nardini. Primo esperimento l’installazione luminosa. Secondo esperimento la serra. Terzo esperimento un laboratorio per bambini. E poi la performance.
Buio. Nessun attore in scena. Macchine. Funi. Ruote. Carrucole. Luci a neon competono per avere energia, si alternano, si rincorrono, si sovrappongono.
Organismi inanimati, che hanno sperimentato cosa significa crescere in un unico terreno, troppo piccolo per accoglierli tutti, si muovono nello spazio, descrivono traiettorie, cooperano, concorrono, si attaccano, finché uno di loro finisce per soccombere.
Uno a uno entrano in scena quattro bambini. Erano seduti fra il pubblico. Testimoni muti di un gioco di relazioni e sovrapposizioni, rivalità e distruzione.
Sono sagome. Non si vedono i volti, non si conoscono i nomi. Sono l’umanità. Incontrano la natura. Cercano di creare nuove regole.
Lavoro concettuale, che s’inscrive nel solco della ricerca dei Pathosformel, tra animato e inanimato, movimento della materia e sentimento dell’uomo, e racconta con una struttura meccanica dinamiche antropiche.
*La redazione di b-stage 2013 è composta da Elena Conti, Roberta Ferraresi, Rossella Porcheddu, Carlotta Tringali
Ormai è sulla bocca di tutti che l’arte, la storia e la cultura italiane siano continuamente in pericolo: Pompei rischia di uscire dal prestigioso circolo dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco, gli eco-mostri straziano gli orizzonti, i monumenti sono bardati da impalcature perenni. L’Italia arranca nel sostenere il peso di un patrimonio diffuso enorme, per non parlare poi di presente, di contemporaneo, di futuro; e, se possibile, la situazione peggiora ancor di più, se si sconfina in quel campo di produzione immateriale che è quello delle arti performative: i teatri chiudono, i festival sono sempre più in affanno, le compagnie si trovano schiacciate fra necessità di produzione, giornate di lavoro, repliche, contributi (criteri inattuali su cui si fonda, ad esempio, la distribuzione dei finanziamenti ministeriali) e vita reale, artistica e non. Che dire, poi, se alla disattenzione e all’incuria di un Paese che pare essere incapace di riconoscere (oltre che di valorizzare) le proprie potenzialità, si aggiungono le ripercussioni della crisi (non solo finanziaria) globale: già lontani gli imbarazzi di “con la cultura non si mangia”, oggi lo stato di emergenza si è consolidato come realtà quotidiana e l’eccezionalità che lo dovrebbe contraddistinguere tante volte ha lasciato il posto alla logica di una routine amaramente rassegnata.
Ma, laddove c’è, oltre alle evidenti difficoltà economiche, innanzitutto un vuoto (progettuale, amministrativo, concettuale), naturalmente e paradossalmente fiorisce l’eccellenza delle iniziative indipendenti, la creatività partecipata, la buona volontà dei singoli: basti pensare ai gruppi d’acquisto, alle iniziative di sharing (casa, macchina e chi più ne ha più ne metta), al guerrilla gardening e – per tornare a noi – ai tanti teatri occupati e/o autogestiti, dal Valle in poi. La resistenza si converte in dinamiche progettuali originali, la sopravvivenza in opportunità, la crisi in solidarietà, nella tradizione di quell’arte di arrangiarsi che ormai ha fatto il giro del mondo. Non che queste iniziative, da sole, possano andare a fronteggiare per sempre la polverizzazione istituzionale, gli anacronismi iper-burocratici e l’inadeguatezza dirigenziale; ma spesso hanno il merito di portare con forza all’attenzione necessità e urgenze che sono il segno dei tempi che cambiano, lasciando intravedere nuovi orizzonti operativi, rifocalizzando l’essenziale e disegnando nuovi percorsi per coltivarlo, quando non addirittura conquistarlo.
È il caso di Finestatefestival, network attivo dal 2012 che raccoglie le spinte di sei rassegne che si sviluppano, come dice il titolo, fra agosto e ottobre, andando a concludere la lunga stagione dell’Italia dei festival. Si parte con B.Motion di Bassano del Grappa (VI), dal 22 al 31 agosto; Castel dei Mondi, ad Andria, il 25 agosto, poi il romano Short Theatre – che quest’anno si presenta con un titolo a dir poco emblematico: La democrazia della felicità –, per proseguire con Terni (18-29 settembre) e chiudere con Contemporanea di Prato e Approdi a Cagliari, nuova realtà nel quartiere di Sant’Elia.
L’esito, per il 2013, è quello di proporre, all’interno della propria programmazione, due spettacoli internazionali: Nos solitudes di Julie Noche (nell’ambito di FranceDanse / Festival di danza contemporanea promosso dall’Institut Français, dal Ministère de la Culture et de la Communication, dall’Institut français Italia e dalla Fondazione Nuovi Mecenati) e Agoraphobia di Lotte van den Berg (in collaborazione con l’Ambasciata dei Paesi Bassi).
Lotte van den Berg “Agoraphobia” (foto di Willem Weemhoffhires)
Perché sei festival si mettono insieme formalizzandosi in una rete? Dando uno sguardo agli obiettivi sintetizzati nella presentazione del network, si parla di «stimolare la cooperazione tra festival in Italia», con una specifica vocazione internazionale – anche immaginando percorsi a doppio senso che, oltre a portare nel nostro Paese lavori dall’estero, promuovano anche tournée straniere di artisti italiani, sperimentando collaborazioni anche con gli istituti di cultura e sviluppando un mercato unico delle arti performative in Europa – e un’attenzione particolare per la ricerca, per quanto riguarda «forme ibride dell’arte performativa» e «facilitare la collaborazione tra artisti di provenienze e di ambiti diversi». Quella che viene in mente, con una prospettiva trasversale rispetto alle diverse realtà e agli obiettivi che si pongono, è una ragione innanzitutto di sostenibilità economica: incontrandosi su alcune scelte di programmazione, queste rassegne hanno la possibilità di proporre al proprio pubblico lavori che forse, altrimenti, non avrebbero potuto ospitare, «al fine di moltiplicare le potenzialità che consentono di raggiungere traguardi al di fuori della portata del singolo festival». In momenti come oggi, già questo può essere un segno prezioso dei tempi che cambiano, per esempio sostituendo condivisione e confronto alla logica forsennata del debutto a tutti i costi, della concorrenza sul filo della novità, della competizione su nomi, date, location e tutto il resto. Ma, dando un’occhiata da vicino ai due spettacoli scelti, nel 2013, per la circuitazione all’interno del network è possibile sia riconoscere il segno delle linee di operatività individuali che abbiamo imparato, negli anni, a frequentare, sia provare a immaginare le risonanze interne e i flussi delle sinergie possibili, a livello artistico, certo, ma anche etico e politico; e per intuire come, forse, nel futuro più o meno imminente di questi primi passi di collaborazione, ci sia molto, molto di più.
Già in sede di conferenza stampa si è sottolineata la volontà di una condivisione progettuale che metta i festival in comunicazione diretta fra loro preservandone, però, differenze e specificità. Più che di una necessità strategica – come ha tenuto a sottolineare Edoardo Donatini –, si parla di affinità. Sensibilità comuni che si rivelano, solo per fare un esempio, nella scelta di uno degli spettacoli internazionali – quello di Julie Nioche –, affidata al direttore artistico di Contemporanea e a Linda Di Pietro, codirettrice di Terni Festival, che a Parigi hanno visionato Nos Solitudes e incontrato la coreografa; ma anche nel progetto di Lotte van der Berg, che fra nuove tecnologie e arte pubblica invaderà le piazze europee per tutta l’estate. O, per fare un altro esempio, nella presenza di Indisciplinarte (l’associazione che gestisce la rassegna umbra) sul territorio cagliaritano, per un progetto a lungo termine, che parta da Approdi e lavori in prospettiva, per rinsaldare il quartiere di Sant’Elia alla città.
Julie Noche “Nos Solitudes” (foto di Agathe Poupeney)
Un impegno di cooperazione, quello del network, percepibile nella piacevole serata di presentazione, che si è svolta su una terrazza romana con suggestivo affaccio su Piazza Venezia. Non un’elencazione dei programmi, di cui si sono date piccole anticipazioni, brevi assaggi, ma una presentazione di linee comuni, di una rete di linguaggi e artisti contemporanei.
Salta subito agli occhi come la nascita di Finestate, più che una nuova iniziativa, vada a formalizzare una prossimità, una curiosità e un sistema di attenzioni preesistente: si riconosce il segno dell’arte pubblica che distingue Prato e Terni, la loro dimensione – con Bassano – di lavoro internazionale e l’attenzione alle pressioni di cocente attualità, come anche a Short Theatre. Si impone l’attenzione che lega tutti alla creatività emergente, alla ricombinazione di linguaggi e percorsi nella sperimentazione di collaborazioni inedite.
Ma Finestate non sta solo a indicare l’intreccio, pure importante, di pressioni, orientamenti, volontà preesistenti che intendono legarsi in una nuova dimensione di progettazione partecipata. Parlando assieme di politiche (scouting, transnazionalità, cooperazione) e di estetiche (nuovi linguaggi, ibridazione…), è possibile cogliere forse un altro obiettivo rispetto al programma, che un po’ li ricapitola tutti ma, soprattutto, può lasciar intravedere qualche passaggio in più, che supera tanto le ragioni di ordine di sostenibilità economica quanto la spinta degli orientamenti già attivi in precedenza: i festival di Finestate sembrano trovarsi insieme a rimarginare lo scollamento, che è sempre andato più amplificandosi, fra estetica e politica. Quello che ne emerge sembra manifestarsi come un esperimento che si propone di chiamare a raccolta, al proprio interno, sensibilità e poetiche, ma anche scelte etiche e politiche culturali, progettualità di ampio respiro e lunga durata, in un unicum che ha tutte le potenzialità per segnare il passo, andando a intercettare creativamente, ancora una volta – ma, in questo caso, attraverso un sistema di sinergie dichiarato – le urgenze della scena contemporanea e a disegnare per essa nuovi sviluppi possibili.
Dopo la presentazione al pubblico di B.Motion di Pinocchio, in cui Babilonia Teatri lavora insieme a tre persone con effetti di esito da coma, in collaborazione con Gli Amici di Luca di Bologna, abbiamo incontrato Enrico Castellani, Valeria Raimondi, Luca Scotton, per una colazione assieme a Carlo Mangolini (co-direttore Operaestate Festival) ed Enrico Bettinello (direttore Teatro Fondamenta Nuove di Venezia). A Bassano, gli spettatori vedono uno studio che poi diventerà l’ultimo spettacolo della compagnia, che ha debuttato a dicembre al Teatro Storchi di Modena: dopo spettacoli lancinanti e possenti, capaci di illuminare di una luce diversa le contraddizioni dei nostri tempi con allestimenti che vedevano in scena i componenti della compagnia, anche autori e registi di se stessi, in macro-personaggi le cui silhouettes riecheggiavano da un lavoro all’altro, questa volta, Enrico e Valeria non sono in scena. In questa conversazione “a caldo”, capiamo cos’è successo: da dove nasce la volontà di lavorare con altre persone e di sperimentare la presenza di non-attori, vediamo cos’è cambiato e cosa è rimasto, in attesa del nuovo progetto Lolita, che debutterà nel 2013 e che sembra continuare a percorrere la strada che si intravvede in questa conversazione.
