chiara guidi

I progetti curatoriali di Màntica 2014

Lucia Amara, teorica del teatro; Giovanni Leghissa, filosofo ed epistemologo; Sonia Massai, studiosa di letteratura inglese ed esperta di teatro shakespeariano; Simone Menegoi, critico e curatore d’arte; Sandro Pascucci, filosofo di estetica della musica; Enrico Pitozzi, teorico della corporeità e del movimento. Sono loro i protagonisti di Màntica, l’ultima edizione del festival di ricerca teatrale e musicale diretto da Chiara Guidi, che si è svolto dal 4 al 10 dicembre al Teatro Comandini di Cesena.

Studiosi, filosofi e critici sono stati chiamati per mettere in luce la complessità del lavoro artistico, per instaurare un dialogo tra il pubblico e l’opera, nella definizione di un “luogo in cui l’opera d’arte diventi leggibile”. Sono stati inoltre invitati a proporre i nomi di coloro che in seguito, nelle giornate di Màntica, avrebbero “aperto” la loro opera agli spettatori, attraverso proposte laboratoriali, incontri o prove aperte.

Abbiamo cercato di approfondire le “letture” che sono state proposte dai curatori, chiedendo loro come è stato accolto l’invito di Chiara Guidi e come si è sviluppato il progetto curatoriale. Di seguito i contributi ricevuti – in forma scritta – ad opera di Lucia Amara, Sonia Massai, Sandro Pascucci e Enrico Pitozzi.

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Lucia Amara

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Das Spiel (Il Gioco). Un rito di guarigione di Alessandro Bedosti

Con Alessandro Bedosti c’è una lunghissima frequentazione amicale. All’interno di questo recinto intimo, come in tutti i rapporti di amicizia, si muovono tante cose. Chiara Guidi conosce i modi in cui si sviluppa la nostra relazione di pensiero e per questo ci ha proposto di esseri presenti a Màntica con la stessa modalità. Il dialogo tra me e Alessandro è paritario, nel senso che non ha ruoli definiti a priori (lui l’artista e io il pensatore/teorico) e spesso nasce da esigenze pratiche. Alessandro lavora da anni nella scuola dove insegno Lettere, a Zola Predosa (in provincia di Bologna) e, insieme, abbiamo sviluppato diversi progetti con gli adolescenti, tra cui una Compagnia Teatrale della Scuola, un gruppo di ragazzi che con noi lavora su testi shakespeariani. L’ultimo impegno è stato incentrato su Romeo e Giulietta che imperituramente immortala la condizione dell’adolescente nel rapporto con un adulto non-dialogante e chiuso nei propri protocolli di violenza e imposizione. Gli adolescenti ci pongono domande continue e noi ne facciamo nutrimento del nostro pensiero, cercando di sfuggire agli obiettivi condivisi dalla scuola per ricrearne di nuovi che, poi, danno forma ad altre immagini volutamente spostate in luoghi che vogliamo indagare e che riproponiamo ai ragazzi, anche se non in maniera esplicita. Vige una specie di segreto sui processi sotterranei.
Il dialogo con Alessandro Bedosti si alimenta anche attorno ad un altro nucleo fondamentale, non staccato dalla pedagogia, che è la letteratura. Laddove si crea il vuoto e la sottrazione, luoghi fondamentali della ricerca di Alessandro, il soccorso viene dalla parola letteraria che sostiene e stampella quel possibile scomparimento a cui questo artista spinge con tenacia la sua opera. Per questo l’iscrizione – HO SCELTO IL NULLA – in calce a un quadro descritto ne L’Iguana di Anna Maria Ortese è divenuto per noi un’immagine “curativa”, in un certo qual senso. Ci sono molti libri che hanno “educato” il dialogo tra me e Alessandro. L’Idiota di Dostoevskij è un ormeggio sicuro. Nel caso specifico del lavoro esposto a Màntica, Das Spiel (Il Gioco). Un rito di guarigione, si profila a tratti il Cristo di Holbein, immagine che appare all’Idiota Principe Myskin nella parte centrale del romanzo. Il dipinto raffigura una deposizione adagiata su una tela di due metri di lunghezza e trenta centimetri di altezza: non c’è scampo, non c’è movimento possibile, la fine è una questione di spazi, una cattura ineluttabile. Altri testi letterari di cui ci nutriamo sono i carteggi d’amore tra poeti, come quello tra Rainer Maria Rilke e Lou Salomé o Marina Cvetaeva, tra Paul Celan e Ingeborg Bachman.
Per questo Alessandro ed io abbiamo deciso di non fare una conferenza al pubblico ma di allestire un tavolo sul quale posare questa materia di libri esponendo uno dei luoghi materiali della “nostra cura” e che io ho vegliato durante la permanenza di Alessandro a Màntica. Il pubblico poteva girare attorno o guardare o toccare o, con la lettura, rubare fugacemente uno stralcio. Si tratta di “trovare le parole” – come si dicono Ingeborg Bachman e Paul Celan nel carteggio che li accompagnò tutta la vita.

