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Contemporanea festival 2016 a Prato: Spettatori/Attori

A Contemporanea Festival 2016, la quarta delle “conferenze brevi incastrate tra musica e lettura” Four Little Packages di Claudio Morganti – passaggio più recente delle sue riflessioni sul teatro che ormai da diversi anni si svolgono al festival nei sotterranei del Teatro Magnolfi – ha come oggetto lo spettatore. Di nuovo Morganti indaga il senso e la sostanza del teatro, ragionando davanti al proprio pubblico, supportando il discorso con pezzi di musica, filmati e per finire l’intervento di Attilio Scarpellini, che discute “dell’abbraccio fatale”, della confusione fra realtà e spettacolo. Il critico porta singolari esempi in cui il limite fra l’una e l’altro è stato – volontariamente o meno – abbattuto e il correlato pensiero di importanti teorici del Novecento: siamo tutti spettatori, ipotizzava Guy Debord nella Società dello spettacolo; siamo tutti attori, gli faceva eco più tardi Jean Baudrillard, in fondo senza contraddirlo. In realtà, unendo gli estremi di un ragionamento tutto sommato coerente sulla situazione attuale fra spettacolo e realtà, siamo tutti attori e tutti spettatori, sempre, allo stesso tempo. E un implicazione-chiave del discorso è che se tutto è diventato spettacolo è naturale che non ci sia più spazio per la scena in senso stretto.
La riflessione potrebbe essere presa senza forzature come manifesto dell’ultimo fine settimana del festival Contemporanea di Prato.

Siamo tutti attori, siamo tutti spettatori
È difficile trovare nella programmazione del festival qualche proposta che non preveda il coinvolgimento del pubblico, che viene declinato in vari modi e gradi nelle diverse performance.

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Tutorial: organizzare un festival

TUTORIAL: come si fanno le “cose” del teatro? Ce lo facciamo raccontare dalle persone che il teatro lo costruiscono o lo immaginano. In maniera veloce, come i trucchi del mestiere, come i consigli degli esperti.

Questa prima uscita, come il tema del trimestre, è dedicata ai “Festival”. Abbiamo chiesto proprio ai direttori artistici e ai curatori, quali siano le 3 cose assolutamente da fare e le 3 da evitare per creare un festival, per cercare di restituire la varietà di approccio che anima il paesaggio teatrale italiano.

 