DALLA FINE DI THE END ALL’INCONTRO CON GLI AMICI DI LUCA
The end – foto di Marco Caselli Nirmal
Carlotta Tringali (Il tamburo di Kattrin): Pinocchio sembra segnare una svolta all’interno del vostro percorso artistico: volevamo chiedervi come siete arrivati a questo punto. Enrico Castellani (Babilonia Teatri): Volevamo fare Pinocchio a prescindere dal lavoro con Gli Amici di Luca. Dopo The end avevamo deciso di fare un progetto che affrontasse le età della vita – dall’infanzia all’adolescenza alla vecchiaia –, lavorando anche con persone-non attori che le incarnassero. Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): È un’idea che arriva dalla fine di The end: l’ingresso di Ettore è uno spartiacque, è un baratro. Sentivamo che quando arrivava questa presenza viva, vera, tutto prendeva senso: riempiva in un altro modo la scena. È da questa figura vera sul palcoscenico che nasce la voglia di lavorare con le persone. Enrico Castellani (Babilonia Teatri): Anche prima la ricerca era quella di provare a trovare una forma che avesse una sua autenticità sulla scena, che non passasse dalla finzione. Però avevamo voglia di scardinare quella forma che avevamo trovato e di provare a indagarne altre.
Poi abbiamo incontrato Gli Amici di Luca: la Casa dei Risvegli fa parte dell’Ospedale Bellaria di Bologna, ci sono 10 posti letto in cui sono ricoverate altrettante persone in coma, che possono vivere lì con i loro familiari. Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): Sono dieci micro-case, più che posti letto. Enrico Castellani (Babilonia Teatri): Poter vivere con i propri familiari, a contatto con il proprio mondo, è uno degli elementi di stimolo più importanti per una persona in coma. È un luogo che non è come l’ospedale, dove c’è la possibilità di vivere un’affettività che in genere non è permessa. I ragazzi con cui abbiamo lavorato sono persone che non vivono lì: abitano a casa propria, ma hanno quello come punto di riferimento. È il luogo dove settimanalmente si trovano per svolgere attività teatrali.
Siamo arrivati senza neanche sapere bene dove stessimo andando. Quando li abbiamo incontrati per la prima volta, abbiamo chiesto loro perché facessero teatro e cosa li spingesse a continuare a farlo, nonostante il trauma risalga anche a molti anni fa; hanno risposto che, dopo quell’evento, la loro vita è cambiata radicalmente e, in qualche modo, il teatro rappresenta una possibilità di incontro e di ritrovare un contatto con la realtà. Generalmente lavorano con degli operatori, che, pur non essendo attori, sono sempre in scena con loro durante gli spettacoli. Ma per noi è stato subito lampante che lo spettacolo dovessero farlo loro. Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): Ciò avviene spesso nel teatro di questo tipo: in scena c’è qualcuno abile che aiuta, perché effettivamente loro – dipende poi dalle varie gravità – alcune cose non possono farle. È qualcosa che ci ha messo profondamente in crisi: come giustifico queste altre presenze in scena? Chi sono?
AL LAVORO SU PINOCCHIO: PRIMI PASSI
Enrico Castellani (Babilonia Teatri): Faccio un passo indietro. L’idea, inizialmente, era quella di affrontare ogni età della vita accostandola a un testo, qualcosa con una base letteraria forte e che si ponesse in stretta connessione con quell’età. Volevamo partire dall’infanzia e per noi Pinocchio era una dedica a quest’età, anche se doveva ancora prendere una forma. Poi abbiamo incontrato loro. E abbiamo deciso di accostare le due cose, senza sapere che forma avrebbero assunto: non sapendo se avremmo o meno raccontato la fiaba, quanto avremmo raccontato di loro… Solo col tempo – conoscendoli e frequentandoli – abbiamo capito quale potesse essere la forma in cui entrambe le cose potevano convivere. Pinocchio ci dava la possibilità di non dover raccontare fedelmente la storia: fa parte dell’immaginario collettivo, così quando vai a toccarlo e muoverlo è sempre all’interno di qualcosa leggibile per tutti. Al di là del fatto che quando lo rileggi – almeno per noi è stato così – scopri di non sapere quasi nulla della storia. Ma non è importante: tutti conoscono le parti salienti, tutti vi trasferiscono qualcosa. Questo ci dava una bella libertà.
Il lavoro con loro è avvenuto attraverso un laboratorio che si è svolto da gennaio a maggio a Bologna, articolato in incontri settimanali. Abbiamo lavorato con tutto il gruppo: 8 ragazzi e altrettanti operatori – 16 persone. A metà percorso abbiamo deciso di formalizzare un quarto d’ora da presentare a un concorso, è stato un passaggio importante… Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): È successo dopo quindici giorni. Ci sembrava importante perché volevamo vederli in scena. Enrico Castellani (Babilonia Teatri): L’impatto con loro, per noi, è stato fortissimo. Dopo pochissimo ci siamo resi conto che tutta una serie di sfere – fra cui l’affettività, la sessualità – sono completamente cancellate: non le vivono e non riescono a viverle, ma ne parlano molto. La prima cosa che abbiamo fatto è stata prendere questo elemento e sbatterlo in faccia a chi veniva a vedere lo spettacolo. Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): Siamo rimasti molto sconvolti dall’incontro con loro, così per questa prima uscita ci siamo trovati ad avere a disposizione del materiale incandescente, che però non riuscivamo a gestire. Enrico Castellani (Babilonia Teatri): È successo che abbiamo creato una chiusura rispetto a chi guardava lo spettacolo, quindi, in qualche modo, avevamo fallito. È stato un passaggio fondamentale.
L’altra grande questione è che loro portano la propria autenticità – il loro vissuto, i loro corpi, la loro parola, tutto – sul palco e la difficoltà sta nel farla vivere sulla scena, senza chiuderla dentro una forma che poi finisce in qualche modo per ucciderla. Loro non sono attori: se assegni battute prestabilite o gli appuntamenti in modo troppo netto, quello che fai è vedere degli automi… Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): …degli attori che recitano male. Enrico Castellani (Babilonia Teatri): In qualche modo qualcosa di amatoriale. Questo è stato un grande nodo: un po’ alla volta si sono delineati i contenuti che volevamo far emergere e consegnare allo spettatore, ma allo stesso tempo ci serviva una griglia morbida, che vive della relazione che si è instaurata fra noi e loro. In questo è stato fondamentale una seconda fase di lavoro, in cui stavamo insieme per una intera settimana; poi per due settimane sono stati a casa nostra, per cui si è creata una dimensione….
Pinocchio – foto di Marco Caselli Nirmal
Carlo Mangolini (co-direttore Operaestate Festival): Solo loro tre? Enrico Castellani (Babilonia Teatri): Loro tre e Stefano, che è la persona che lavora con loro da sempre. È psicologo. Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): Psicoterapeuta. Enrico Castellani (Babilonia Teatri): Una persona assolutamente fondamentale, per noi è stata una sponda importantissima. Li conosce da lungo tempo e dà sicurezza a noi e a loro: confrontandoti con lui hai la tranquillità che quello che stai facendo non è un sasso che lanci e poi togli la mano, senza preoccuparti di quello che può lasciare. È un continuo fermarsi, raccogliere, parlare, capire… Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): Poi c’è da dire che noi non ci occupiamo degli aspetti riabilitativi del teatro, però Stefano dice che può fare molto bene… ma anche molto male: infatti, a fine spettacolo, lui li fa tornare coi piedi per terra. Continuiamo a dire che non sono attori, questo è un discrimine: la struttura li sta accompagnando in un percorso di riabilitazione e se li considerassimo attori, dal punto di vista terapeutico sarebbe una follia. Su questo punto, all’inizio, non avevamo un’idea molto chiara e Stefano ci ha fatto ragionare molto. Il loro è un cammino psicologico terapeutico che non compete a noi…
UNA NUOVA FASE PER I BABILONIA: COME “ESSERE ALL’INIZIO”
Enrico Castellani (Babilonia Teatri): Infatti ci siamo molto battuti perché ci fosse questa persona: c’è sempre stato alle prove, ci sarà sempre, perché è fondamentale – non tanto per lavarcene le mani – una persona con una competenza e un ruolo che loro conoscono e riconoscono.
Aggiungo un’ultima cosa. Il nostro tentativo è quello di raccontare la realtà attraverso i nostri occhi. E anche qui è così: ha la possibilità di vivere direttamente sulla scena, con dei corpi che portano un loro vissuto. Certamente, anche in questo caso, facciamo da filtro, ma in modo molto diverso: quella realtà è lì e porti in scena delle persone che normalmente non frequenti e che, se non fosse per il trauma che li ha uniti, non si frequenterebbero nemmeno fra loro. Si tratta di creare un’empatia con le persone e porsi in una posizione di ascolto. C’è una condizione che è sufficiente ad attirare la mia attenzione, a convincermi del fatto che forse se anche il resto del mondo se ne accorgesse, alcune dinamiche potrebbero cambiare. Per noi, questo, sulla scena è dirompente: loro sono un pezzo di mondo, filtrato molto meno rispetto a quando ci siamo noi, che ci mettiamo in bocca le parole che abbiamo raccolto. Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): Abbiamo sensazioni molto diverse fra loro, siamo in una fase molto nuova, in cui stiamo rimaneggiando tutto. Ieri sera è stato un appuntamento molto importante, che ha bisogno di sedimentare e probabilmente ci vorrà un bel po’. Mi sembra di essere all’inizio, quando abbiamo fatto Panopticon Frankestein, in cui usavamo il “coro” e ancora non ne sapevamo parlare: mi sembra di non avere ancora le parole. Sono molto contenta, perché mi sembra che abbiamo toccato qualcosa che per noi potrà essere importante, però è ancora lì… Proprio adesso, sentendo parlare Enrico, mi rendevo conto che un po’ lo capivo e un po’ non lo capivo neanch’io.
UNA CONDIVISIONE DELL’AUTORIALITÀ
Pinocchio – foto di Marco Caselli Nirmal
Carlo Mangolini (co-direttore Operaestate Festival): Quello che ho apprezzato molto è stata la delicatezza e il rispetto con cui portate in scena i ragazzi e li raccontate attraverso il filtro di una fiaba popolare come Pinocchio. Credo abbiate trovato una misura che a volte è difficile anche per artisti eccellenti: la forza è proprio quella di portarli in scena, con le loro vite, così come sono – questo definisce già una metafora precisa. È tutto molto chiaro, leggibile, lineare e in questa semplicità di forma, rispetto ai lavori precedenti, credo ci sia invece una potenza. Volevo chiedervi quanto sia stato importante, se lo è stato, il supporto dello psicoterapeuta nel trovare questa misura. Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): In realtà Stefano è molto più estremo di noi: ci ha provocato “al contrario”, perché conosceva il nostro lavoro e perché dice che il primo impatto, di solito, è il pietismo, nessuno riesce a uscirne. Per cui ci dice: sappiate che c’è dentro di voi, fateci i conti. Stefano è stato fondamentale, all’interno di questi rapporti, quasi di più per noi, su come noi vediamo il diverso. Dal punto di vista teatrale pungolava al contrario, come per dirci di non avere paura di fare delle cose: abbiamo provato tutto. Roberta Ferraresi (Il tamburo di Kattrin): Quanto di componente autoriale c’è da parte loro? Enrico Castellani (Babilonia Teatri): Tutto quello che dicono è loro. Poi magari ci sono elementi che sono stati più o meno fermati, comunque molto labilmente. Ad esempio, nelle musiche c’è molto di Riccardo: arriva agli incontri con pile e pile di cd… E poi, in generale, hanno portato il loro bisogno di raccontarsi: qualsiasi sia l’argomento, tendono a riportare tutto al trauma. È qualcosa di molto importante, è la loro vita e continua ad esserlo nonostante siano passati molti anni. Questo abbiamo deciso di rispettarlo. Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): C’è moltissimo di loro: abbiamo 20 ore di parole e sappiamo che, chiedendo questo o quello, possiamo selezionare e in qualche modo pilotare. Durante i laboratori abbiamo provato tutto, come per avere un campionario di emozioni, logiche e testi.