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Macbeth su Macbeth su Macbeth di Chiara Guidi

Macbeth su Macbeth su Macbeth di Chiara Guidi

Sonia Massai

La mia partecipazione a Màntica è scaturita da una conversazione con Chiara Guidi cominciata nella primavera dell’anno scorso a proposito di Macbeth su Macbeth su Macbeth e poi sviluppata in occasione di un incontro col pubblico dell’Arts and Humanities Festival che si tiene ogni anno al King’s College London in ottobre. Io sono particolarmente affascinata dall’originalità dell’approccio di Macbeth su Macbeth su Macbeth che non esclude, ma anzi rende necessaria, una rilettura attenta del testo Shakespeariano. L’invito a Màntica mi ha consentito di confrontare la mia (ri)lettura dell’opera teatrale e del testo Shakespeariano con le reazioni del pubblico. Le mie domande, mirate a capire cosa avesse suscitato interesse, sorpresa, o stupore, hanno messo in luce la diversità dei “punti d’accesso” all’opera e l’utilità di uno spazio che permetta all’artista, al pubblico, e al critico/curatore di riflettere sui vari livelli di leggibilità dell’opera. Nel momento in cui l’esposizione all’opera diventa occasione per un confronto collettivo, l’interpretazione acquista un valore che va oltre l’ermeneutica poiché trasforma gli spettatori in “comunità interpretative” (Stanley Fish).

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MÀNTICA 2014. Le briciole di Pollicino.
di Sandro Pascucci
Gennaio 2015

Pongo, preliminarmente, una breve riflessione sul (mio) ruolo di curatore, all’interno di una delle sezioni di Màntica 2014 “Stele di Rosetta”. Lo faccio con un esplicito riferimento all’ultimo libro di Giorgio Agamben L’uso dei corpi (Vicenza 2014): “… ciò di cui ci si prende cura è il soggetto stesso delle relazioni di uso con le cose e con gli altri… ciò sembra implicare qualcosa come un circolo… che non conosce soggetto e oggetto, agente e paziente.”

La circolarità dell’incontro tra l’opera di Cage – in contrappunto con i suoni di Bach e Liszt –, la proposta esecutiva compositiva di Fabrizio Ottaviucci (al pianoforte) e Daniele Roccato e il Ludus Gravis Ensemble (ai contrabbassi), l’ascolto ricettivo interpretativo del pubblico (e del curatore) prefigurano uno spazio di comprensione e contemplazione più che dialogico e dialettico, più sincronico che diacronico, più di prossimità che di confronto, più di presenza(e) che di rappresentazione(i).