BARBARA BONINSEGNA
Drodesera / Centrale Fies
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DA FARE DA NON FARE
Aprire gli occhi sul presente, non solo artistico, non solo politico, non solo iconografico. Adagiarsi sul consolidato
Mettersi in relazione col luogo in cui vivi mantenendo alta la proposta artistica senza mai cedere a compromessi rispetto alla facilità di comprensione, ma piuttosto lavorando col e sul pubblico locale. Spendere soldi che non hai
Mantenere l’indipendenza. Intesa come capacità di muoversi liberamente dal punto di vista filosofico, teorico, pratico e politico senza essere mai preda di qualcuno. Non copiare i festival degli altri (:D)
LUCA RICCI
Kilowatt Festival
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DA FARE DA NON FARE
Costruire un rapporto corretto con gli artisti – Qualunque siano le condizioni economiche dalle quali si parte, gli accordi con gli artisti devono essere chiari, rispettosi del loro sforzo creativo e della loro condizione di lavoratori. Si può anche partire con pochissimo (a noi è capitato così, avevamo 2.500 euro per l’edizione 2003, il primo anno) e chiedere agli artisti di investire in un progetto, ma poi è fondamentale ricordarsi di quegli stessi artisti, una volta che il festival è cresciuto. Meno sono le economie a disposizione e più gli artisti devono conoscere i dettagli del budget, di modo da essere in condizione di poter scegliere se partecipare o meno. Scambiare la propria gratificazione con un bisogno diffuso – Se un festival non è costruito intorno a una precisa analisi delle caratteristiche e ai bisogni della comunità di riferimento, non diventa realmente necessario, ma soltanto autorefenziale. Quando parlo di comunità di riferimento lo dico in senso largo: la comunità di riferimento è al tempo stesso quella locale (coi politici, i cittadini), così come quella delle aree limitrofe o degli appassionati del settore, ma anche quella dei colleghi, a livello nazionale.
Costruire un progetto e non una lista di spettacoli – È fondamentale vedere tanti spettacoli dal vivo e tanto materiale video, perché la conoscenza del panorama è un pre-requisito imprescindibile, ma bisogna anche coltivare una visione in base alla quale la sequenza degli spettacoli scelti non corrisponda a un semplice elenco di titoli, ma sia orientata a un obiettivo ultimo, definisca un progetto, disegni una visione. Copiare gli altri – Se una cosa c’è già, non ha senso rifarla; quel che conta è costruire un progetto creativo intorno a una propria idea originale. Abbiamo bisogno di esplorare ciò che è ignoto piuttosto che di piccoli cabotaggi verso mete già conosciute.
Saper dire no – Come in molte cose della vita dire sì a tutti è facile, ma sono i no che fanno la differenza. Anche nei confronti degli artisti che si stimano non serve essere compiacenti: non aiuta il loro processo creativo e men che meno aiuta il rafforzamento del progetto di festival. Farlo per forza – Se non ci sono le condizioni minime, meglio desistere.
SALVATORE TRAMACERE
Il Teatro dei Luoghi Fest
KOREJA
DA FARE DA NON FARE
È importante la chiarezza del progetto artistico proposto e della coerenza del piano di comunicazione: programmare per tempo e utilizzare tutti gli strumenti utili ad un’adeguata promozione. Non disorientare il pubblico, le compagnie e gli ospiti; non trascurare l’accoglienza: precisione, puntualità e disponibilità.
Far convivere una realtà che valorizzi il territorio (non solo tramite la programmazione ma anche attraverso il coinvolgimento attivo di pubblico e realtà locali, associazioni, collaboratori, ristorazione ecc.) per far sì che si crei un senso forte di aggregazione e comunità. Non chiudersi nel provincialismo.
È importante la coesione del gruppo e della comunicazione interna: riunioni interne e di micro-area; divisione dei compiti ma prontezza di spirito e adattabilità a qualsiasi situazione attraverso un’adeguata capacità di problem solving. Evitare malumori nel gruppo e situazioni d’emergenza.
DARIO DE LUCA
Primavera dei Teatri / Progetto MORE
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DA FARE DA NON FARE
Dare una specificità al proprio festival e perseguirla in maniera rigorosa, aliena da concessioni o compromessi. Un festival con una peculiarità ha carattere, personalità e lo rende riconoscibile. Poi, nel tempo, può, e deve, cambiare, evolversi, invecchiare bene insomma, ma facendo un cambio-pelle naturale e fisiologico. Non dare una personalità al proprio festival.
Accogliere tutti (spettatori, compagnie, operatori e critici) con affabilità. Nessuno deve sentirsi a disagio. È come invitare al proprio matrimonio: dove devono convivere ospiti che non si conoscono tra loro o peggio che non possono vedersi. Non abbandonare nessuno. Non far sentire solo o poco considerato l’ospite. Li hai invitati a una festa a casa tua? Ebbene quella festa devono ricordarsela. Un buon gioco di squadra è essenziale per questo punto. Essere disattento o addirittura assente con l’ospite, sia esso spettatore, artista, operatore o critico.
Gli spettacoli e i gruppi o gli artisti singoli devono realmente convincere la direzione artistica. Costruire l’edizione artistica del festival seguendo le reali convinzioni estetiche e il proprio gusto personale tenendo conto della koinè culturale nel quale si inserisce il progetto prescelto. Non trasformare la programmazione in un contenitore di proposte inserite perché: “bisogna tener conto degli artisti del territorio”, “a quelli dobbiamo un piacere”, “quell’artista va per la maggiore”, “tal dei tali ci ha chiesto di prenderli” etc. etc.  Solo così non sarai mai ricattabile e potrai difendere sempre e a spada tratta le scelte fatte. Costruire un progetto nel quale non ci si riconosce ma che tiene conto di “altre dinamiche”.
Avere una squadra tecnica in grado di risolvere tutti i problemi che possono verificarsi durante il festival. Un festival di teatro è fatto per presentare dei lavori teatrali (spesso in prima visione per cui con la fragilità e delicatezza delle piantine appena spuntate) e questi hanno la massima priorità. Una squadra tecnica accogliente, che sappia mettere a proprio agio gli artisti, sia a disposizione e all’occorrenza sappia consigliare per rendere più efficace quello spettacolo in quel determinato spazio teatrale. Che la cortesia, la disponibilità, la professionalità e il comune intento di resa massima della performance non si tramuti o venga presa per genuflessione acritica nei confronti dell’artista demiurgo dell’opera. Lasciare gli artisti soli senza alcun aiuto e/o supporto emotivo.

 

ANGELA FUMAROLA e FABIO MASI
Armunia / Inequilibrio
armunia
1. ANGELA FUMAROLA
DA FARE DA NON FARE
Dedicare tempo alle scelte artistiche, ponderando bene il bilanciamento delle serata, al fine di rendere ogni giorno un’esperienza unica. Omologarsi.
Puntare al senso di ogni spettacolo e alla sua capacità di interagire con lo spazio emotivo, rigenerandolo. Avere ansia e fretta.
Dare valore all’accoglienza, intesa come ritualità, per il pubblico, per gli artisti e per il gruppo di lavoro. Non riconoscere il contesto di riferimento nel quale si svolge il festival.
2. FABIO MASI
Creare le migliori condizioni per accompagnare la versatilità delle varie proposte artistiche in modo da avere un maggior spettro di proposte, senza l’esigenza di una tematica o filone da seguire. Essere meno vetrina e più processi creativi.
Realizzare un ambiente e un “clima” accogliente e facilitatore di intrecci e confronti. Non creare l’ansia di “correre” a vedere gli spettacoli.
Fare di un festival il luogo e lo spazio dell’ampliamento degli orizzonti artistici e culturali grazie ad altre iniziative non direttamente connesse alla programmazione vera e propria.

