Recensione a GMGS_What the hell is happiness? – di Codice Ivan
Una creatura inquietante, nella penombra del centro scena, muove i suoi primi passi; corpo di ragazza, faccia di scimmia, avanza pericolosamente, come una minaccia. Ma l’antitesi teromorfica non è condotta verso derive oscure, quanto piuttosto giocata sui contrasti del mondo (e della società) dello spettacolo, che ricordano più l’ingenuità de Il pianeta delle scimmie che l’iperrealismo degli effetti speciali dei giorni nostri. Già qui è possibile rintracciare la chiave con cui Codice Ivan affronta il tema della (in)felicità, al cuore del nuovo lavoro GMGS_What the hell is happiness?: una vocazione profondamente politica, annientata e rilanciata dall’impostazione ludica che pervade tutto lo spettacolo. Il gioco della rivolta, si potrebbe dire – continuamente rivisto dall’intreccio fra verità e finzione: reali, realissimi, sono i performer (Anna Destefanis e Benno Steinegger), le loro azioni, le loro domande; mentre tutto accade a vista e la magia teatrale è sempre sottolineata e svelata.
Subito segue una sequenza di istantanee in cui si presentano le atmosfere e i gusti, le figure e le idee che si vedranno durante lo spettacolo – una delle soluzioni drammaturgiche con cui la compagnia sviluppa, con freschezza e intelligenza, la partitura che sostiene GMGS: dalla scimmia alla bionda, fino alla ragazza che mangia una mela, la carrellata di immagini-flash sembra inizialmente sfuggire allo sguardo, ma si scopre poi, ritrovandone i profili, che un alone di movimento, di senso, rimane impresso nel buio che precede e segue il quadro successivo, in una sorta di rapidissimo trailer che introduce lo spettatore all’interno della struttura performativa.
Il dispositivo accelera e il racconto si mostra essere quello della creazione e della corruzione: versione biblica o darwinismo che sia – cortocircuito curioso al cuore di GMGS – tutte le narrazioni dell’origine possiedono un’impostazione simile, che prevede la pre-esistenza di un mondo perfetto a cui succede una caduta dagli aspetti similari. Tanto nella tradizione religiosa che in quella scientifica, si intrecciano l’inconsapevolezza (animale o paradisiaca) con la spensieratezza, così come la conoscenza (del bene e del male o tecnica) con un peggioramento di stato. A spiegarcelo è una giovane che trasforma il palco in una grande lavagna: disegna a gessetto le diverse condizioni sul pavimento, che vengono poi proiettate a parete, mentre incalza l’invasione di parole-manifesto, quasi sottotitoli del racconto – non è chiaro per quale motivo – sì disegnato, ma anche parlato in inglese.
In questo spettacolo il testo, in gran parte, non è soltanto detto, ma affidato a dei grandi cartelli in biancoenero che man mano finiscono con l’assediare lo spazio performativo: di matrice chiaramente brechtiana, sono rivisti secondo i dogmi dei giorni nostri – dall'”A cosa stai pensando?” di Facebook agli imperativi degli slogan, dalla comunicazione-lampo degli sms alla meraviglia di sintesi dei loghi. E se, all’inizio, sono utilizzati in vece della parola, a raccontare una sorta di svolgimento narrativo, poi vengono efficacemente deviati in domande, dubbi, interrogativi, in un brusco passaggio dal gioco del racconto a condizioni di feroce attualità. Anche qui si trova uno dei dispositivi drammaturgici efficacemente predisposti per la “cattura” del pubblico: prima, con il racconto biblico-darwiniano, ci si lascia trasportare dai sorrisi – “un tempo ero una scimmia”, “mangiavo solo banane”, “vivevo in un mondo perfetto” – ma poi, quando “le banane non bastano più”, l’uomo dà vita al proprio mondo e comincia a “pensare, lottare, amare”. E qui, mentre i disegni della performer si affastellano cercando di spiegare, con semplicità, la necessità di possesso e tutti i dogmi del capitalismo, anche i cartelli prendono un’altra piega, decisamente più inquietante, rivolgendo domande dirette al pubblico. L’effetto, alla fine, è quello di una gran confusione di segni – linguistici o grafici che siano – perché, come ci dicono dal palco, effettivamente il nostro non è proprio un mondo perfetto, ma una realtà di stratificazioni e ambiguità, inadeguatezza e delirio, tornando sempre, come in un loop continuamente variato, all’insoddisfazione originaria.