Daniele Roccato

Daniele Roccato

Ludus Gravis Ensemble

Ludus Gravis Ensemble

Fabrizio Ottaviucci

Fabrizio Ottaviucci

Attraverso Cage – nomen omen –, si apre la gabbia delle convenzioni che spartiscono il campo della creazione tra arti autografiche – la pittura, la poesia, il cinema… – e allografiche – la musica, il teatro, la danza… Così l’esecuzione di una delle pagine del Concerto per Piano e Orchestra (nella versione di 63 fogli mobili per solo pianoforte – lo Steinway gran coda suonato da Ottaviucci nella sala del Conservatorio Maderna (!) ) “eseguibile integralmente o parzialmente in qualsiasi sequenza”; o i Four6 affrontati dai cinque contrabbassisti, ciascuno con il proprio strumento diverso per fattezza e età, assieme al pubblico chiamato ad intervenire per adempiere al dettato dello spartito “per qualsiasi modo di produrre suoni” (nel riverberante salone ottocentesco di Palazzo Ghini): tutto ciò ci riconduce, forse, all’origine autografica di ogni linguaggio artistico (Nelson Goodman), e le scansioni proprie della creazione musicale – la composizione trascritta e codificata e la sua interpretazione – dall’esecutore all’ascoltatore – si riposizionano in uno spazio antigerarchico e antidiacronico, aderendo al suono/i, epifania sensibile dell’esserci, fenomenologia musicale del rapporto io-mondo, del “mio non alibi nell’essere” (Michail Bachtin).

Autografia. Allografia. Omeografia: modulazioni aspettuali e tensive dell’estetica.

Ritorno alla metafora del viaggio (già nel dialogo tra me e Chiara in apertura dell’opuscolo di Màntica 2014), per i molti aspetti significativi che possono riguardare e risuonare inbetwinn l’interpretazione dell’opera d’arte come esperienza estetica. In primo luogo il viaggio presuppone un tragitto, uno spostamento da un punto di partenza all’altro, verso una meta. Meta come approdo sicuro nella misura in cui vi ritroviamo in essa qualcosa che ha a che fare con il nostro luogo di origine (del viaggio). E l’idea di arrivare in un luogo che ci dia sicurezza rinvia ai rischi, agli imprevisti del viaggio, che possono compromettere l’itinerario, fino a portarci a smarrirci. E, infine, il poter raggiungere felicemente la meta che ci siamo dati, implica un sapere, una tecnica, una comune passione.

L’opera d’arte sta all’inizio e alla fine del nostro viaggio perché è essa stessa viaggio; punto di partenza e insieme meta transfigurata attraverso il suo vitale transito ermeneutico; esperienza estetica che è sinonimo di prassi sensibile: “La musica non ha un senso, ma un significato che si svela nel praticarla, nell’usarla… Esperienza, uso, prassi d’autore. E di esecutore. Ma anche, e massimamente, esperienza, uso e prassi di fruitore…, per eccellenza, esperienza collettiva collaborante. Happening” (Edoardo Sanguineti).

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Strata di Maria Donata D'Urso_Foto Laura Arlotti

Strata di Maria Donata D’Urso_Foto Laura Arlotti

Enrico Pitozzi

L’invito da parte di Chiara Guidi è stato per me l’occasione per andare a fondo rispetto ad una direzione che mi appartiene e che ha la forma di un dialogo a più voci, sia con Chiara che con Maria Donata D’Urso, la coreografa da me proposta per Màntica: pensare l’opera secondo una prospettiva aperta, che metta cioè in luce la fitta rete di relazioni che essa instaura con il mondo. Ciò significa tornare – in modo radicale – ad avere una certa sensibilità per le cose impalpabili, che si sottraggono all’economia del commento.
Per fare questo serve un’altra andatura, una condotta nuova, in cui il curatore contribuisce a far emergere – in sintonia con l’artista – il pensiero implicito in ogni opera e che affiora secondo le sue leggi: un pensiero fatto d’immagini, di atmosfere: un pensiero che avvolge.
Per andare in questa direzione è necessario – così si è diramato il progetto curatoriale – condividere con l’artista una sensibilità di visione delle cose, che si esprime anche attraverso una organizzazione comune di momenti laboratorio, in cui l’interno e l’esterno, dell’opera divengono l’oggetto dell’analisi.