 

FABRIZIO ARCURI
Short Theatre
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DA FARE DA NON FARE
Evolversi dai propri gusti. Dare priorità ai propri gusti.
Costruire un contenitore in grado di comunicare con la società. Costruire qualcosa a propria immagine e somiglianza.
Essere curiosi di quello che non si conosce, del nuovo. Essere spaventati dal nuovo.

 

CARLO MANGOLINI
Operaestate Festival Veneto
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DA FARE DA NON FARE
LA PAROLA CHIAVE E’ CONDIVISIONE  LA PAROLA CHIAVE E’ CHIUSURA
ARTISTI / Per costruire i contenuti artistici è indispensabile mettersi in ascolto. Intercettare tutto quello che accade attorno a noi. Costruire un percorso riconoscibile. Comunicare con gli artisti, ascoltarli, interpretarli, capire le loro potenzialità. MAI ESSERE AUTOREFERENZIALI / Evitare di ripetere se stessi.
STAFF / Per rendere efficace il risultato è fondamentale poter contare su un gruppo di persone con le quali condividere idee, pensieri ma anche fatica, sudore e tanto tempo da dedicare al progetto. MAI ESSERE PRESUNTUOSI / Non essere sicuri mai di niente.
PUBBLICO / Per intercettare il pubblico è necessario conoscerlo e farsi conoscere. Spiegare percorsi e direzioni di lavoro, trovare modalità di coinvolgimenti, creare momenti di approfondimento. MAI ESSERE ASSENTI / Prendersi cura di tutti: artisti, staff, pubblico, ma anche stampa, operatori e chiunque entra il relazione col festival .
SILVIA BOTTIROLI
Santarcangelo Festival
santarcangelo
DA FARE DA NON FARE
Viaggiare, frequentare ciò che non si conosce. Fare esperienza della scomodità, del senso di straniamento, del non capire, della stanchezza, del voler tornare a casa, e insieme dell’eccitazione, della curiosità, del puro piacere del viaggio. Porsi nella condizione di non sapere e farla durare, condividendola con il gruppo di lavoro e con gli artisti, perché questa vibrazione di incertezza e desiderio si trasmetta poi anche agli spettatori e ai passanti. Non costruire recinti, non tracciare sentieri nel bosco, non trasformare i sentieri in grandi strade asfaltate. Non addomesticare, non addomesticarsi: se si vogliono fare, e condividere con altri, incontri straordinari, bisogna avventurarsi in luoghi sconosciuti e pericolosi, non si troverà mai una balena in una vaschetta per pesci rossi.
Fidarsi. Del caso, della generosità delle persone con cui si lavora, dell’intuito degli artisti, della curiosità esigente del pubblico. Del tempo, degli incontri, del fatto che alla fine tutto è connesso e ogni dettaglio contiene l’intero. Fidarsi, soprattutto, di sé e del proprio istinto. Non accontentarsi. È necessario essere esigenti con gli artisti, perché in un confronto serrato possano far crescere la loro libertà, e con le istituzioni, i partner e gli spettatori, perché possano andare dove da soli non andrebbero, dove non sanno di potere o voler andare. E naturalmente essere esigenti con se stessi, essere scontenti, insicuri, ambiziosi, rigorosissimi.
Darsi delle priorità. Non si riesce a fare tutto, e non si può rispondere a tutte le aspettative che sono poste su di un festival. La vera responsabilità è allora quella di fare delle scelte, di darsi delle priorità e un ordine, da seguire sia nel tempo lungo degli anni in cui si imprime una traiettoria a un’istituzione artistica, sia nel tempo brevissimo delle singole giornate di lavoro. E che le priorità cambino, si sa, è una regola del gioco: rende tutto più difficile ma anche più entusiasmante. Non tentare di compiacere nessuno. Si lavora per l’arte e per niente e nessun altro che l’arte. Non per sé, non per certi artisti, non per le istituzioni o i network professionali, non per il pubblico. E alchemicamente, se si respinge la tentazione del compiacimento e della ricerca di approvazione, grandi cose possono accadere per tutti, anche per chi avrebbe voluto essere rassicurato nella sua visione del mondo e invece ne scopre altre nuove.
EDOARDO DONATINI
Contemporanea Festival
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DA FARE DA NON FARE
È fondamentale che un festival sia aggregatore di un’idea di cultura in continuo movimento, un luogo reagente che raccoglie percorsi artistici provenienti da diverse discipline, un connettore di relazioni in cui la trasversalità dei linguaggi caratterizza in maniera consistente la ricerca compositiva e le metodologie della visione. Non fermarsi all’idea dei grandi eventi che non favorisce la costruzione di una comunità capace di difendere le proprie conquiste, passo dopo passo, acquisizione dopo acquisizione.
Considerare lo spettatore come committente in rappresentanza della sua comunità di riferimento; ed è qui che la creazione ristabilisce il giusto spazio d’incontro tra l’agire della scena e il fruire dello spettatore. In questo senso acquista ancora più valore l’attitudine del festival a costruire ambienti complessi, da cui scaturiscono questioni, elementi attivi che innescano continuamente nuove criticità. Considerare lo spettatore come un soggetto “acritico”, un cliente che non è in grado di giudicare e valutare. Evitare il facile consenso che si ottiene dalla proposta di spettacoli che richiamano solo alla pratica dell’intrattenimento o del semplice accompagnamento.
Assumere la responsabilità delle scelte e delle questioni messe in atto, domande che possono creare disorientamenti, che obbligano il pubblico al confronto con prospettive non sempre immediatamente comprensibili, ma forse, facilmente percepibili. La funzione di un festival non può limitarsi alla sola ricerca del nuovo o al mero elenco degli spettacoli in programma.