CHE COSA NE È DELLA STORIA DI PINOCCHIO
Roberta Ferraresi (Il tamburo di Kattrin): Ma invece il percorso su Pinocchio come ha reagito con questa esperienza? Enrico Castellani (Babilonia Teatri): L’idea che ci siamo fatti è che simbolicamente Pinocchio si è fatto da parte, mettendosi al loro servizio. È un po’ una sponda. Anzi, sono una sponda reciproca, perché anche loro con le loro vite ci aiutano a portare avanti Pinocchio. Però, per noi, loro sono così forti che in qualche modo schiacciano Pinocchio… Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): …schiacciano tutto. Enrico Castellani (Babilonia Teatri):Pinocchio si mette da una parte… Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): …dà loro gli strumenti per potersi raccontare. Carlo Mangolini (co-direttore Operaestate Festival): Diventa una metafora. Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): Diventa la metafora. Però è una cosa molto semplice. Carlo Mangolini (co-direttore Operaestate Festival): Ma non è didascalica. Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): Senza aver un significato univoco. Enrico Castellani (Babilonia Teatri): Una lettura di Pinocchio sarebbe stata una forzatura. Carlo Mangolini (co-direttore Operaestate Festival): Un materiale da cui partire per poi portarci dentro… Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): Sì, in maniera molto semplice, senza voler costruire una teoria.
UN INDIZIO PER IL FUTURO: AL LAVORO CON NON-ATTORI?
Pinocchio – foto di Marco Caselli Nirmal
Roberta Ferraresi (Il tamburo di Kattrin): Forse è un po’ prematuro, ma volevo chiedervi se questa esperienza ha o avrà delle ricadute sul vostro modo di lavorare e sul vostro approccio al teatro. Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): Credo proprio di sì. Enrico Castellani (Babilonia Teatri): Beh, sì, decisamente. A giugno, al festival di Napoli, abbiamo presentato una nuova versione di The end, in cui, in scena, non c’è soltanto Valeria, ma anche una bimba e una persona anziana. Con quest’ultima siamo stati benissimo, ma ci accorgevamo che entravamo in una dinamica di ricerca delle intenzioni, quando per noi non è mai stato quello il centro del lavoro; mentre con la bimba – anche se le abbiamo consegnato testi che esistevano già – ci siamo messi in una dinamica completamente diversa dalla nostra. Ugualmente, lavorare con questi ragazzi ti sposta completamente su un altro piano, quello di lavorare con delle persone che non si pongono come attori e non hanno quel tipo di formazione. Non è che penso che non sia interessante o che non lo faremo mai, però in questo momento… Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): È una cosa proprio che ci lascia… che non sappiamo che cos’è. Quando lavoriamo con Olga – questa bimba con cui abbiamo anche intenzione di continuare a lavorare – non sappiamo che cosa succederà. Ci proviamo, cominciamo a lavorare e non abbiamo idea di quello che succede; se ci mettiamo a lavorare noi o con degli attori, sappiamo già dove andremo a finire. Enrico Castellani (Babilonia Teatri): Quello che rimane, rispetto a quello che facevamo prima, è secondo me una ricerca a priori di contenuti da far emergere; quindi poi la ricerca della “forma-per”, la ricerca di una serie di immagini e di suoni che hanno un’assonanza con quello. Assieme alla disponibilità, nell’incontro, di buttare via tutto. Per esempio, per questo spettacolo avevamo moltissime musiche, ma ora non ce n’è più neanche una; però ci sono servite per attivare la relazione con la persona, per creare un confronto.
In particolare, con Pinocchio, è cambiata la scrittura: alcuni testi che loro dicono sono stati scritti e, per certi aspetti, hanno la nostra forma; però c’è stata anche la volontà di buttare via quella forma, per trovarne una che potesse stare con loro, quella giusta perché loro potessero parlare. È rimasta molto la dialettica tra “provo” e poi, in un momento separato, mi fermo e cerco di tornare a quel punto di origine per cui ho deciso di fare questo spettacolo, senza perdermelo per strada nella ricerca della forma. Forse la continua dialettica fra questi due piani è l’elemento di continuità principale. Per il resto invece è cambiato molto: noi non siamo sulla scena e restare fuori a guardare è molto diverso e anche molto affascinante. Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): Che fra l’altro poi è la cosa che a me personalmente è sempre piaciuta di più. Non amo stare in scena, preferisco stare fuori. Abbiamo costruito e fatto un teatro che eravamo e siamo noi perché comunque non avevamo neanche la possibilità di lavorare con qualcun altro: la difficoltà è anche quella che, pur volendo magari lavorare con altri, non hai neanche i soldi per pagare te stesso, quindi come fai a chiedere ad altri di lavorare con te? La forma nasce anche da una condizione. E, nel momento in cui c’è la possibilità di stare con altri, ci piace di più. Enrico Bettinello (Teatro Fondamenta Nuove): In questo, c’è tanto di Ettore (il figlio di Enrico e Valeria, ndr)… Penso alla dimensione di avere una forma che funziona e poi rapportarsi a una nuova persona e non sapere cosa succederà… Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): Infatti non è casuale, i piani coincidono in maniera profonda. Con l’arrivo di lui in scena, è cambiato qualcosa. È successo tempo fa – ormai The end ha 2 anni –, per cui c’è stato tutto un tempo di maturazione in cui questo è diventato sempre più evidente.
QUALCOSA CHE PUÒ CAPITARE DAVVERO
Roberta Ferraresi (Il tamburo di Kattrin): Vorrei chiedervi qualcosa della figura di Luca Scotton, che è un elemento di Babilonia in scena, rimasto dentro lo spettacolo. Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): All’inizio avrei dovuto esserci io in scena: avevo una mia postazione, che era quella della fatina. Vivo questa figura molto a livello di protezione… Roberta Ferraresi (Il tamburo di Kattrin): Non solo a livello fisico, ma anche a livello astratto e concettuale: sai che è uno spettacolo, ti tiene nel mondo della rappresentazione. Anche con gli altri elementi di finzione: il naso finto… Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): Infatti, finché non c’era Luca, avevamo questo enorme Pinocchione dietro che avevamo costruito in un laboratorio, che ci serviva proprio per questo: vedere loro 3 con questa figura dietro, ti continuava a far rimanere lì. Poi però era una presenza molto ingombrante. Elena Conti (Il tamburo di Kattrin): A questo proposito volevo condividere con voi un’emozione forte che mi resta ancora da ieri sera: nonostante fosse chiaro che fosse uno spettacolo e ci fossero molti elementi a sottolinearlo, io, in certi momenti, ho avuto paura. Enrico Castellani (Babilonia Teatri): Anche un’altra persona ieri sera mi diceva: in certi momenti non sapevo cosa sarebbe successo. Poi non so se succede sempre a tutti, però secondo me è già una cosa, una grande possibilità bella che il teatro ha: uno esce dalla tranquillità pura di essere seduto sulla sedia… Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): Beh, la paura. Mi viene in mente – che secondo me è geniale – la scena dei Tony Clifton quando girano con la torta… lo trovo uno dei momenti più alti del teatro italiano. Io lì ho avuto paura vera. Non so quante volte mi sia successo a teatro. C’è qualcosa che è vero, che può capitare davvero. Enrico Castellani (Babilonia Teatri): Quella dimensione di cui si parlava all’inizio – che sono comunque persone che vivono una realtà parallela alla tua, che è lontana, distante – ha un certo impatto. È una cosa che di per sé è violenta, forte. E in qualche modo deve passare. Bisogna trovare la forma che ti permetta di fare questo senza creare una chiusura in chi guarda, però neanche fingere che sia un idillio in cui va tutto bene. Valeria Raimondi (Babilonia Teatri): Non è assolutamente quello che vogliamo fare. Enrico Castellani (Babilonia Teatri): Mi piace anche questa cosa: paura, inquietudine… Riconosci un modo che abbiamo tutti di guardare questa cosa e che ci mette in difficoltà. È un dato di fatto.
Il pomeriggio in cui incontriamo Anagoor è quasi autunno. Negli ultimi giorni di B.Motion, come ogni anno, l’estate scivola via pezzo per pezzo: piove a dirotto e ci rifugiamo al Samsara, fra cuscini, tavoli di legno e teiere cariche di tè caldo. Siamo qui per parlare del loro ultimo lavoro, all’epoca, Lingua Imperii, che ha aperto la sezione teatro del Festival il 27 agosto, assieme a Roberto Rinaldi di Rumor(s)cena ed Enrico Bettinello, direttore del Teatro Fondamenta Nuove di Venezia, realtà che ha collaborato e collabora in varie forme e diversi livelli alla progettualità di OperaEstate: a Venezia, durante la stagione invernale, il teatro ospita alcuni artisti che saranno poi presenti al Festival in una fortunata formula (presentazione di uno spettacolo, residenza, studio aperto al pubblico con discussione) che è diventata ormai distintiva.
A B.Motion, che Il tamburo di Kattrin segue con un progetto intensivo e site-specific da diverso tempo, non si tratta solo di recensioni e interviste: a Bassano, ogni anno, si ricrea un ambiente prezioso, una comunità di persone che si occupano di arti performative in diversi sensi e livelli: artisti, critici, spettatori curiosi, operatori si incontrano e si confrontano in conversazioni aperte, organizzate nei giorni di Festival nei tanti locali della città vicentina.
Moreno Callegari, Simone Derai, Marco Menegoni ci raccontano il lavoro di ricerca, le fonti e i viaggi, i testi, l’incontro coi canti armeni e la messa a punto della struttura drammaturgica, un dispositivo che intreccia parola, immagine e storia. Ma non solo: Lingua Imperii rappresenta un punto di trasformazione “caldo” della loro ricerca; così, lo spettacolo e il processo creativo diventano, in un percorso che tocca diversi momenti di lavoro del gruppo, spunto per andare molto oltre. Ad esempio, verso le potenzialità che può esprimere oggi l’idea (ma anche la concretizzazione) di un concetto vibrante come “teatro politico”.