È qui che l’opera si fa spazio affettivo capace di trascendere chi l’ha creata. Affiora dal tessuto del mondo per farci vedere in modo nuovo ciò che abbiamo da sempre sotto gli occhi.
Ciò afferma con forza un principio: oltre alla distanza che esiste tra noi (curatori o spettatori poco importa) e l’opera, una distanza vissuta – come la chiama Merleau-Ponty – ci collega alle cose che per noi contano davvero, per le quali abbiamo un affetto che non possiamo spiegare a parole, ma solo circoscriverlo per allusioni, rinvii, ellissi. L’opera parla sempre di noi. E della comunità che in essa si aggrega.
Questa distanza incommensurabile – priva di geometria – testimonia in ogni momento la portata della nostra esistenza, dell’esatto punto che occupiamo nel mondo.
O bagliore improvviso che fa vedere le cose, o il nulla.
Credo sia questa, oggi, la sfida alla quale risponde un curatore.
Credo sia questa, oggi, la sfida che ogni spettatore accoglie.

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Màntica 2014: la leggibilità dell’opera d’arte

a cura di Elena Conti

Il Festival Focus Jelinek: una dolce bufera di parole e sguardi

Copertina del Catalogo del Festival Focus Jelinek con un'immagine di Claudio Parmiggiani

Copertina del Catalogo del Festival Focus Jelinek con un’immagine di Claudio Parmiggiani

Il Festival Focus Jelinek è in pieno svolgimento. Iniziato il 7 ottobre a Piacenza, terminerà il 15 marzo a Montescudo (RN) e coprirà un arco temporale di sei mesi, andando a disegnare un percorso in 13 città dell’Emilia Romagna – Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Castel Maggiore, San Lazzaro di Savena, Modena, Bologna, Casalecchio di Reno, Faenza, Forlì, Ravenna, Cesena, Rimini, Montescudo – e coinvolgendo una molteplicità di artisti, studiosi, critici e traduttori. Si tratta di una rete a maglie larghe, una serie di iniziative fitta e coerente, nata dalla mente e dall’operatività culturale della brillante Elena Di Gioia per esplorare l’opera del premio Nobel austriaco Elfriede Jelinek, autrice di romanzi, opere teatrali, sceneggiature. Si susseguono, toccando le varie tappe di questa mappa interattiva, spettacoli, progetti speciali in teatri, festival, biblioteche, scuole e università, proiezioni, letture e un convegno dal titolo happening jelinek che si è svolto il 3 dicembre negli spazi dei Laboratori DMS di Bologna.

“Io cerco di decostruire la realtà. Questa realtà io la faccio ogni volta per così dire a pezzi,
come se separassi a strappi le tende di un sipario,
per rabbia contro il testo che c’è dietro”
.
(Elfriede Jelinek in un’intervista di Renata  Caruzzi, Ein Gespräch mit Elfriede Jelinek,
realizzata per la Società Italiana delle Letterate (SIL), München, novembre 2005)

Scrivere per strappare, decostruire, smontare e rimontare, raccontare, affondare nelle storie e restituirne un’immagine sghemba, per, infine, mostrare i limiti dello strumento-testo, servirsene fino a sfinirlo, fino a farne emergere le incoerenze, a farlo esplodere dall’interno. Ma servirsene, sempre, per addentrarsi nella realtà, scarnificarla, nel tentativo, destinato al fallimento, di ordinarla, pettinarla.

“È talmente spettinata la realtà. Non c’è pettine che riesca a lisciarla.
I poeti vi passano e raccolgono disperatamente i suoi capelli in una pettinatura, dalla quale prontamente di notte vengono perseguitati. Nell’aspetto c’è qualcosa che non va”.

(Da In disparte, discorso pronunciato in occasione del conferimento del Nobel nel 2004)

Il FFJelinek, muovendo da un desiderio di indagine della scrittura dell’autrice nella sua vastità, non solo propone al pubblico una porzione consistente della sua opera, ma ha anche dei felici prolungamenti in alcune pubblicazioni e trasmissioni radiofoniche: Radio Zolfo, a febbraio, ospiterà artisti e studiosi in un dialogo sul corpus della Jelinek a cura di Altre Velocità; RadioEmiliaRomagna segue il festival con una serie di interviste; doppiozero accompagna tutto l’attraversamento con interventi a cadenza mensile, sotto la cura redazionale di Massimo Marino; è uscito per Titivillus FaustIn and Out, testo scritto dalla Jelinek nel 2011/12 e tradotto in italiano da Elisa Barboni e Marcello Soffritti; il secondo numero del 2015 della rivista “Prove di Drammaturgia” sarà curato da Elena Di Gioia e Claudio Longhi e sarà dedicato all’opera dell’autrice.