Teatri, biografia, teatro. Da Contemporanea festival

L'immagine dell'edizione 2014 di Contemporanea

L’immagine dell’edizione 2014 di Contemporanea

Fine estate, autunno, giornate ancora lunghe ma tiepide. È il tempo del festival Contemporanea, che, organizzato dal Metastasio – Teatro Stabile della Toscana e diretto da Edoardo Donatini, si svolge ogni anno a Prato in questo periodo, quasi posizionato a chiudere il fermento intenso dell’estate dei festival e ad aprire gli orizzonti sulla nuova stagione in arrivo. Una condizione di soglia – sostenuta anche dalle frequenti aperture internazionali, dalla particolare attenzione riservata contestualmente ai maestri e alle esperienze più giovani, dalla ferma intenzione di presentare sia spettacoli compiuti che lavori ancora in progress –, che permette spesso di fare i conti con il passato recente della scena e con le progettualità che in questo momento vi si stanno modellando, sperimentando, verificando.
L’esito di consueto è quello multiforme e vibrante di un teatro affrontato nella sua irriducibile pluralità: dove si affiancano proposte performative o sperimentali a forme più tradizionali, dove si privilegia la ricerca senza però negare il piacere dello spettacolo compiuto; dove si possono incontrare vari tipi di teatri, linguaggi, approcci, dalla nuova danza al monologo, da pièce a dir poco post-drammatiche a esperienze urbane, partecipative e interattive; in cui ci sono artisti affermati e giovani compagnie, autori “di parola”, danz’autori, performer, musicisti e artisti visivi; è un festival che, infine, offre l’opportunità preziosa di toccare con mano diversi stadi di lavorazione del fatto spettacolare: da prime esposizioni in forma di studio, che consentono agli artisti di verificare le loro intuizioni insieme al pubblico, a montaggi di sperimentazioni diverse, a strutture più consolidate in fase di ultimazione, fino ovviamente a opere compiute e finite in senso stretto.

Ogni anno, l’opportunità è in questo caso (come in altre fortunate situazioni simili) di rintracciare qualche pressione diffusa nei teatri del nostro tempo, di intravvedere qualche filo rosso che attraversa le diverse proposte in programma, di individuare insomma qualche nodo intorno a cui sembra (il condizionale è d’obbligo) coagularsi al momento l’attenzione di diversi artisti della scena. E, di qui, verificarla con quel che accade nei nostri teatri, festival, palcoscenici.

Massimiliano Civica "Letture dal quaderno rosso" (foto di Ilaria Costanzo)

Massimiliano Civica “Letture dal quaderno rosso” (foto di Ilaria Costanzo)

Un filo comune che attraversa generazioni, linguaggi, stadi di lavorazione può essere quello stesso del teatrodel rapporto fra il processo di lavoro, la vita degli attori e degli autori e il prodotto che viene presentato al pubblico.
Si potrebbe parlare dell’apporto “biografico” che si riversa nel fare e fatto spettacolare; se con questo termine si intende però quel complesso di interazioni che la vita, professionale e personale, degli artisti intrattiene con l’opera – standovi a fianco, ma anche prima e dopo, e durante, anche proprio lì, nel momento in cui andiamo a fruire dello spettacolo. La “micro-società” degli attori (la definizione è di Ferdinando Taviani e Claudio Meldolesi), la sua irriducibile e preziosa separatezza rispetto al mondo che la circonda, i suoi ritmi e modi particolari, così estranei e irriconoscibili da parte delle persone “comuni”, rischia di uscire un po’ allo scoperto e arrivare a sfiorare il pubblico, il mondo, la realtà. Così, lo spettacolo si può considerare la punta di un iceberg che si sviluppa ben più in profondità, una soglia su una dimensione altra a cui lo spettatore può brevemente affacciarsi; e può convertirsi in un momento di incontro autentico fra il teatro e il suo pubblico, ben al di là della semplice e consueta giustapposizione che li vede confrontarsi fra scena e platea, perché consentirebbe alla vita del teatro di fluire (certo in parte e in modi diversi), attraverso lo spettacolo, nella realtà.
Quello della biografia, considerata in questo senso ampio e lato, si può afferrare come un filo tesissimo che attraversa diversi fra gli spettacoli in programma in questa edizione del festival Contemporanea; e non solo loro, a guardare a volo d’uccello le ultime produzioni della nostra scena. Così, l’attraversamento (pure parziale) del festival diventa anche quest’anno occasione di stimolo per riflettere sui modi, le tendenze, le sperimentazioni in atto più ampiamente nei teatri italiani di questi anni.