TEMPESTA, FORTUNY, LINGUA IMPERII: UN PERCORSO POLITICO
Roberta Ferraresi (Il Tamburo di Kattrin): Visto che ci siamo incontrati tante volte, in questa conversazione volevamo concentrarci su Lingua Imperii – anche se la prima domanda mira a contestualizzare questo ultimo lavoro rispetto ai precedenti, che vivono di un immaginario molto ricco e, per quanto riguarda più strettamente il piano dei contenuti, di un rapporto preciso con la dimensione artistico-culturale. Quest’ultimo spettacolo, invece, mi sembra abbia un taglio decisamente politico e di relazione con la storia “con la S maiuscola”. Anche per quanto riguarda il recupero della memoria – ben presente anche negli altri lavori, ma che qui si esplicita tramite una scarnificazione di segni e del contesto che li accoglie. Per cui volevo chiedervi: cos’è successo? Simone Derai (Anagoor): Gli intenti politici erano dichiarati anche negli altri lavori; sappiamo che non sempre sono stati letti – e questa è stata per noi una lezione. Non che Lingua Imperii rappresenti in qualche modo un rifiuto o un’abiura: è un percorso, il nostro, che fa sempre i conti col passo precedente e prosegue. C’è sempre una forma di consapevolezza in questo senso. In Fortuny è come se avessimo provato a tendere, a spingere, i limiti del lavoro sulle immagini. Fortuny è un lavoro sull’eccesso, politico, economico, culturale: fare i conti con un bagaglio sterminato di memoria – quello del nostro Paese – e rendersi conto che non si riesce a gestirlo, a farlo fruttare. Anche questo ha a che fare con una reazione rispetto al lavoro precedente: allora, dopo Tempesta, si sentiva la pressione di un’aspettativa: un lavoro ancora improntato al minimalismo, all’essenzialità del segno; in realtà, si è voluti andare al polo opposto: ossia far bruciare le immagini per peso.
Non credo, invece, che le motivazioni e i presupposti teoretici siano cambiati: si tratta probabilmente di risultati più o meno vibranti rispetto a chi guarda.
Moreno Callegari (Anagoor): Abbiamo parlato molto di questo desiderio di scarnificare la scena, che poi ha anche a che fare con la materia di cui si tratta: in Tempesta si era partiti da un immaginario che ci perviene in forma pittorica che abbiamo voluto far esplodere – rendere tutto bianco, come la tavola bianca su cui nulla è scritto – per scrivere la nostra visione su Giorgione; il personaggio di Fortuny, con la sua ossessione collezionistica, abbiamo tentato di renderlo in un racconto per sovrapposizione di segni – è quello che faceva anche lui. Roberta Ferraresi (Il tamburo di Kattrin): Quindi in una sintonia fra forma e contenuto? Simone Derai (Anagoor): Sì. E poi – per continuare un dialogo avviato con voi tempo fa – il percorso di Fortuny è stato vissuto totalmente nella sua dimensione di viaggio a tappe; però, significativamente, non è stato un lavoro per studi: è costituito di episodi; di conseguenza, l’approdo e il lavoro di sintesi ci hanno messo di fronte a una serie di problematiche che inevitabilmente ci hanno condotto a fare i conti con l’abbandono di alcune idee e il tentativo di mantenerne molte altre. Una grande differenza rispetto a Lingua Imperii è che per quest’ultimo abbiamo deciso di tenere fermo il desiderio di arrivare con un lavoro compiuto. Così è avvenuto tutto sotto una spinta urgente. Avevamo già cominciato a parlarne a Dro, nel 2011: al centro di tutto c’erano già gli animali, la violenza… Poi ci siamo buttati sul lavoro a capofitto. E si è anche trattato di accettare che le cose che funzionavano non dovessero essere limate e rielaborate all’infinito – che non è pressapochismo, ma accettare una loro essenza immediata. Enrico Bettinello (Teatro Fondamenta Nuove):Lingua Imperii è un lavoro straordinario, però mi dispiace molto che non sia emersa la dimensione politica anche di Fortuny, che per me era fortissima. Roberto Rinaldi (Rumorscena): E come si spiega che non sia emersa? Enrico Bettinello (Teatro Fondamenta Nuove): Beh, quando le cose non vengono dette in modo esplicito c’è sempre una difficoltà. È un problema tutto italiano per quanto riguarda la dimensione politica. Pensiamo al nostro cinema: per esempio si fanno docu-fiction in cui il politico diventa didascalico… Abbiamo forse una sorta di pudore a spostare lo sguardo, per mostrare il politico all’interno di qualcos’altro, sebbene – sempre a livello cinematografico – abbiamo avuto registi come Petri o Rosi. Ricordo che alla Biennale Teatro ho discusso con Maja, una giornalista spagnola, che diceva che il loro teatro è molto più politico; e lo stesso si potrebbe dire di quello argentino, che ha un rapporto molto più intenso con questa dimensione. In Italia c’è come una sorta di reticenza o disabitudine a recepire la forza politica di un’azione, se non è esplicita.
CHE SUCCEDE CON L.I.: UNA TRASFORMAZIONE FRA PAROLA E IMMAGINE
Roberta Ferraresi (Il tamburo di Kattrin): Quando un lavoro si concentra sulla memoria credo ci sia sempre una spinta politica. In questo, anche Fortuny e Tempesta. Ma quest’ultimo spettacolo va a toccare delle corde… più individuali? Forse ti riguarda più da vicino? Marco Menegoni (Anagoor): Forse ha una dimensione individuale diversa. Come diceva prima Moreno, c’è da aggiungere che Fortuny aveva scelto anche deliberatamente il segno dell’enigma; di conseguenza, obiettivamente si dava in modo meno diretto. Enrico Bettinello (Teatro Fondamenta Nuove): È anche che una cifra estetica altamente formalizzata non viene assolutamente letta in quel senso. Simone Derai (Anagoor): Però questo è un problema. Marco Menegoni (Anagoor): Quando presentiamo Rivelazione contestualmente a Tempesta, l’esplicitazione diretta della nostra ricerca documentale e testuale, poi confluita in Tempesta, ha un effetto particolare: le persone ci dicono che così apprezzano molto meglio il lavoro.
Roberta Ferraresi (Il Tamburo di Kattrin): Ma secondo voi è un problema di linguaggio, di registro, di forma di comunicazione? Una fruizione che è abituata a comprendere solo se viene messa di fronte al materiale in maniera molto diretta? Simone Derai (Anagoor): Sì, io penso di sì. Ma è anche una forma di abitudine. In questo senso è un problema italiano. Recentemente ho riguardato Prove d’orchestra di Fellini e sono andato a leggere le recensioni dell’epoca: dicevano che finalmente il regista alludeva alla realtà italiana, abbandonando il narcisismo. Oggi un’affermazione simile fa ridere. Però è un’abitudine di lunga data. Enrico Bettinello (Teatro Fondamenta Nuove): Assolutamente. È sempre stata nel dna dell’intellettuale italiano. Però questo – sicuramente insieme ad altri elementi – vi ha spinti a una rimessa in gioco di alcuni segni e processi. Marco Menegoni (Anagoor): A una rimessa in gioco e anche, secondo me, a una condensazione del nostro percorso. Chi ci conosce come voi dai tempi di Orestea, si sarà accorto che in verità non c’è niente di veramente nuovo: abbiamo semplicemente condensato la nostra ricerca e, allo stesso tempo, l’abbiamo sublimata. Simone Derai (Anagoor): Va anche detto che dopo Orestea ci eravamo prefissi una scissione del lavoro. Moreno Callegari (Anagoor): Da una parte si continuava a indagare la parola… Simone Derai (Anagoor): …separata da qualsiasi tipo di azione scenica; mentre dall’altra si era sviluppato un percorso di indagine sulla visione, che non era un rifiuto della parola, tutt’altro: con *jeug-, con cui è cominciato, questo processo era dichiarato esplicitamente. Ci si proponeva di lavorare sull’immagine come testo, come sintassi, addirittura come radice linguistica stessa delle parole. In questo caso, appunto, abbiamo in qualche modo riunito le due parti.
UN VIAGGIO FRA LE FONTI DI LINGUA IMPERII: DA PRIMO LEVI ALLA TENUTA DI CACCIA DI GÖRING
Carlotta Tringali (Il tamburo di Kattrin): Volevo chiedervi qualche apertura sulle fonti di Lingua Imperii: come sono state selezionate, intrecciate fra loro, lavorate in senso drammaturgico? Simone Derai (Anagoor): Tutto è cominciato l’estate scorsa. Dopo il debutto di Fortuny a Dro ci siamo presi dei giorni di pausa: al mare ho cominciato a leggere I sommersi e i salvati di Primo Levi… C’è una certa omogeneità nei lavori: il problema era ancora una volta quello della trasmissione. Nei lavori precedenti si trattava della trasmissione del bagaglio culturale, delle forme della tradizione e del nostro modo di guardare alla storia dell’arte – in particolare Giorgione e il Rinascimento – e alla sua intrinseca problematicità. Non è mai stato una mera questione di… Moreno Callegari (Anagoor): …di “ci piace il Rinascimento”… Simone Derai (Anagoor): …ma di individuare all’interno di certi percorsi una vibrazione dolorosa fortissima, o un disagio, che sentivamo vicini. In questo caso, questo aspetto si acuiva, perché il problema posto da Levi nell’introduzione è: noi testimoni stiamo scomparendo, cosa succederà dopo? Come potrà essere trasmessa la nostra testimonianza? Come potrà non essere riletta, alterata, mutilata, sbiadita, fraintesa? Ovviamente I sommersi e i salvati affronta principalmente un problema altro, che è quello della zona grigia. Levi è perentorio: la linea di demarcazione fra la vittima e il carnefice c’è e non dev’essere confusa – io non sono un assassino. Punto. Infatti, ad esempio, è polemico nei confronti del lavoro di Liliana Cavani, Il portiere di notte: il pericolo è che, decenni dopo, il fascino del carnefice possa far vincere un’idea di vertigine del male. È fondamentale, per Levi, che questa linea di demarcazione sia stabile; ciò nonostante, l’esperienza estrema dei campi di concentramento pone le persone che la subiscono di fronte a scelte inconciliabili, tragiche e non giudicabili. Non abbiamo indagato questo aspetto nello spettacolo, tuttavia Levi è stato una guida fondamentale: all’inizio volevamo stare alle costole del cacciatore – e in questo senso gli scritti di Levi ci hanno, in qualche modo, spostato. A dicembre siamo stati in residenza a Berlino: quando siamo arrivati, il primo giorno, siamo andati con la telecamera in una foresta a nord della città, nei pressi di Carine Halle, la tenuta di caccia di Göring. Marco Menegoni (Anagoor): Di cui non è rimasto nulla, è stata rasa al suolo. Moreno Callegari (Anagoor): Se non un portale enorme in pietra. Simone Derai (Anagoor): Ed è diventata meta di pellegrinaggio di naziskin. All’inizio chiamavamo questo progetto Nimrod, che è il nome biblico del fondatore di Babele: un cacciatore di uomini, che si distingue da Abramo perché, invece che essere il pastore-guida del popolo, caccia all’esterno della città; la sua è un’azione di potere che va verso l’esterno, cattura e porta all’interno. Un’operazione di conquista e accumulo. E Göring si faceva chiamare come Nimrod, il Grande Cacciatore; ma, mentre Nimrod è il Grande Cacciatore al cospetto di Dio, Göring lo era del Reich. E guarda caso era un grande appassionato di caccia e di animali: paradossalmente fece abolire la vivisezione. Carlotta Tringali (Il tamburo di Kattrin): E che lavoro avete sviluppato lì? Simone Derai (Anagoor): Abbiamo filmato il luogo e la foresta. Marco Menegoni (Anagoor): Poi le immagini sono state scartate. Moreno Callegari (Anagoor): Non che lì non si respirasse una cosa… Simone Derai (Anagoor): …anzi troppo. C’era un altro tipo di energia: plumbea, con queste persone che… Moreno Callegari (Anagoor): …portavano i propri molossi in giro e fotografavano i ruderi.