La Genesi dell’infelicità con tutti i suoi tracolli, in GMGS, è esplosa in tanti punti di vista e linguaggi: prima il racconto per flash e poi i disegni, una canzone, i cartelli… E poi, ancora, una novella Eva, immersa in un giardino idilliaco (un ritaglio di giornale proiettato a parete) che si anima man mano di uccellini (buttati sul foglio); ma la noia e la volontà di crescita è parte dell’animo umano, così arrivano un cane, un cocktail, una lavatrice, lo stereo… Fino a trasformare il giardino in un party in un appartamento di lusso e la fischiettante Eva in un’aspirante Madonna alle prese col karaoke de La isla bonita, che finisce sommersa da un terremoto di pillole. L’invenzione performativa, anche in questo caso, è tanto semplice quanto efficace: Codice Ivan prepara un’animazione live, in cui la performer interagisce con ritagli di giornale e oggetti proiettati nello spazio, dando vita a un divertente cabaret postmoderno.
In GMGS ci sono tutti gli elementi per uno spettacolo che merita interesse e attenzione: dalle trovate drammaturgiche di cui sopra al tentativo considerevole di costruire un itinerario per il teatro politico nell’epoca di Facebook, dalle belle musiche di Private Culture a un uso originale del video e delle sue interazioni con il performer. A fronte di una ricerca drammaturgica e scenica di tutto rispetto – che sembra illuminare, attraverso la maturazione di alcuni punti, anche nuclei presenti nel lavoro precedente della compagnia – l’unico rischio è proprio quello della condizione postmoderna, tanto decostruita e ricostruita in scena: GMGS non osserva un andamento evolutivo (lineare, rizomatico o caotico che sia), ma, come appunto nella tradizione dell’estetica secondonovecentesca, propone una serie di (pur interessanti e divertenti) variazioni sul tema. Sembra presentarsi come un lavoro “a tesi” in cui, a partire da un dato iniziale, ne vengono successivamente esposte le possibili declinazioni, certo ironiche e intelligenti, reiterando il senso e il modo di quella intuizione primaria. Il rischio della didattica, in tale modalità compositiva, è dietro l’angolo: non solo per l’utilizzo della lavagna (e del modo esplicativo più che narrativo con cui si presenta) o per l’ammiccamento ai cortocircuiti della tautologia, ma soprattutto, appunto, per la potenza del ventaglio di ipotesi di variazioni sul tema che costituiscono la struttura drammaturgica del lavoro. Qui, come si è visto, si esprime una gran ricchezza di opzioni e invenzioni, sceniche e non, ma, compresse come sono a riproporre e ripetere, ognuna a suo modo, la partitura concettuale di fondo, il rischio è quello di omogeneizzarle fra loro e appiattirne le specificità.
Va segnato, ad ogni modo, che GMGS, contiene delle idee (a livello scenico e concettuale) di tutto interesse e, se considerato in relazione agli altri lavori della compagnia (il Premio Scenario 2009 Pink, Me & The Roses e Tank Talk, una performance urbana in cui si ripetono i fatti di Piazza Tienanmen), sembra indicaredelle linee di sviluppo verso cui Codice Ivan sta concentrando le proprie attenzioni: si tratta forse di un lavoro-soglia, di uno spaccato vivacissimo estratto da una ricerca tutta da farsi, capace di tirare le fila dell’indagine sperimentata fin qui e, allo stesso tempo, di indicarne possibili intenzioni. Si può dire che il vero punto di forza del lavoro sia proprio questo: la capacità di portare in scena dei processi ancora in lavorazione, con tutta la vitalità di una ricerca tanto viva quanto solida nelle sue fragilità, che ancora ribolle intorno alla attuale condizione umana.
Visto a Short Theatre 2011, Roma
Roberta Ferraresi