“[…] non riesco a lasciare il luogo in cui sono. Che importa. L’estraneità non è qui, sta là dove non è estranea, lo preferisce. Ha ragione. […]
The answer, my friend, is blowin’ in the wind. La risposta la sa il vento, e io la so. Il vento viene da tutt’altra parte. Io non vengo, perché non vado nemmeno”.
(Elfriede Jelinek, Ritornare! In Italia!)

Quest’ultima citazione è tratta da Ritornare! In Italia!, un testo scritto dalla Jelinek appositamente per il Focus e presentato in anteprima durante lo stesso. L’autrice austriaca ringrazia per l’attenzione dedicatale, annuncia che non sarà presente a causa della sua agorafobia – che da tempo le impedisce di muoversi dalla sua abitazione -, parla di luoghi e, indirettamente, traccia i confini di uno spazio della mente: l’Italia nei suoi ricordi. Il FFJelinek è, invece, un luogo reale che, costruendosi, ridefinisce continuamente le sue latitudini e l’idea stessa di confine: tra le città, le opere, gli artisti, gli oggetti, le persone.

Un esempio lampante di questa forma di ridefinizione è stato l’happening jelinek che si è tenuto a Bologna il 3 dicembre: “ombelico progettuale” del Festival, il convegno è stato una corsa di fondo nell’opera della scrittrice che ha visto la partecipazione degli artisti coinvolti e di alcuni autorevoli studiosi e traduttori. Tra una lettura, un momento performativo – con Anna Amadori, Ateliersi, Elena Bucci, Fanny & Alexander, Chiara Guidi, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Accademia degli Artefatti, Teatri di Vita, Teatrino Giullare -, una riflessione sul teatro dell’autrice – Luigi Reitani, Silke Felber -, sulla sua scrittura – Gerardo Guccini -,  o sulle strategie adottate per tradurla – Elisa Barboni, Marcello Soffritti, Rita Svandrlik -, la giornata è stata abitata da una dolcissima bufera di parole che ha guidato il pubblico presente nell’immaginario della Jelinek, fornendogli alcune chiavi d’accesso per esplorare il suo corpus, le sue fonti, la sua poetica.
In occasione dell’happening sono stati presentati l’esito del laboratorio tenuto da Claudio Longhi con gli studenti dell’università di Bologna su uno degli ultimi testi della drammaturga, Die Schutzbefohlenen – I rifugiati coatti (traduzione di Luigi Reitani) e il Quaderno Jelinek.

I rifugiati coatti (foto Sara Colciago)

Die Schutzbefohlenen – I rifugiati coatti (foto di Sara Colciago)

Il primo ha visto la partecipazione di circa sessanta studenti che, guidati dal regista, in cinque giorni, si sono addentrati nell’opera, fuoriuscendone con una mise en espace in cui lingue, culture, caratteri e musiche si sono felicemente sovrapposti in uno spettacolo di massa polifonico e corale, non privo di momenti di grande pathos, aggressivo, riflessivo e autosufficiente. Il testo indaga la condizione del clandestino, travestendo le Supplici di Eschilo e filtrando la tragedia attraverso il concetto attualissimo di confine e il caso di cronaca della strage di Lampedusa. Un’orda di studenti-attori ha assalito il pubblico da destra e sinistra, è apparsa in alto, è entrata dal fondo, si è raggruppata in agglomerati monologanti o in dialogo, ha interagito con una suonatrice di fisarmonica sulla destra. Poliglotta, l’orda ha restituito un’immagine volutamente non unilaterale dell’emigrante alla ricerca di una forma di salvezza e, forse, salvazione.