… ATTRAVERSO LA ARENDT, LA NAUSSBAUM, LANZMANN, LITTELL FINO A LINGUA TERTII IMPERII DI KLEMPERER
Simone Derai (Anagoor): Eravamo un po’ confusi: sospettavamo potesse essere il percorso sbagliato. Non volevamo per noi nessun tipo di ambiguità o rischiare un’involontaria celebrazione del male. Finché non ci siamo convinti che, per ritrovare il cuore, il centro, della questione, fosse necessario stare con i morti; quindi spostare il focus dal cacciatore alla vittima, in modo da farne un discorso continuo, insistente sulla necessità di conservare la memoria… un po’ come l’ostinato lutto di Amleto. Marco Menegoni (Anagoor): …esatto, il lutto. Per tornare alla domanda di Carlotta: in realtà le letture si sono susseguite, una ha chiamato l’altra. Tutti i rimandi presenti nello spettacolo sono stati incontri: Levi, Hannah Arendt, la Naussbaum, l’opera di Lanzmann… Simone Derai (Anagoor):Lingua Imperii non nasce come un lavoro sulla shoah – il discorso è più ampio –, ma, al tempo stesso, sapendo che saremmo arrivati a toccare l’argomento, ci sentivamo di dover studiare. Continuavano a esserci interrogativi: perché è argomento centrale? Perché quello è uno sterminio diverso dagli altri? Perché abbiamo il diritto di considerarlo diverso dagli altri? Sono “solo” i numeri? Il sistema? Quello che facevano dei corpi? Quanto ci riguarda? Perché è ovvio che ci riguarda. Possiamo smettere di farci i conti? Più studiavamo, più gli interrogativi aumentavano… Moreno Callegari (Anagoor): …tanto da chiederci se avessimo il diritto di parlarne. Simone Derai (Anagoor): I punti di vista sono diversissimi: c’è quello antropologico, quello politico, sociale, psicologico individuale e delle masse. Le benevole di Jonathan Littell era stato letto già nel 2010 ed era rimasto tra gli appunti come un’idea significativa da esplorare, soprattutto quell’episodio che confluisce nello spettacolo: l’incontro fra l’ufficiale SS Aue e il linguista Voss e il loro ragionare di linguistica, originarietà, identità e razza… Roberto Rinaldi (Rumorscena): Questa dialettica appartiene solo alle Benevole o l’avete ritrovata anche altrove? Simone Derai (Anagoor): Nella selva di libri sul Reich che abbiamo letto, uno ha donato il titolo allo spettacolo: LTI (Lingua Tertii Imperii) di Victor Klemperer. Linguista di Dresda ebreo, filologo che insegnava francese all’università, era sposato con una donna tedesca; viene ovviamente estromesso, ma, grazie alla moglie, non finisce mai in campo di concentramento e sviluppa un senso di colpa inaudito. Così comincia a scrivere dei diari, che sono una documentazione della trasformazione del tedesco, anno dopo anno, con la comparsa di una lingua nuova, che è quella del Reich: una lingua che impoverisce il tedesco, le sue tradizioni; che urla, che suggerisce parole, le infila nella testa delle persone… Moreno Callegari (Anagoor): …e mira all’impoverimento delle lingue altrui per imporre un dominio. Simone Derai (Anagoor): In questo senso – anche se estremo – non siamo lontanissimi da Tempesta e da Fortuny: alla base lo stesso odio per le propagande e questo veder trasformare le menti, il pensiero, il giudizio. Roberto Rinaldi (Rumorscena): Qui lo esplicitate in modo molto netto. Carlotta Tringali (Il tamburo di Kattrin): C’è un immaginario che tocca forse delle corde più private… Marco Menegoni (Anagoor): Sì, e anche il tema è più universalmente noto.
SEBALD: UN INCONTRO CHE DÀ LA FORMA A LINGUA IMPERII
Simone Derai (Anagoor): Per concludere la risposta, l’altro caposaldo è un altro incontro letterario. Patrizia Vercesi ci ha fatto conoscere Sebald, che personalmente non avevo ancora mai letto e che per noi è stato folgorante: in qualche modo ha suggerito una modalità di struttura all’intera scrittura scenica, oltre a fornire parole in alcuni passaggi del testo: quello di San Giuliano è un racconto di Flaubert che Sebald rinarra ne Le Alpi nel mare; il racconto delle cerve sul selciato di fronte alla macelleria è suo – in questa catena di ricordi in cui a partire da… Marco Menegoni (Anagoor): …da un episodio, a cascata, ne arrivano mille altri. Simone Derai (Anagoor): Questo passaggio per contagio ha fornito la struttura a tutto lo spettacolo. Marco Menegoni (Anagoor): È un precipizio. Moreno Callegari (Anagoor): È una forma letteraria che suggerisce una forma di racconto dei contenuti: anche Vollmann – da cui è tratto il testo della scena finale in cui ci si avvicina continuamente a un crinale friabile sempre sull’orlo di una fossa – suggerisce un movimento fisico, un avvicendarsi continuo sempre sull’orlo del precipizio. Anche questo è stato forte: ci ha suggerito un modo di raccontare la violenza.
“DUE PERLE INCASTONATE” NEL TESSUTO SONORO DI L.I.
Carlotta Tringali (Il tamburo di Kattrin): In Lingua Imperii sono presenti alcuni canti armeni: volevo chiedervi da dove vengono, come li avete scelti e poi inseriti nello spettacolo. Marco Menegoni (Anagoor): Sulle musiche, abbiamo sempre operato di accumulo e di suggestione. Anche questa volta abbiamo collaborato con Mauro Martinuz – lo stesso musicista di Magnificat– e, parallelamente, ci sono gli incontri che capitano nella vita: i magici incontri che il destino ti riserva. Abbiamo conosciuto Gayanée Movsisyan, un’interprete straordinaria e una artista sensibilissima. Da questo incontro è nata subito la condivisione del progetto ed è stata lei stessa a suggerirci un repertorio, che per lei ha un enorme significato – in primo luogo emotivo e ovviamente legato all’olocausto del popolo armeno –; in particolare l’ultimo canto che sposa l’immagine del cervo. Simone Derai (Anagoor): Tutto l’intreccio musicale è guidato da Paola Dallan: le proposte sono sue e sono state poi sviluppate con Monica Tonietto, Gayanée, Marco e Moreno; Mauro Martinuz arriva in un secondo momento per armonizzare il tutto dal punto di vista elettronico, portando un sound che contribuisce ad arricchire, in modo omogeneo, l’intero ambiente acustico. Gayanée ha donato, come interpretazione personale, due canti, due perle incastonate all’interno di uno schema musicale più ampio: quello legato alla scena dei “suggeritori” e l’ultimo, sull’immagine del cervo. Il primo è un canto religioso antico, Mother, in cui Cristo chiede alla madre: “dove sei/perché ho chiesto aiuto allo straniero e non mi viene dato/non mi si dà risposta/dove sei/dove sei”. L’altro invece è un canto folk di Komitas Vardapet, religioso armeno, compositore, musicologo e etnologo musicale che raccolse e riorganizzò il patrimonio musicale folklorico armeno e che impazzì dopo essere stato testimone del genocidio del suo popolo nel 1915. Parte di questo patrimonio musicale della tradizione armena scandisce – senza che ne siano esplicitati i contorni storici – l’andamento drammaturgico di Lingua Imperii, riverberando così questo lavoro della voce fantasmatica di un popolo ferito. Il testo di questo ultimo canto parla di una casa senza più fondamenta, chi canta si sente senza la casa e si augura di potersi dissolvere: desidera immergersi nell’acqua del fiume e diventare cibo per i pesci. Al termine questa voce svanisce nel silenzio allo stesso modo. Carlotta Tringali (Il tamburo di Kattrin): Sono molto belli, mi piaceva sapere cosa raccontassero. Simone Derai (Anagoor): Avevamo il desiderio che fossero espliciti. Poi forse si potrebbe fare una sorta di regalo… Marco Menegoni (Anagoor): …di foglio… Simone Derai (Anagoor): Perché scenicamente diventerebbe l’ennesimo segno da leggere e tradurre. Marco Menegoni (Anagoor): Comunque l’interpretazione di Gayanée, che secondo noi è una creatura straordinaria, comunica tutto quello che c’è da comunicare.
Roberta Ferraresi (Il tamburo di Kattrin): Abbiamo parlato di selezione delle fonti. Invece per quanto riguarda il montaggio? Moreno Callegari (Anagoor): Questo lavoro ha delle parti ben definite: i dialoghi dei tedeschi posti in alto; il cosiddetto Coro, noi: la scena che si fa di canto, di parola e anche di azione; e poi questo grande schermo verticale che porta il volto delle vittime – prima una serie di ritratti e poi il cervo, nonché anche un luogo, la montagna.
Nella prima parte – i due schermi in alto con il dialogo dei tedeschi – è come se ci fossero due attori allo stesso tempo presenti e non presenti: sono figure reali ma allo stesso tempo letterarie. Sono due guardiani della scena. Nonché ciò che più distante c’è dallo spettatore, perché non si pongono in nessun modo in contatto con esso.
Sotto invece, c’è la scena: il Coro che canta, parla e agisce, tenta invece un contatto, una mediazione con lo spettatore. Simone Derai (Anagoor): In questo senso la struttura non è distante da quella della tragedia classica: anzi la ricalca fedelmente. Uno o più episodi – in cui due protagonisti duellano, ponendo una questione – e, su un altro piano, una collettività che rispecchia quella che assiste alla rappresentazione. Moreno Callegari (Anagoor): In questo senso anche è politico, perché… Simone Derai (Anagoor): …perché interroga direttamente… Moreno Callegari (Anagoor): Inoltre, il video sullo schermo più grande ci permette, ancora una volta, di aprire una finestra non su una singola contingenza, ma su di un mondo più ampio: attraverso l’utilizzo – sia astratto che concreto – dei volti, miriamo a dare al Coro un oggetto di cui parlare e, allo stesso tempo, a estendere quella collettività stessa.
Rispetto alla domanda precedente, non c’è solo il recupero della parola, ma anche del canto – uno degli elementi che Anagoor ha sempre indagato. Entrambi ritornano qui, utili a intessere un unico grande canto della memoria, che è quello a cui più tenevamo. Marco Menegoni (Anagoor): Infatti questo lavoro è proprio un canto per chi non c’è più.
