Recensione a Il Libro di Giobbe – regia di Eimuntas Nekrosius
Giovedì 19 settembre si è aperto il 66° Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza, per il secondo anno consecutivo affidato alla direzione artistica del regista lituano Eimuntas Nekrosius. Titolo della rassegna 2013 è Carattere, termine che acquisisce molteplici significati nello spazio teatrale, scelto dal regista a partire da una suggestione: «Il palcoscenico del Teatro Olimpico mi fa venire in mente un albero in cui ogni singola venatura, ogni linea, ogni gesto creativo sono diventati parte della sua natura, come i rami stessi. (…) Ogni ramo ha il suo carattere unico.»
Il maestro stesso apre il ciclo di spettacoli mettendo in scena, con la sua compagnia Meno Fortas, Il Libro di Giobbe, testo biblico e patrimonio filosofico e religioso sia del cristianesimo che dell’ebraismo. Il Ciclo si apre quindi con uno spettacolo che incarna pienamente la scelta del filo conduttore e tema centrale. Nel carattere di Giobbe si leggono la dimensione dell’uomo davanti a Dio, la disarmante disparità di forze e la distanza tra il creatore e la creazione. Archetipo filosofico, Giobbe è un carattere-pensiero che si confronta con una giustizia superiore incomprensibilmente ingiusta, e che è sempre in bilico tra l’accettazione della volontà divina e il desiderio di riscatto e libertà.
Nell’adattamento teatrale, padrone è il testo, maneggiato con cura dal regista che ne esalta l’intensità utilizzando la ripetizione e lo porge allo spettatore attraverso il corpo degli attori e un uso contenuto degli oggetti. Tra questi, alcuni sono di evidente richiamo biblico: un pesce, una croce, una mela, ma si ritrovano solo a inizio e fine racconto, quasi a voler evitare una simbologia enfaticamente religiosa. Durante tutto lo svolgimento dello spettacolo, gli attori usano oggetti comuni re-inventati e manipolati per creare quadri suggestivi: è il caso di due pezzi di legno incastrati a formare lo stipite di una porta che poggia direttamente sul capo di Giobbe, o i cassetti di una scrivania che diventano ali, banchi di preghiera, banchi di imputati e pezzi di un puzzle mistico. La cifra stilistica cui Nekrosius ha abituato il suo pubblico – l’utilizzo allegorico di oggetti materiali per restituire la tensione emotiva dell’atto scenico – si ritrova anche in quest’ultima prova di regia. Così come fondamentali rimangono la gestualità degli attori in scena, che non rappresentano solo puri e definiti personaggi, ma sono anche essi simboli di sentimenti, emozioni e concetti. Un ruolo non secondario spetta alle bellissime musiche del compositore Leon Somov, scritte appositamente a partire dal copione ed elaborate nell’arco delle prove con gli attori.
Le prospettive realizzate da Scamozzi accolgono una regia che non è indiscussa padrona dello spazio, ma vi si adatta umilmente come un ospite. Ugualmente risulta introverso l’intervento del regista sul testo: l’urgenza non è tanto quella di narrare, quanto di dare voce a un mito immutabile e arcaico, offrirgli semplicemente uno spazio e un corpo attraverso cui ripetersi. Un’immagine, tra le molte viste in scena, rimane su tutte: il volto del bravissimo Remigijus Vilkaitis, capace di interpretare il dolore e lo sconforto assoluti del protagonista, fino all’ultimo, epico incontro tra l’uomo e la potenza di Dio.
Visto al Teatro Olimpico di Vicenza
Margherita Gallo