Copertina del Quaderno Jelinek a cura di Altre Velocità

Copertina del Quaderno Jelinek a cura di Altre Velocità (grafica Brochendors Brothers)

Il Quaderno Jelinek – consultabile sul sito del Festival e su quello di Altre Velocità che lo ha magistralmente curato – si presenta come un ulteriore prolungamento del FFJelinek. Viene introdotto da un saggio di Luigi Reitani (contrazione dell’introduzione al volume Sport. Una pièce – Fa niente. Una piccola trilogia della morte, Ubulibri, 2005) e raccoglie una serie di interviste agli artisti coinvolti nella rassegna e alla sua curatrice, ognuno in dialogo con un critico o studioso – Elena Di Gioia / Serena Terranova; Claudio Longhi / Nicoletta Lupia; Andrea Adriatico / Lorenzo Donati; Fabrizio Arcuri / Lucia Amara; Enrico Deotti / Rossella Menna; Chiara Guidi / Alessandra Cava; Chiara Lagani / Alex Giuzio; Angela Malfitano / Francesco Brusa; Angela Malfitano e Nicola Bonazzi / Lucia Cominoli; Fiorenza Menni / Piersandra Di Matteo; Elfriede Jelinek / Anna Bandettini. “Come si legge quest’autrice, oggi, pensando a una sua messa in scena? Come ci si districa tra intrecci di fonti e colate di caratteri, come ci si orienta tra citazioni di altri autori e crepe visionarie, tra strumenti filosofici e cronaca nera? Ecco che ogni dialogo qui raccolto prova a fornire una visione specifica”. Il Quaderno risponde a queste questioni preliminari e si presenta come uno strumento bifronte: da un lato, indaga l’opera dell’autrice servendosi degli autorevoli punti di vista degli artisti che si sono avvicinati ai suoi testi; dall’altro lato, restituisce un quadro del Festival stesso, delle riflessioni alla sua origine, della sua evoluzione nel corso del tempo, delle sue multiformi declinazioni. Leggendo il Quaderno, lineare, preciso, strutturato con intelligenza, si viene, ancora una volta, attraversati da quella dolce bufera di parole protagonista dell’happening, come dell’esito del laboratorio, come del progetto tutto.
“Al teatro voglio strappare la vita”
dice la Jelinek mentre si offre al paradosso di voler creare qualcosa di non-vivo lasciando però che si prolunghi in progettualità spettacolari e non solo necessariamente vitalissime. Il FFJelinek è un montaggio di schegge, ha esordito Elena Di Gioia introducendo l’happening, esso restituisce un collage di visioni, di sprofondamenti e di riemersioni in un’opera compatta e, finora, poco conosciuta in Italia, dura e difficile, che non lascia scampo e che sfida il lettore, il regista, l’attore, lo studioso in un corpo a corpo fino all’ultimo respiro.

Nicoletta Lupia

Dal buio. Una tragedia dell’immaginazione

Recensione a Macbeth su Macbeth su Macbeth. Uno studio per la mano sinistra – di Chiara Guidi (Socìetas Raffaello Sanzio)

MACBETH Chiara Guidi (credits flashati)Forse, lo spettacolo di Chiara Guidi dal Macbeth che ha debuttato al Festival Vie di Modena, si chiama “studio” (nel sottotitolo) perché il senso che trasmette il lavoro è quello di una inesausta ricerca, che si svolge prima ma anche durante la messinscena stessa.
Fin dall’inizio. Quando, ancora con le luci accese in una sala pervasa di nebbia, tre “spettatrici” in nero (Chiara Guidi, Anna Lidia Molina, Agnese Scotti) si alzano e, guardandosi intorno, bisbigliano «Macbeth, Macbeth, Macbeth». «Non bramo altro che trovarlo», rivela una di loro. Quando, poco dopo, Chiara Guidi sparpaglia sul palco pagine e pagine di libri, cerca di riacciuffarle, le perde di nuovo, non si lasciano trattenere in un abbraccio unico. Più in genere, per l’assenza stessa, in concreto, del re shakespeariano: fantasma sempre invocato in scena, continuamente nascosto e celato (dimensione su cui insistono, fra l’altro, numerose scelte visive, a partire dai grandi quadrati di tela nera che man mano vanno a coprire oggetti, persone, azioni).