La scrittura scenica segue un andamento necessario: perché è vero che i due schermi posti sopra alla scena la informano e ne dettano il tempo – lo scandiscono in modo assolutamente freddo, perché sono dispositivi non umani –, ma contemporaneamente compiono il movimento di cui parlavamo prima: un avvicinamento e uno sprofondamento che seguono lo stesso ritmo e la stessa direzione ricreati nello svolgersi delle immagini interne ai testi; un avvicinarsi sempre più, in modo sempre più esplicito, all’oggetto. Lo stesso si può dire per i dialoghi. E, alla fine, si ha un disvelamento inequivocabile. Faccio un esempio: nel primo dialogo si ascoltano i due tedeschi disquisire dell’infinita quantità di etnie che popolano le regioni caucasiche – ci si potrebbe chiedere di che cosa stiamo parlando; nella scena immediatamente successiva viene descritto un sacrificio compiuto migliaia di anni fa. Quindi, come dire, è una consecuzione in cui un medium informa l’altro; e, allo stesso tempo, entrambi precipitano verso un’esplicitazione. Carlotta Tringali (Il tamburo di Kattrin): E poi si ricollegano? Simone Derai (Anagoor): Sì ma non nel senso di una soluzione, nel senso che non si sciolgono l’uno dall’altro, al contrario è come se si intrecciassero insieme.
Roberta Ferraresi (Il tamburo di Kattrin): Infatti è nella sovrapposizione, nel cortocircuito, fra queste narrazioni che si ritorna appieno al tema originario. Volevo chiedervi anche qualcosa sulla memoria: come il dispositivo della rappresentazione agisce sugli elementi che vengono estratti dall’immaginario per partecipare alla forma scenica? Moreno Callegari (Anagoor): Come rientrano poi i singoli elementi? Roberta Ferraresi (Il tamburo di Kattrin): Faccio un esempio concreto. Le ghirlande che vengono intrecciate e poi poste sul capo: è un elemento che viene selezionato per? Affinità? Assonanza? Moreno Callegari (Anagoor): Di certo un elemento conduce all’altro, perché il sacrificio conduce alla corona di fiori… Simone Derai (Anagoor): …quindi alla ritualità, alla decorazione rituale… Moreno Callegari (Anagoor): …così come al racconto di Marco, quello dei rametti finti delle macellerie… Simone Derai (Anagoor): Compare Ifigenia e l’idea che se ne ha, classicamente, è di una ragazza incoronata all’altare, pronta ad offrire il collo. In questo caso il prepararsi da sé la corona è un collettivo preparare la decorazione per un lutto – chiaramente non il proprio –, poi la si indossa, per infine rifiutarla. Oggi “olocausto” si usa meno, perché “shoah” è ben più chiarificatore, anche rispetto a una disposizione d’animo di chi ha subito questa offesa: “olocausto” rimanda a un’idea di sacrificio giusto. Così, da un punto di vista molto letterale, c’è un rifiuto dell’idea di sacrificio, è una presa di posizione netta; ma anche, da un punto di vista invece meta-teatrale, un assumersi la responsabilità della memoria altrui, “mettersi nei panni di”: è un gioco molto infantile, un’idea di teatro in cui, sostanzialmente, ci si fa fantasmi. Roberto Rinaldi (Rumorscena): Per curiosità: la scena finale del cervo che si guarda intorno, che non ha paura… Moreno Callegari (Anagoor): In quel momento è anche solo di fronte a una selva di microfoni. Simone Derai (Anagoor): E di fronte a un mirino… Moreno Callegari (Anagoor): …quello della telecamera. Roberto Rinaldi (Rumorscena): Dove l’avete filmato? Simone Derai (Anagoor): Siamo stati tre giorni sulle Dolomiti. Era quasi il tramonto, stavamo scendendo, avevamo già caricato quasi tutto in macchina ed è sbucato fuori dal bosco… C’era anche il desiderio di chiudere il cerchio, in modo non esplicito, rispetto a Ifigenia. All’inizio, lo schermo centrale doveva portare il volto del cacciatore: l’idea era quella di creare una sorta di processo, di grande tribunale. Invece, spostando ancora una volta lo sguardo, quello è diventato il luogo del molteplice volto della vittima. Moreno Callegari (Anagoor): Tanto più che Euripide… Simone Derai (Anagoor): …in Euripide un nunzio tranquillizza Clitemnestra, dicendo che la dea ha sostituito Ifigenia con un cervo. Clitemnestra chiude dicendo: “E io devo crederci?”. Oggi noi forse riformuleremo la domanda: pensare che avvenga questa sostituzione ci sta bene? Ci consola?
Qualcuno ci ha anche chiesto se questa chiusura non sia troppo animalista. Io credo che siamo in una fase della storia in cui forse possiamo fare un passo ulteriore di coscienza: le divisioni non sono soltanto fra gruppi di esseri umani, e c’è sempre qualcuno sotto di noi – ad esempio gli animali –, il resto del pianeta sta sempre a nostra disposizione. Questo era anche il tema centrale di Tempesta: il predominio – sentirsi autorizzati e legittimati a credersi i re del mondo. Il cervo finale ci permette di spostare ancora una volta il limite e mantenere un’ulteriore fascia di mondo all’interno del cerchio collettivo o del cuore e, in questo caso specifico, di questo lavoro teatrale, dove la dimensione animale e quella umana sono sempre intrecciate.
Caffé dei Libri, uno degli angoli più belli e tranquilli di una Bassano in fermento (il sabato pomeriggio delle passeggiate, il boom di Infart e la conclusione di B.Motion), a pochi passi dal fiume e dalla folla che sembra invadere la città. Qui, l’appuntamento con inQuanto teatro, giovane compagnia formatasi l’anno scorso nei pressi di OperaEstate (complice il progetto dell’Attore Performativo) e reduce dalle finali del Premio Scenario con Nil Admirari (che le è valso una menzione speciale da parte della giuria). I suoi componenti sono di nuovo a Bassano certo per presentare proprio quei venti minuti di studio, ma anche per una residenza in cui stanno sviluppando ulteriormente quello stesso lavoro: hanno accompagnato la nostra permanenza fin dal primo giorno, dalle colazioni assonnate alle serate interminabili, dalle chiacchiere pomeridiane in qualche pausa nel giardino di Palazzo Bonaguro alle discussioni più intense su quello che si è visto ogni sera in scena.
Floor Robert, Giacomo Bogani e Andrea Falcone (il quarto, Matteo Balbo, non è potuto esserci) ci aspettano al tavolino più appartato del caffè. Arriviamo un po’ in ritardo, di corsa, facendoci spazio sul Ponte fra raggruppamenti di personaggi molto molto urban-street e assembramenti di alpini in visita. Siamo qui per parlare di teatro e di ricerca, di com’è nato Nil Admirari e, soprattutto, di come sta crescendo.
Simone Nebbia: Come prima cosa volevamo chiedervi com’è iniziato tutto, quando avete capito che il progetto era nato?
Andrea Falcone: Accade come un colpo di fortuna, te ne accorgi a cose fatte: un blocco di ghiaccio che prima era acqua… è successo qualcosa di eclatante, ma non sapresti dire quando… Si può dire che il lavoro che sperimentiamo sia quasi combinatorio: come nella chimica, la reazione può andare ben al di là delle aspettative, di quello che ognuno di noi singolarmente ha portato al gruppo.
In questi giorni questa domanda ci è stata posta più volte. E ci ha messo un po’ in difficoltà, perché non abbiamo iniziato – e questo non è un caso: ci rispecchia molto – da un pensiero, ma da un’immagine che ci parlava. Questo in qualche modo è quello che facciamo anche per costruire le scene: condividiamo un’immagine di cui non abbiamo una spiegazione e di cui non vogliamo dare una narrazione, ma cerchiamo di ricrearla, di farla vivere, di esplorarla. E di mantenere intatto quanto più possibile il senso dell’equivoco e di instabilità… F.R.: …di fragilità e di umanità… A.F.: Questa è la nostra idea di storia, di passato, di realtà che portiamo in Nil Admirari: l’atto di ricordare è qualcosa che si fa aggiungendo pezzi e reinventando qualcosa, piuttosto che rimanendo fedeli a una realtà. Questo è il nostro modo di costruire queste scene ed è il modo che stiamo esplorando anche qui a Bassano, perché il frammento scenico che abbiamo portato è esito di una ricerca, ma non ne era l’obiettivo: Nil Admirari non è uno spettacolo, ma piuttosto lo specchio di quello che stiamo elaborando e lavorando.
Roberta Ferraresi: Ci volete svelare qual è questa immagine?
A.F.: “C’è una stanza vuota…” – addirittura nei primi cinque minuti di lavoro che abbiamo presentato al Premio Scenario, iniziavamo dicendola, descrivendola… F.R.: Ma nel processo di creazione, poi, questo pezzo è stato eliminato. È uno scarto importante quando, lavorando a un progetto, apparentemente si perdono gli elementi forti; ma per te rimangono e così possono diventare altro. A.F.: Comunque si tratta di una fotografia di Robert e Shana Parkeharrison: è un interno completamente ricolmo d’acqua in cui affiorano oggetti o parti di oggetti con una calma innaturale. G.B.: È una fotografia che non cattura il frammento o il momento, ma dà l’impressione dell’attesa, che ci sia qualcosa che è successo, che sta lì e galleggia… F.R.: Qualcosa di catastrofico è successo, e da lì partiamo, senza però ricordare il passato… Come aprire un libro a metà e cominciare a leggerlo da lì, che è la situazione in cui ci troviamo, quello che siamo. A.F.: Fantasticando su questa immagine di allagamento abbiamo iniziato a cercare dei materiali che ci permettessero di ricrearla, tra cui il tappeto specchiante che ancora usiamo. E poi, via via, ci siamo accorti che stavamo facendo vivere quell’immagine senza bisogno di realizzarla. Ad esempio, la presenza della finestra si è trasformata in una specie di schermo (che, invece di aprire, blocca l’orizzonte, riflettendo la nostra ombra e i nostri movimenti) e l’idea di una superficie permeabile in cui gli oggetti affiorano è mutata in un pavimento che, coprendo il palcoscenico, lo trancia…
S.N.: Parlando del vostro lavoro tornano spesso idee legate alla storia, ai ricordi, alla memoria… Cosa v’ha fatto il passato?
F.R.: Il passato è una cosa che ci dice molto… A.F.: Il nostro passato è molto presente. Sovvertendo la celebre sentenza sartriana “Io sono il mio passato”: noi non siamo il nostro passato, perché a livello collettivo è qualcosa di impersonale e a ben vedere fasullo, che viene inventato volta per volta. A livello culturale, godiamo della vita in città d’arte meravigliose, come Firenze o Bassano; e vediamo che gli spazi per il passato aumentano, vengono nuovamente inventati, vengono scoperti quartieri medievali, mesi medicei quando anche di Medici non ce n’è più traccia… Dante a Firenze ha tre o quattro case, noi in tre o quattro non ne abbiamo una. Questo intendiamo per passato: una creatura che viene creata ed è accanto a noi, con cui abbiamo a che fare. Questa operazione di affastellare, di comporre questa specie di mostro – da qui il titolo del nostro secondo pezzo, Monstrum – ci diverte ed è quello che anche noi vogliamo fare in scena. F.R.: Ed è quello che stiamo facendo in questi giorni qui a Bassano. Stiamo prendendo questo passato e lo stiamo facendo diventare una cosa che chiamiamo Monstrum, qualcosa di incredibilmente lontano da noi, di diverso, di vivo… che ci spaventa. A.F.: L’anacronismo, l’avvicinamento, la moltiplicazione… G.B.: Il passato che diventa una replica, una copia…
R.F.: E invece dove state cercando di andare?