La “terza apparizione” del Jesus  di Babilonia Teatri (al debutto a Modena per il festival Vie) potrebbe sembrare una sorta di trailer dello spettacolo che fra poco sarà presentato in forma completa: è composto di alcune scene di temperatura, impianto e impatto molto differenti mostrate in sequenza – un bimbo che corre in scena sulle note di Strauss (e di Kubrick); la famiglia Castellani al completo, Valeria, Enrico e i loro due figli; un doppio monologo frontale, detto da Enrico Castellani e Valeria Raimondi; un concitato frammento di basket; un gioco con grandi lettere luminose che compongono il nome di Gesù.

"Jesus" di Babilonia Teatri (foto di Marco Caselli Nirmal)

“Jesus” di Babilonia Teatri (foto di Marco Caselli Nirmal)

Vedremo come questi materiali e approcci si svilupperanno nello spettacolo finito (per il momento, appunto, si presentano nella frammentaria forma del “trailer”, che se pure possa lasciar intravvedere qualche ipotesi di montaggio, senza dubbio lascia in secondo piano i fili concettuali e formali che andranno a sorreggere l’intera struttura del lavoro). Nel frattempo, si può annotare un dato interessante a margine di questa “terza apparizione”, che fra l’altro potrebbe disegnare uno scarto rispetto al percorso artistico della compagnia: buona parte del contenuto del doppio monologo che vede affiancati i due performer frontali al pubblico comprende elementi estratti dal processo di ricerca per la realizzazione dello spettacolo (cosa piuttosto atipica nel lavoro dei Babilonia). Si parla dell’approccio: quando hanno cominciato a lavorare su Gesù, cominciano a vederlo dappertutto; quando si sparge la voce del loro nuovo progetto, tutti hanno qualcosa da dire a riguardo (un libro da consigliare, un film da vedere, della musica da sentire…).
Il testo, in certi punti, è un montaggio esplicito di brani di canzoni, citazioni di libri e film, elenchi di titoli più o meno famosi, da Madonna a Papa Francesco a Jesus Christ Superstar; come sempre, più e oltre che l’esplorazione di un oggetto in sé, il lavoro si presenta come un’indagine caleidoscopica delle costruzioni mediatiche e delle narrazioni che vi si sono costruite intorno, che da lì si irradiano per innervarsi in profondità nella nostra cultura. Al solito, l’esito assume le forme di un autoritratto vibrante, che comprende tanto noi spettatori che i performer (accomunati ad esempio dalla trasversale cultura cattolica che ci viene imposta fin dall’infanzia con il catechismo, le feste, eccetera).
Piano piano i Babilonia hanno scoperto che «la storia dell’uomo più famoso del mondo era di tutti» e in scena dichiarano i loro “debiti”: dando vita come di consueto a un’esplorazione dell’immaginario (da quello religioso a quello pop) che si è creato nei secoli intorno alla figura del Cristo, ma allo stesso tempo, contestualizzando questi frammenti all’interno del processo di ricerca, esprimono il senso e lo spessore di una autorialità collettiva (certo già presente in altri loro spettacoli, ma solo intuibile, mentre qui è sottolineata apertamente).
Dopodiché, il processo di lavoro – raccontano – è congestionato dai troppi “consigli” esterni. Serve uno scarto, una “tabula rasa” la definiscono. E così una sera appare loro Gesù; davvero; in persona (insieme a una pioggia di rane parlanti). Il che dona un inedito tocco surreale all’approccio dei Babilonia, che sembrano qui mantenere il doppio filo della finzione e del realismo: «se parli di lui, parli con lui», dicono, ed ecco che il protagonista (senza però voler comparire nei crediti in locandina) finisce col collaborare attivamente alla creazione dello spettacolo.
E la componente “biografica” entra anche quando i due parlano di Ettore, il loro figlio maggiore, che a soli quattro anni, interrogandosi sul rapporto fra il Gesù bambino del Presepe e quello del crocifisso, arriva a chiedere della vita e della morte, della finitudine e del suo senso. Certo, anche la pizzeria di made in italy esisteva davvero, ma che differenza faceva se fosse stata reale o immaginaria, una pizzeria vera o una qualunque, inventata a partire da una provincia qualsiasi? Qui, la componente reale si innerva esplicitamente nella dimensione fictional dello spettacolo, è sottolineata e dichiarata, dando vita a un intreccio di dimensione rappresentativa e presentativa già presente in latenza nel lavoro dei Babilonia ma mai così rivendicato apertamente.
Lo spettacolo è anche il processo di ricerca, creazione, lavoro compiuto per realizzarlo. Sembra una tautologia. Ma in questa “terza apparizione” di Jesus questo elemento va a ergersi fra i perni concettuali della messinscena; è campo tematico e strumento linguistico, contenuto e forma; è esplicitamente esposto, offerto, esibito al pubblico che, forse, attraverso queste informazioni, gli aneddoti, le spiegazioni e i racconti può fruire diversamente dello spettacolo, si potrebbe dire condividendolo più in profondità.