Macbeth su Macbeth su Macbeth. Il titolo rimanda piuttosto esplicitamente alla triplice invocazione delle streghe all’inizio della tragedia shakespeariana, che riverbera nella triplice attorialità in scena e nei modi in cui viene gestita, tanto a livello fisico-gestuale che sonoro-vocale.
Ci sono brandelli di frasi, parole morsicate, fiati, sussurri, bisbigli, versi d’ogni genere, dai più lievi e flautati a quelli più profondi e viscerali, glossolalie, tensioni inimmaginabili e affondi lunghissimi; una parola che è la carne che la dice, frutto estremo degli anni di ricerca nel campo dell’oralità di Chiara Guidi. Ma i pezzi di Macbeth in scena, attraverso cui è possibile seguire il precipitare della tragedia, non sembrano resti o residui del testo shakespeariano che si presenterebbe in quel caso per frammenti; mantenendo un legame esplicito con il testo da cui sono estratti (rivendicato, ad esempio, dalle progressive integrazioni agli stessi passaggi di testo), paiono piuttosto emergere da esso, come punte scoscese di un iceberg drammaturgico che si estende molto più in profondità, e, dopo essere state trattate dalla partitura vocale, si ergono a guida del senso e del ritmo della tragedia. Le tre voci a volte si sovrappongono, creando eco che si convertono in chimere di senso o amplificandosi in un tono unitario; altre, si passano parola, sia quando ciascuna aggiunge un pezzo, che quando ognuna va per la sua strada; in altri momenti, si giustappongono autarchiche, in altri ancora sono quasi la stessa cosa, la stessa voce, la stessa cavità da cui si origina il dramma. Qualcosa di simile accade con i corpi e i gesti cui danno vita: sul palco, c’è una presenza una e trina, che varia da una fisicità bestialmente deformata al polo della delicatezza e della precisione, attraversando diverse opzioni di interazione (con un’attrice che compie una propria azione, senza in apparenza interagire con le altre, oppure quando si influenzano a vicenda, o ancora se intervengono l’una sull’altra o, infine, nei passaggi in cui si muovono come un unico corpo).

MACBETH Chiara Guidi (credits flashati) IVDal densissimo nero iniziale, si snoda uno spettacolo che segue le vicende del Macbeth, scegliendo come guida il profondo dualismo di cui è intriso il testo (e, sempre coerentemente con esso, facendosene anche ampie beffe con rovesciamenti in agguato dietro ogni angolo). «Il bello è brutto, il brutto è bello», cantavano le streghe di Shakespeare. Così, questo allestimento plasmato dal buio è sferzato da tagli di luce rari ma potenti, siano quelli soffici di una piccola candela o quelli più nitidi di un faro, il riflesso del metallo o le gradazioni terragne di un albero. Intanto, dal pieno del vuoto iniziale, ogni azione comporta un’integrazione visiva e di senso: gradualmente, il palco accoglie alcuni oggetti, mentre le parole si dispiegano mostrando quello che sta accadendo e le azioni le seguono aderendo allo sviluppo drammatico. Sembra quasi che il mistero degli inizi venga piano piano illuminato, almeno in alcuni punti, e possa così in parte essere svelato con maggiore nitidezza al pubblico.