F.R.: Ora siamo arrivati a parlare di Monstrum... A.F.: …che è il nostro secondo frammento…
R.F.: Quindi Nil Admirari non è il nome del progetto, ma del primo frammento? A.F.: Abbiamo deciso che Nil Admirari è sia il progetto che il primo studio, anche perché è un frammento che contiene un po’ tutti i nodi sui quali vogliamo lavorare: c’è una realtà di noi, quattro giovani, che si preparano per il loro presente, lo aspettano, e invece vengono sopraffatti da oggetti e storie del passato… anzi, vere e proprie scorie, che non sanno come gestire. E alla fine scompaiono, lasciando solo questo agglomerato di oggetti ed effetti che rimangono con lo spettatore.
Poi abbiamo deciso, più per il lavoro che vogliamo fare che con un’idea di marketing, di presentare in altre due tappe degli elementi separati: in uno, Monstrum, c’è l’apparizione di un passato inventato e ingombrante, con tutte le sue manifestazioni di anacronismo, di sincronia, di stranezza; e nell’altro, Tabula rasa, rimaniamo soli con la nostra realtà di vuoto, di ricerca di qualcosa, di un appiglio, di una concretezza che – mancando queste illusioni, queste chiacchiere del passato, questi elettrodomestici, questi sogni che riempiono invece gli altri due studi – vogliamo scoprire dove può portare. G.B.: E poi ci siamo tenuti sempre, con questa tipologia del frammento, la possibilità di ricombinarli: sappiamo bene che Monstrum arriva a un certo momento di Nil Admirari, del primo frammento… F.R.: Bisogna esaurire delle idee, così poi possiamo farne a meno. Questo è il metodo di creazione. La possibilità di poter presentare i due studi slegati ci dà l’opportunità di mettere in campo delle cose e vedere se funzionano, sperimentare e scoprire, tenere o lasciare… A.F.: E in una combinatoria finale presenteremo – non si sa ancora dove e quando – Nil Admirari completo.
R.F.: Ma se il processo di lavoro è collettivo, siete tutti in scena, com’è possibile mantenere uno sguardo sull’andamento del lavoro?
F.R.: È successo che qualcuno venga a vederci, ma già quando siamo a un livello da farci vedere. Chiaramente abbiamo la videocamera… G.B.: Che usiamo però poco… E anche qui, solo quando abbiamo già tante cose montate. F.R.: Quando abbiamo cose che secondo noi funzionano già. Abbiamo comunque dei momenti in cui uno si può tirare fuori e osservare l’altro e dire, digerire… Ah, scusate: dirigere. E questa comunque è una forma ancora un po’ caotica… A.F.: …da perfezionare. G.B.: La cosa importante da dire è che ci piace confrontarci. A.F.: Infatti, abbiamo diverse cose in mente per migliorare e perfezionare questa forma di lavoro collettivo da sottoporre a un pensiero o a una “digestione” esterna. Una che ci piacerebbe molto e che abbiamo vorremmo inziare a provare è quella di intraprendere delle collaborazioni anche brevi in cui enti o gruppi teatrali ci offrono non solo lo spazio ma anche uno sguardo. Perché è molto interessante un contatto tra le compagnie nel momento in cui stai lavorando in modo completamente aperto, anche fragile… F.R.: È una cosa che manca un po’ nell’ambito teatrale, mentre nella danza c’è. A.F.: Ci sono molti gruppi, anche che sono stati qui, con cui ci piacerebbe avere questo tipo di scambio e di contatto. Ora cominceremo con Kinkaleri, che è un gruppo che ha una storia e… F.R.: …una cifra estetica che… G.B.: …che sentiamo abbastanza vicina… F.R.: Come l’interesse verso i materiali, che per noi ha un ruolo molto importante: la plastica, questo grigio molto presente… A.F.: E poi l’agire in scena una partitura visiva degli oggetti, in cui c’è una drammaturgia fra un oggetto e l’altro e un percorso visivo, una specie di mappa… F.R.: Le tracce che vengono lasciate… A.F.: E, a pensarci bene, è questa l’opportunità di OperaEstate: uno spazio che quasi naturalmente, senza neanche che l’avessimo pensato, offre la possibilità di uno scambio abbastanza continuo fra artisti: quest’anno Chiara Bersani e Sara Vilardo, qui con un primo studio, è bello poterci parlare… O con il gruppo foscarini:nardin:d’agostin…
Roberta Ferraresi / Simone Nebbia
Andrea Falcone: Accade così, come un colpo di fortuna, te ne accorgi così, a cose fatte: un blocco di ghiaccio che prima era acqua… è successo qualcosa di eclatante, ma non sapresti dire quando… E noi siccome è molto che parliamo tra di noi, ci incrociamo – non tutti assieme: due a due, tre, quattro – e di conseguenza quando alla fine arriviamo tutti e 4 sulla stessa idea c’è stato un lavoro lungo prima di arrivare a quel punto. Anche perché questo ha influenzato il nostro modo nostro di lavorare, che è sì in scena un collettivo, quindi ognuno si mette in gioco e cerca di proporre agli altri qualcosa su cui incontrarsi, delle sfide… Ma queste sfide che ci lanciamo sono già articolate quando arriviamo alla scena, perché ci arriviamo dopo un lungo periodo in cui ognuno di noi pensa, parla, ricerca… Alla fine il lavoro che facciamo è quasi combinatorio… Come nella chimica, la reazione può andare ben al di là delle aspettative, di quello che ognuno di noi singolarmente si era portato Giacomo Bogani: Diciamo che di solito le idee che portiamo sono grandiose, sono enormi. Le presentiamo in sala e lì ci guardiamo negli occhi spesso e viene subito il no. Floor Robert: E questo è un modo in cui lavoriamo spesso molto volentieri. Però poi si presenta anche quello invece dell’improvvisazione, che lì per lì in sala non si sa perché, che siamo magari stanchissimi o anche nel cazzeggio… però lì viene a galla qualcosa che ci convince tutti moltissimo A.F.: Da momenti anche ludici, ma di ludismo scelto e consapevole, tante cose poi si sono unite a un’idea più pensata
Simone Nebbia: Quindi lo spazio scenico è giudice, nel bene o nel male: accoglie o respinge… A.F.: Sì, noi arriviamo come supplicanti con carovane di cose sulla scena – che per lungo tempo è stata una stanzetta privata, poi una palestra di Rifredi… F.R: Siamo stati al Garage Nardini che non era male G.B.: Al Teatro Astra F.R.: E ora andremo Prato che è un po’ più vicino A.F.: Per rimanere ancora sui nostri punti di partenza, che è una cosa che in questi giorni ci è stata chiesta più volte e che ci mette quasi in difficoltà, perché non abbiamo iniziato – e questo non è un caso: ci rispecchia molto – da un pensiero, ma da un’immagine di cui non avevamo idea ma che ci parlava. E questo in qualche modo è quello che facciamo anche in scena per costruire le scene: condividiamo un’immagine di cui non abbiamo una spiegazione e di cui non vogliamo dare una narrazione, ma cerchiamo di ricrearla, di farla vivere, di esplorarla. E di mantenere intatto quanto più possibile il senso dell’equivoco e di instabilità… F.R.: Di fragilità e di umanità… A.F.: E questa è la nostra idea di storia, di passato, di realtà che portiamo in Nil Admirari: l’atto di ricordare è qualcosa che si fa aggiungendo pezzi e reinventando qualcosa, piuttosto che essendo fedeli a una realtà. Questo è il nostro modo di costruire queste scene in scena; ed è il modo che stiamo esplorando anche qui a Bassano, perché il frammento scenico che abbiamo portato è esito di una ricerca ma non era il suo obiettivo: non è uno spettacolo, ma piuttosto lo specchio di quello che stiamo elaborando e lavorando.
S. N.: Un po’ una messa in campo di elementi su cui volete lavorare. Quello che percepivo come impronta collettiva di alcune esperienze di questi giorni e anche nel vostro caso è di una macchinazione drammaturgica un po’ farraginosa di costruzione. Anche perché non vi credevo completamente: avevo l’impressione che dobbiate diventare ineccepibili tecnicamente… A.F.: Questo è un fatto difficile da affrontare, perché quello che ci interessa è mantenere un senso straniante… F.R.: E forse è quello che non vogliamo A.F: Però dobbiamo essere certi nel non volerlo: c’è una tecnica, un’abilità che dobbiamo maturare. Però il fatto di stare ricercando una qualità che ci permetta di non ignorare l’equivoco, anzi, di accompagnarlo verso lo spettatore. È quello che facciamo portando in scena oggetti ingombranti, anacronistici rispetto a quello che diciamo; utopie che sono storie esagerate, anche quelle in qualche modo ingombranti… non fingendo neanche noi che sia tutto naturale e scontato, perché è una chiave di lettura che cerchiamo di maturare rispetto alla realtà che ci circonda, che è piena di cose che sembrano le più naturali del mondo ma non lo sono. F.R.: Anche semplicemente osservarlo: metterlo lì e poi osservarlo A.F.: E forse questo richiede ancora più tecnica di quella che ci vorrebbe a fare una cosa in modo perfetto. Quindi, sì, ci vuole parecchio lavoro.
R.F.: Un passo indietro, ci volete svelare qual è l’immagine… A.F.: Addirittura nei cinque minuti iniziavamo dicendola a grandi line: “c’è una stanza vuota…” F.R.: Ma nella creazione poi è anche bello quando perdi gli elementi forti ma per te rimane e diventa altro A.F.: È una fotografia di un interno completamente ricolmo d’acqua in cui affiorano oggetti o parti di oggetti, con una calma innaturale. Addirittura ci siamo ispirati ad un’immagine in cui si intravvede anche qualcosa di umano, un corpo, ma ha una consistenza che non sembra più umano. E da questa immagine… G.B.: Una fotografia con un senso: non cattura il frammento, il momento, ma dà l’impressione dell’attesa, che ci sia qualcosa che è successo, che sta lì che galleggia A.F.: La fotografia è ferma, ma rappresenta una realtà che è anch’essa ferma… F.R.: Qualcosa di catastrofico è successo, e da lì partiamo, senza però ricordare il passato… Come aprire un libro a metà e partire da lì, che è come noi siamo. Noi che veniamo da un passato, da Firenze, dai ricordi, da un desiderio di volersi identificare con il tempo di ora, ma ci si accorge che magari non gli basta, non gli piace… A.F.: Fantasticando da questa immagine di allagamento abbiamo iniziato a conoscere dei materiali che ci permettessero di farlo, tra cui il tappeto specchiante che ancora usiamo. E poi via via lavorando ci siamo accorti che questa immagine la stavamo facendo vivere senza bisogno di realizzarla. Quindi il fatto che ci fosse una finestra è ritornato con una specie di schermo che invece di aprire, ci blocca l’orizzonte riflette la nostra ombra e noi stessi quando ci muoviamo. L’idea di una superficie permeabile in cui gli oggetti affiorano è cambiata con questa superficie che trancia, che copre il palcoscenico, che sembra forse un liquido in cui forse si può entrare ma che noi continuiamo ad attraversare.