"La recita dell'attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto" con Claudio Morganti e Elena Bucci (foto di Ilaria Costanzo)

“La recita dell’attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto” con Claudio Morganti e Elena Bucci (foto di Ilaria Costanzo)

Qualcosa di simile si può dire per La recita dell’attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto, testo di Gianni Celati letto (e performato) al Magnolfi da Claudio Morganti (Vecchiatto) e da Elena Bucci (sua moglie Carlotta). E non solo perché attraverso la vicenda di Vecchiatto –  un tempo leggenda d’oltreoceano e finito abbandonato da teatri e impresari a recitare in una sala vuota di provincia – è possibile afferrare tanto di quel mondo separato e strano che è quello degli attori, delle loro vite professionali, artistiche, intime, delle interazioni che intercorrono fra esse; le prove, il debutto, il lavoro sul testo, il lavoro dell’attore, in scena e fuori; le relazioni con teatri, impresari, colleghi e con gli spettatori; la quotidianità fatta di fatiche e gli orizzonti vividi di ambizioni, la foga delle tournée e l’insofferenza dell’esilio in provincia, il successo e l’amarezza, la gioia di stare in scena e la rassegnazione di fare un mestiere che ormai interessa a pochi. I teatri di oggi e di ieri, i loro artisti e attori, il loro pubblico sono destinati a incontrarsi nelle parole dolci e amare di Vecchiatto e della moglie.
E la dimensione (in senso lato) “biografica” non rientra in questo lavoro neanche soltanto perché, facendo un passo più oltre, nelle invettive di Vecchiatto contro il teatro che l’ha emarginato, abbandonato, escluso passa in filigrana un attacco ai tempi che cambiano, maciullando tutto a gran velocità negli ingranaggi di un (presunto) progresso che omologa ogni cosa, costringendo l’umano a ritmi folli e frantumandone la dimensione sociale (riassunto ad esempio nell’aneddoto in cui l’attore si scaglia a prendere a ombrellate le automobili).

"Crash!" di Katia Giuliani (foto di Ilaria Costanzo)

“Crash!” di Katia Giuliani (foto di Ilaria Costanzo)

A guardare bene, un altro nodo di interesse in merito, si trova nel lavoro stesso di Claudio Morganti. Ancora una volta, invita il pubblico (poche persone, circa una trentina) a un teatro particolare, intimo e da camera, allestito (come il Mit Lenz dello scorso anno) nei sotterranei del Magnolfi: accomodati intorno ai tavolini, con un po’ di frutta e un bicchiere di vino, questi spettatori danno il senso di una piccola comunità che si riunisce intorno al fatto teatrale, che ascolta insieme un teatro che è più del teatro fatto di spettacoli, proscenio, poltroncine imbottite e sipari; è forse un teatro che unisce, che si rifrange in pochi sguardi, in cui le parole impregnano i soffitti bassi e l’oscurità, in cui è possibile scambiare un’occhiata o un cenno col proprio vicino e rendersi conto che quando si è spettatori non si è soli (come capita magari di pensare nella fruizione consueta di uno spettacolo) ma si è pubblico, al singolare e al plurale, in quanto parte di una (seppure momentanea) comunità.

Questi sono soltanto due esempi (tracciati grazie al festival Contemporanea) che possono rappresentare quanto e come si possa riversare una dimensione “biografica” (sempre nell’accezione espansa che abbiamo disegnato) nei teatri del nostro tempo. Aprendo lo sguardo al resto del programma di Contemporanea, si potrebbero richiamare altri lavori e, con essi, arricchire il discorso di ulteriori prospettive e direzioni: dal doppio performativo prepotentemente in gioco nei monologhi shakespeariani di Tim Crouch portati in scena da Accademia degli Artefatti (Io Calibano Io, Cinna), che richiedono apertamente la partecipazione del pubblico e tanto investono sul quell'”Io” di fronte al titolo, che rivendica un punto di vista personale e minore dando vita a una sorta di spinoff dalle grandi opere del Bardo; a Crash! di Katia Giuliani, in cui il pubblico è invitato catarticamente a distruggere oggetti; fino alle Letture dal quaderno rosso di Massimiliano Civica, in cui l’artista estrae frammenti dai propri appunti, in cui ha annotato citazioni e riflessioni e di qui parte per costruire un discorso o, meglio, un personalissimo viaggio all’interno della storia del teatro.

Accademia degli Artefatti "Io, Cinna" (foto di Ilaria Costanzo)

Accademia degli Artefatti “Io, Cinna” (foto di Ilaria Costanzo)

Non sono gli unici lavori a muoversi in queste direzioni, sia che si guardi a quelli che si concentrano sui rapporti fra processo e prodotto spettacolari, che invece ad altri che lavorano sui rapporti fra il teatro e il mondo che lo produce e fruisce; che si guardi alle modalità di coinvolgimento del pubblico o all’apporto strettamente biografico dell’artista.
Qualche tempo fa, Lorenzo Donati, intervenendo in merito ai rapporti fra teatri del nostro tempo e autobiografia, scriveva che queste tendenze si potevano forse leggere come «segno probabilmente di un più generale bisogno di fare i conti con il presente» (il testo è compreso nel volume curato da Stefano Casi ed Elena Di Gioia Passione e ideologia). In effetti, a ripensare alla scelta di Morganti di portare in scena la lettura della vicenda di Attilio Vecchiatto firmata da Celati, a quel teatrino di provincia e a quello invece sotterraneo e intimo ricavato al Magnolfi, alle invettive contro il teatro e contro la realtà; a ripensare a come Babilonia Teatri riversa la propria ricerca nel prodotto-spettacolo; è sì possibile provare a chiudere il cerchio, tirando il lungo filo che abbiamo dipanato in questo discorso, e, alla fine, intravvedere in questi diversi tipi di esperienze performative delle forme di teatro che provano irriducibilmente a fare i conti col proprio tempo (teatrale e non).