È un teatro ferocemente minimalista quello creato da Chiara Guidi per il suo Macbeth, insieme a Francesca Grilli e alle musiche di Francesco Guerri e Giuseppe Ielasi (il primo anche violoncellista in scena). Il palco è un pieno di nero da cui si lasciano mostrare, di tanto in tanto, alcuni oggetti: un anello di metallo appeso a mezz’aria, una sedia-trono dorata, un pugnale sospeso, una trave, una porta, una mano, un’ombra. Come le parole del Macbeth, sembrano aver lottato a lungo fra loro per emergere dal posto da cui provengono; estratti dal loro contesto originario, sono oggetti sospesi nel buio della scena, quasi fantasmi di un tutto che non riesce o non può concretizzarsi integralmente.
In qualche modo, sono così anche le azioni: l’omicidio è addensato in un unico gesto di profilo (quello di una pugnalata), ripetuto fino allo sfinimento; il senso di colpa della Lady (e le sue famose mani indelebilmente segnate) è incarnato da una mano dorata dietro a una porta, che sporca di polvere brillante tutto quello che tocca; il bosco di Birnam è la radice secca e antica di un albero, sospesa in alto; la mano sinistra del titolo, tradizionalmente quella “sbagliata”, è continuamente occultata, legata, impedita alla vista e al movimento.
Tutti questi elementi – in diversi sensi e a differenti livelli estratti dal proprio contesto di appartenenza e riproposti su una scena scarna e tesa –, nella loro autarchica solitarietà, concretizzano sul palco una delle doti distintive del Macbeth: il fatto di essere soprattutto una tragedia dell’immaginazione, dove profezie, desideri, previsioni e sogni hanno la meglio sul reale, lo determinano e lo producono. Così, l’immaginazione dello spettatore è condotta a muoversi autonomamente fra i pochi e precisi elementi visivi e testuali, a cercare il “suo” Macbeth lì in mezzo, da sola.

MACBETH Chiara Guidi (credits flashati) IILa deflagrazione drammaturgica di ogni scena si irradia comunque a partire da nuclei di senso ben precisi e lucidi, esposti sia a livello vocale che con le immagini. E, fra questi, ci sono dei semi che ritornano, che sembrano coordinare la messinscena e dischiuderne alcuni livelli di senso: tutte le volte che ripetono “re” o “malata” (per segnare il momento dell’omicidio o il sonnambulismo della Lady), tutte quelle che si appoggiano l’una alla spalla dell’altra, di fronte, tutte le altre in cui in scena prende vita un nodo (di corpi, di stoffe, di arti) e quelle, infine, in cui qualcosa è nascosto e svelato, per poi essere di nuovo inghiottito dal buio. Ci sono dei nodi (in concreto, ma anche di senso, di ritmo), tanti nodi, in cui si avviluppano insieme storie e linguaggi, ma a partire da cui lo spettatore può comunque immaginare ciò che accade prima, dopo, durante (e da lì, creare riferimenti e collegamenti, la scena successiva, il suo spettacolo).
La vicenda precipita progressivamente verso la sua conclusione, nel frattempo ha intrappolato lo sguardo e l’emozione di chi ha cominciato a seguirla. Il finale (che non si può rivelare) è qualcosa da togliere il fiato, ma è anche un brivido di speranza che sembra essere sfuggito da qualche crepa nel nero totale di cui è imbevuta la tragedia: un’aurora di luce sconvolge la scena prima che si chiuda il sipario.

In questo spettacolo, oltre il bruciante minimalismo, c’è anche tanta potente magia del teatro, una sapienza materica e materiale che trasuda da ogni scelta, sia a livello linguistico (corporeo, vocale, visivo, musicale…) che compositivo, che infine in un artigianato dell’attore e della scena scandito da ritmi che non lasciano un attimo di scampo.
Un allestimento nerissimo per la tragedia maledetta per eccellenza, dove potere e desiderio, umanità e magia continuano la loro lotta perpetua da secoli; un’opera di rara potenza in cui immagini, parola e musica si intrecciano a comporre situazioni di raro fascino, invitando lo spettatore a un coinvolgimento totale, fatto in pari misura di ascolto, visione, emozione; uno spettacolo, infine, che – probabilmente proprio per questa richiesta di presenza integrale al pubblico – fa paura e la fa davvero, in concreto, nel corpo. E, così, permette di ricordare un po’ perché e per come si vada ancora a teatro.

Visto al Teatro Ermanno Fabbri, Vignola (Vie Scena Contemporanea Festival)

Roberta Ferraresi