Sul palco del Teatro Secci, un’ora prima dello spettacolo del 2 novembre, ci sono solo un’asta e un microfono. La scenografia non deve essere allestita, l’interprete non deve sottoporsi a una seduta di trucco e parrucco, né indossare pesanti costumi. Andrà in scena da solo, con l’unico accompagnamento dei suoni, con l’ausilio di alcune registrazioni, e con la forza delle sue parole, quelle cui ci ha abituato in questi anni. Al pubblico di Umbria Libri – per il secondo anno a Terni in collaborazione con il Comune e con Indisciplinarte – Ascanio Celestini presenta Discorsi alla Nazione – studio per uno spettacolo presidenziale. Sono prove di orazioni per aspiranti tiranni, pronti a evitare la menzogna, disposti a dire la verità. Camuffati da leader democratici, i despoti di oggi si affacciano a un balcone che possiamo solo immaginare, sul quale ci si può mostrare ma non rivelare. Uno spaccato del nostro tempo, ma non solo della nostra storia. Un confronto con ciò che eravamo, perché la memoria è ingrediente essenziale del teatro di Celestini, uno squarcio su un panorama politico irreale, ipotetico, utopico. Come racconta, seduto a bordo palco, l’attore romano, con una quantità di parole, esempi e metafore difficile da restituire, impossibile da riassumere. Riportiamo alcuni pensieri sullo spettacolo, alcune considerazioni sul potere, alcune riflessioni sul teatro di narrazione.
«Con questo nuovo studio, che è stato proposto durante l’estate, spesso all’aperto, e che sarà presentato sicuramente a maggio a Roma, ma forse in anteprima a fine aprile, mostro lo strappo nel cielo di carta, rivelo la volgarità del fare politica, immagino tiranni che rischiano di essere fucilati perché dicono la verità. Sono prove per Discorsi alla Nazione, ma forse il titolo definitivo non sarà questo».
Sull’essere leader
«Oggi i partiti fanno marketing, sono aziende, hanno il logo come le aziende, e non possono dire determinate cose. Anche chi è in buona fede diventa un frontman, si trasforma in un marchio. Gli uomini politici mentono e si prendono gioco di noi ogni giorno, ci fanno il lavaggio del cervello. Non dicono mai quello che pensano e fanno apparire ciò che dicono come l’unica cosa possibile.
A mio avviso, invece, non c’è un’unica possibilità. Ma credo anche che non siamo in grado di abbattere il sistema, le rivoluzioni non si fanno da un giorno all’altro».
Iniziare dal basso
«Bisognerebbe arrivare all’anarchia, quella per cui nessuno ha bisogno di leggi perché le autorità si autoregolamentano. E bisognerebbe lavorare sui territori, fare politica sui territori. A Ciampino, ad esempio, ci sono troppi voli. Siamo sicuri che serva davvero un volo a 24 euro per Dublino? È necessario domandarsi quanto costa in senso generale alla comunità».
Dal manicomio ai palazzi della politica
«Non è che io voglia parlare per forza dei reclusi, è che l’individuo macerato ha un livello di umanità più leggibile. Non ha difese, mi racconta di più dell’essere umano, mi appartiene di più».
Il teatro di narrazione
«Non credo che esista un genere, non è necessario trovare una definizione, si è parlato di narratori, si parla di narrautori. Di differente c’è che siamo soli in scena, tutti noi, anche io. Ma nei miei spettacoli ci sono comunque dei personaggi».
Il potere dell’immaginazione
«C’è chi sceglie di mostrare gli oggetti, così che lo spettatore ne prenda coscienza, e chi preferisce non metterli sul palco. Io scelgo di usare l’immaginazione, e così alzo la soglia di attenzione del pubblico. Parlo perché immagino le cose, sono le parole che dicono le cose, più lontano sta la cosa meglio è. Non è certo la logica seduttiva, quella della pubblicità, cui siamo abituati. Anche la percezione visiva funziona così: quello che vedi non è mai quello che hai davanti agli occhi, è come entrare in una stalla e percepire prima l’odore della mucca, poi l’odore del latte e poi l’odore dell’erba».
Sulla ripetitività
«Il mio è un testo non imparato a memoria, perciò funziona come l’improvvisazione, come un suono, una dinamica musicale. La ripetitività mi permette di variare il tono, mantenere il ritmo».
Quando il luogo non è importante
«La cornice in cui si svolgono gli spettacoli non è fondamentale, non influisce. È teatro perché si svolge in questi luoghi, il teatro in quanto atto pubblico è sempre atto politico».