Roberta Ferraresi

Finestate Festival: un nuovo network fra passato e futuro

Ormai è sulla bocca di tutti che l’arte, la storia e la cultura italiane siano continuamente in pericolo: Pompei rischia di uscire dal prestigioso circolo dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco, gli eco-mostri straziano gli orizzonti, i monumenti sono bardati da impalcature perenni. L’Italia arranca nel sostenere il peso di un patrimonio diffuso enorme, per non parlare poi di presente, di contemporaneo, di futuro; e, se possibile, la situazione peggiora ancor di più, se si sconfina in quel campo di produzione immateriale che è quello delle arti performative: i teatri chiudono, i festival sono sempre più in affanno, le compagnie si trovano schiacciate fra necessità di produzione, giornate di lavoro, repliche, contributi (criteri inattuali su cui si fonda, ad esempio, la distribuzione dei finanziamenti ministeriali) e vita reale, artistica e non. Che dire, poi, se alla disattenzione e all’incuria di un Paese che pare essere incapace di riconoscere (oltre che di valorizzare) le proprie potenzialità, si aggiungono le ripercussioni della crisi (non solo finanziaria) globale: già lontani gli imbarazzi di “con la cultura non si mangia”, oggi lo stato di emergenza si è consolidato come realtà quotidiana e l’eccezionalità che lo dovrebbe contraddistinguere tante volte ha lasciato il posto alla logica di una routine amaramente rassegnata.
Ma, laddove c’è, oltre alle evidenti difficoltà economiche, innanzitutto un vuoto (progettuale, amministrativo, concettuale), naturalmente e paradossalmente fiorisce l’eccellenza delle iniziative indipendenti, la creatività partecipata, la buona volontà dei singoli: basti pensare ai gruppi d’acquisto, alle iniziative di sharing (casa, macchina e chi più ne ha più ne metta), al guerrilla gardening e – per tornare a noi – ai tanti teatri occupati e/o autogestiti, dal Valle in poi. La resistenza si converte in dinamiche progettuali originali, la sopravvivenza in opportunità, la crisi in solidarietà, nella tradizione di quell’arte di arrangiarsi che ormai ha fatto il giro del mondo. Non che queste iniziative, da sole, possano andare a fronteggiare per sempre la polverizzazione istituzionale, gli anacronismi iper-burocratici e l’inadeguatezza dirigenziale; ma spesso hanno il merito di portare con forza all’attenzione necessità e urgenze che sono il segno dei tempi che cambiano, lasciando intravedere nuovi orizzonti operativi, rifocalizzando l’essenziale e disegnando nuovi percorsi per coltivarlo, quando non addirittura conquistarlo.

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È il caso di Finestatefestival, network attivo dal 2012 che raccoglie le spinte di sei rassegne che si sviluppano, come dice il titolo, fra agosto e ottobre, andando a concludere la lunga stagione dell’Italia dei festival. Si parte con B.Motion di Bassano del Grappa (VI), dal 22 al 31 agosto; Castel dei Mondi, ad Andria, il 25 agosto, poi  il romano Short Theatre – che quest’anno si presenta con un titolo a dir poco emblematico: La democrazia della felicità –, per proseguire con Terni (18-29 settembre) e chiudere con Contemporanea di Prato e Approdi a Cagliari, nuova realtà nel quartiere di Sant’Elia.
L’esito, per il 2013, è quello di proporre, all’interno della propria programmazione, due spettacoli internazionali: Nos solitudes di Julie Noche (nell’ambito di FranceDanse / Festival di danza contemporanea promosso dall’Institut Français, dal Ministère de la Culture et de la Communication, dall’Institut français Italia e dalla Fondazione Nuovi Mecenati) e Agoraphobia di Lotte van den Berg (in collaborazione con l’Ambasciata dei Paesi Bassi).