S.N.: Cosa v’ha fatto il passato? F.R.: Il passato è una cosa che ci dice molto… A.F.: È molto presente. Sovvertendo la sentenza conosciuta “Io sono il mio passato”, che era Sartre: noi non siamo il nostro passato, perché a livello collettivo è qualcosa di impersonale e a ben vedere fasullo, che viene inventato nel momento in cui ci siamo. A livello culturale, noi che godiamo della vita in città d’arte meravigliose, anche Bassano, viviamo di questo. (portano il caffè)
Vediamo che gli spazi per il passato aumentano, vengono nuovamente inventati, vengono scoperti quartieri medievali dove ormai non ce n’è più traccia, mesi medicei quando anche di Medici non ce n’è più traccia… Dante a Firenze ha tre o quattro case, noi in tre o quattro non ne abbiamo una. Questo intendiamo per passato: una creatura che viene creata ed è accanto a noi, con cui abbiamo a che fare. Questa operazione di affastellare, di comporre questa specie di mostro – da qui il titolo del nostro secondo pezzo, Monstrum – ci diverte ed è quello che anche noi vogliamo fare in scena. F.R.: Ed è quello che stiamo facendo in questi giorni qui a Bassano. Stiamo prendendo questo passato e lo stiamo facendo diventare una cosa che chiamiamo Monstrum, qualcosa di incredibilmente lontano da noi, di diverso, di vivo… però ci spaventa. A.F.: L’anacronismo, l’avvicinamento, la moltiplicazione… G.B.: Il passato che diventa una replica, una copia… A.F.: Aver parlato con Claudio Angelini di Città di Ebla ci ha molto aiutato perché erano argomenti su cui stavamo pensando e sentirli espressi così bene ci ha permesso di riformulare alcune cose. F.R.: Si diceva che il passato era parte attiva A.F.: Sì, Mauro Petruzziello diceva che il ricordo è qualcosa che incombe e minaccia e cambia la realtà. Questo è anche per noi; mentre nel lavoro di Città di Ebla c’era una fotografia che bloccava una realtà in corso nello stesso momento in cui la realtà c’era e costituiva una sorta di doppio mostruoso della realtà stessa, perché era qualcosa di immobile. Era una specie di presenza che rendeva la cosa inquietante. Cerchiamo di indagare con Monstrum questa possibilità di sdoppiarci e di avere una memoria fittizia di noi con cui avere un conflitto.
R.F.: Modo di lavorare, quello che fate… G.B.: Decidiamo giorno per giorno come lavoriamo, anche rispetto a come ci sentiamo. F.R.: Lavoriamo insieme da un anno e possiamo dire che ora finalmente stiamo capendo un po’ com’è fatto l’altro e come fare per lavorare con l’altro. Ci siamo spaventati molto, ci siamo agitati tanto e così ci siamo anche dati dei limiti. A.F.: In realtà ci diamo un tempo e uno spazio per lavorare su delle cose che però non sono spesso discorsi o idee. Ma molto spesso oggetti o esercizi anche meccanici che sono alla base di una improvvisazione o di una sperimentazione. Ad esempio ieri abbiamo avuto questa enorme gonna di vinile e abbiamo iniziato a lavorarci, creando delle figure mostruose, multiple… E da lì è iniziato un lavoro sul testo e sulla voce… F.R.: …che Andrea aveva preparato. Perché c’è sempre la preparazione del testo. G.B.: Andrea fa una ricerca sul testo, su delle cose che possono entrare… F.R.: …che vengono introdotte, vengono lette insieme, vengono capite fino a un certo punto e poi nella prova – dove può esserci l’elemento della gonna o dello sparavento, che stiamo semplicemente esplorando… E poi scopri che sopra questo ci può anche entrare il testo. Capiamo come… G.B.: Un testo che è già stato pensato e scritto in una forma da Andrea. A.F.: Con i testi abbiamo per ora questa modalità, che credo poi cambierà ed è già cambiata: li usiamo come risorsa, io li preparo solo di riferimento, di ispirazione… A volte sono brevi biografie, descrizioni per avvicinarci alle immagini o all’argomento che vogliamo lavorare. O a volte diventano poi parte dello spettacolo. Dipende da quello che succede nella combinazione.
R.F.: In che modo è cambiata? A.F.: Quello che abbiamo deciso di richiedere al mio lavoro è più di scrivere apposta per una scena, cioè dei testi che già da soli portano l’elemento centrale, il perno di una scena, perché sono testi da dire al pubblico, come ce ne sono stati tanti esempi in questo B.Motion… Un testo di Babilonia Teatri, un testo di…
F.R.: Luca Scarlini! G.B.: Come mai hai detto Luca Scarlini? F.R.: Perché mi stavo ricordando anche che a volte entra anche nella nostra giornata di prove degli esercizi che abbiamo appreso da altri. Ed è super utile, perché così il gruppo lavora su un ascolto maggiore, su una consapevolezza maggiore dell’altro e di se stesso. G.B.: Ci sono dei giorni che lavoriamo molto su cose fisiche F.R.: E altri che ci concentriamo sulla voce G.B.: e sull’ascolto. Anche senza dirci niente: qualcuno di noi comincia a cantare e andiamo avanti così. Ad esempio la canzone che c’è in scena è nata così… Anche se lì in verità eravamo in macchina… abbiamo cominciato a cantare e non ci siamo fermati per quattro ore. A.F.: La macchina è un luogo creativo molto importante… G.B.: Per eccellenza F.R.: Perché facciamo molte residenze lontane… A.F.: E andiamo a vedere tanti spettacoli… È uno di quei momenti che ci costringe a stare insieme, concentrati a sopportarci completamente per 3 o 4 ore. E quindi si deve per passare il tempo parlare, affrontare le idee, confrontarci… Magari dopo un mese che ognuno ha degli impegni paralleli che l’hanno distratto, distolto o portato lontano.
R.F.: E invece dove state cercando di andare? F.R.: Vogliamo fare uno spettacolo di due ore… G.B.: Due ore no, però più di un’ora di sicuro: vogliamo un pochino sovvertire o un po’ cambiare questa cosa che c’è, che sono sempre tutti piccoli spettacoli, 50 minuti – 45… Ci piace anche la possibilità che a teatro le persone possano stare lì, anche un po’ annoiarsi F.R.: Secondo me uno spettacolo è bello… A.F.: …quando ha una vita… F.R.: Sì, quando mi dà la possibilità di potermi staccare…
R.F.: È una qualità del tempo, un trattamento, più che una durata… A.F.: Sì, una qualità che nella lunga durata è più facile o più giusto realizzare a pieno. Comunque la varietà, la qualità, la sovrapposizione, il tempo del tempo sono nodi che ci interessano molto, sia come tema che come caratteristica del linguaggio.
F.R.: Ora siamo arrivati a parlare di Monstrum... A.F.: …che è il nostro secondo frammento…
R.F.: Quindi Nil Admirari non è il nome del progetto, ma del primo frammento? G.B.: Nil Admirari è il nome del progetto… F.R.: …che abbiamo dovuto presentare a Scenario in 20 minuti… A.F.: Abbiamo deciso che Nil Admirari è sia il progetto che il primo frammento. Anche perché è un frammento che contiene un po’ tutti i nodi sui quali vogliamo lavorare. C’è una realtà di noi, noi 4, giovani che aspettano e si preparano per il loro presente e invece ripescano, vengono sopraffatti da oggetti e storie del passato… Anzi vere e proprie scorie che non sanno come gestire e alla fine scompaiono lasciando solo questo agglomerato di cose ed effetti che rimangono con lo spettatore. Poi abbiamo deciso, più per il lavoro che vogliamo fare che con un’idea di marketing, di presentare in altre due tappe gli elementi separati: in uno, Monstrum, l’apparizione di questo passato inventato e ingombrante, con tutte le sue manifestazioni di anacronismo, di sincronia, di stranezza; e nell’altro, Tabula rasa, rimanere soli con la nostra realtà di vuoto, di ricerca di qualcosa, di un appiglio, di una concretezza che mancando queste illusioni, queste chiacchiere del passato, questi elettrodomestici, questi sogni che riempiono invece gli altri due studi, vogliamo scoprire dove può portare. Abbiamo già alcune idee ma va lavorato bene in una residenza ad hoc futura. Perché se per Monstrum abbiamo già fissato sia i giorni di lavoro (che sono già iniziati qui a OperaEstate e poi continueranno allo Spazio K agli Ex Macelli a Prato) sia il momento d’apertura, che sarà durante Contemporanea di Prato e Fermenti di Parma; per Tabula rasa abbiamo il progetto aperto, ma non abbiamo ancora stabilito… G.B.: E poi ci siamo tenuti sempre, con questa tipologia del frammento, la possibilità di ricombinarli: sappiamo bene che Monstrum arriva a un certo momento di Nil Admirari, del primo frammento… F.R.: Bisogna esaurire delle idee, così poi possiamo farne a meno. Questo è il metodo di creazione. Avendo la possibilità di poter presentare i due studi slegati ci dà l’opportunità di mettere in campo delle cose e vedere se funzionano, sperimentare e scoprire, tenere o lasciare… A.F.: E in una combinatoria finale presenteremo, non si sa ancora dove e quando Nil Admirari completo.
R.F.: Voi dite mettiamo dfei mateirali e vediamo se funzionano; ma siete tutti in scena. Come si fa? Invitare qualcuno a vedere le prove? F.R.: È successo che qualcuno venga a vederci, ma già quando siamo a un livello da farci vedere. Chiaramente abbiamo la videocamera… G.B.: Che usiamo però poco… Solo quando abbiamo già tante cose montate. F.R.: Quando abbiamo cose che secondo noi funzionano già. Abbiamo comunque dei momenti in cui uno si può tirare fuori e osservare l’altro e dire, digerire… Ah, scusate: dirigere. E questa comunque è una forma ancora un po’ caotica A.F.: da perfezionare G.B.: La cosa importante da dire è che ci piace confrontarci A.F.: Infatti, in questa forma da perfezionare di lavoro collettivo da sottoporre a un pensiero o a una “digestione” esterna, abbiamo diverse cose in mente per migliorarlo. Una che ci piacerebbe molto e che abbiamo iniziato a mettere le condizioni per farlo è intraprendere delle collaborazioni anche brevi in cui enti o gruppi teatrali ci offrono non solo lo spazio ma anche uno sguardo. Perché è molto interessante un contatto tra le compagnie nel momento in cui stai lavorando in modo completamente aperto, anche fragile… F.R.: È una cosa che manca un po’ nell’ambito teatrale, mentre nella danza c’è. A.F.: Ci sono molti gruppi, anche che sono stati qui, con cui ci piacerebbe avere questo tipo di scambio e di contatto. Ora cominceremo con Kinkaleri, che è un gruppo che ha una storia e… F.R.: …una cifra estetica che… G.B.: …che sentiamo abbastanza vicina… F.R.: Come l’interesse verso i materiali, che per noi ha un ruolo molto importante: la plastica, questo grigio molto presente… A.F.: E poi l’agire in scena una partitura visiva degli oggetti, in cui c’è una drammaturgia fra un oggetto e l’altro e un percorso visivo, una specie di mappa… F.R.: Le tracce che vengono lasciate… A.F.: Questo ci piace molto, ma c’è anche in lavori di altri gruppi importanti, come Motus o Anagoor. E però OperaEstate questo offre: uno spazio quasi naturalmente, senza neanche che l’avessimo pensato, la possibilità di uno scambio abbastanza continuo e naturale fra artisti: quest’anno Chiara Bersani e Sara Vilardo, qui con un primo studio, è bello poterci parlare… O con il gruppo foscarini:nardin:d’agostin… F.R.: …che abbiamo seguito dai loro cinque minuti a Vicenza…