Lotte van den Berg "Agoraphobia" (foto di Willem Weemhoffhires)

Lotte van den Berg “Agoraphobia” (foto di Willem Weemhoffhires)

Perché sei festival si mettono insieme formalizzandosi in una rete? Dando uno sguardo agli obiettivi sintetizzati nella presentazione del network, si parla di «stimolare la cooperazione tra festival in Italia», con una specifica vocazione internazionale – anche immaginando percorsi a doppio senso che, oltre a portare nel nostro Paese lavori dall’estero, promuovano anche tournée straniere di artisti italiani, sperimentando collaborazioni anche con gli istituti di cultura e sviluppando un mercato unico delle arti performative in Europa – e un’attenzione particolare per la ricerca, per quanto riguarda «forme ibride dell’arte performativa» e «facilitare la collaborazione tra artisti di provenienze e di ambiti diversi». Quella che viene in mente, con una prospettiva trasversale rispetto alle diverse realtà e agli obiettivi che si pongono, è una ragione innanzitutto di sostenibilità economica: incontrandosi su alcune scelte di programmazione, queste rassegne hanno la possibilità di proporre al proprio pubblico lavori che forse, altrimenti, non avrebbero potuto ospitare, «al fine di moltiplicare le potenzialità che consentono di raggiungere traguardi al di fuori della portata del singolo festival». In momenti come oggi, già questo può essere un segno prezioso dei tempi che cambiano, per esempio sostituendo condivisione e confronto alla logica forsennata del debutto a tutti i costi, della concorrenza sul filo della novità, della competizione su nomi, date, location e tutto il resto. Ma, dando un’occhiata da vicino ai due spettacoli scelti, nel 2013, per la circuitazione all’interno del network è possibile sia riconoscere il segno delle linee di operatività individuali che abbiamo imparato, negli anni, a frequentare, sia provare a immaginare le risonanze interne e i flussi delle sinergie possibili, a livello artistico, certo, ma anche etico e politico; e per intuire come, forse, nel futuro più o meno imminente di questi primi passi di collaborazione, ci sia molto, molto di più.

Già in sede di conferenza stampa si è sottolineata la volontà di una condivisione progettuale che metta i festival in comunicazione diretta fra loro preservandone, però, differenze e specificità. Più che di una necessità strategica – come ha tenuto a sottolineare Edoardo Donatini –, si parla di affinità. Sensibilità comuni che si rivelano, solo per fare un esempio, nella scelta di uno degli spettacoli internazionali – quello di Julie Nioche –, affidata al direttore artistico di Contemporanea e a Linda Di Pietro, codirettrice di Terni Festival, che a Parigi hanno visionato Nos Solitudes e incontrato la coreografa; ma anche nel progetto di Lotte van der Berg, che fra nuove tecnologie e arte pubblica invaderà le piazze europee per tutta l’estate. O, per fare un altro esempio, nella presenza di Indisciplinarte (l’associazione che gestisce la rassegna umbra) sul territorio cagliaritano, per un progetto a lungo termine, che parta da Approdi e lavori in prospettiva, per rinsaldare il quartiere di Sant’Elia alla città.

Julie Noche "Nos Solitudes" (foto di Agathe Poupeney)

Julie Noche “Nos Solitudes” (foto di Agathe Poupeney)

Un impegno di cooperazione, quello del network, percepibile nella piacevole serata di presentazione, che si è svolta su una terrazza romana con suggestivo affaccio su Piazza Venezia. Non un’elencazione dei programmi, di cui si sono date piccole anticipazioni, brevi assaggi, ma una presentazione di linee comuni, di una rete di linguaggi e artisti contemporanei.
Salta subito agli occhi come la nascita di Finestate, più che una nuova iniziativa, vada a formalizzare una prossimità, una curiosità e un sistema di attenzioni preesistente: si riconosce il segno dell’arte pubblica che distingue Prato e Terni, la loro dimensione – con Bassano – di lavoro internazionale e l’attenzione alle pressioni di cocente attualità, come anche a Short Theatre. Si impone l’attenzione che lega tutti alla creatività emergente, alla ricombinazione di linguaggi e percorsi nella sperimentazione di collaborazioni inedite.

Ma Finestate non sta solo a indicare l’intreccio, pure importante, di pressioni, orientamenti, volontà preesistenti che intendono legarsi in una nuova dimensione di progettazione partecipata. Parlando assieme di politiche (scouting, transnazionalità, cooperazione) e di estetiche (nuovi linguaggi, ibridazione…), è possibile cogliere forse un altro obiettivo rispetto al programma, che un po’ li ricapitola tutti ma, soprattutto, può lasciar intravedere qualche passaggio in più, che supera tanto le ragioni di ordine di sostenibilità economica quanto la spinta degli orientamenti già attivi in precedenza: i festival di Finestate sembrano trovarsi insieme a rimarginare lo scollamento, che è sempre andato più amplificandosi, fra estetica e politica. Quello che ne emerge sembra manifestarsi come un esperimento che si propone di chiamare a raccolta, al proprio interno, sensibilità e poetiche, ma anche scelte etiche e politiche culturali, progettualità di ampio respiro e lunga durata, in un unicum che ha tutte le potenzialità per segnare il passo, andando a intercettare creativamente, ancora una volta – ma, in questo caso, attraverso un sistema di sinergie dichiarato – le urgenze della scena contemporanea e a disegnare per essa nuovi sviluppi possibili.

Contemporanea Festival arriva d’autunno

Contemporanea Festival, quest’anno, si svolge in autunno, mutando la tradizionale collocazione in chiusura di stagione (e in apertura rispetto al ciclo delle rassegne estive). Il Teatro Metastasio Stabile della Toscana conferma l’attenzione per la creatività performativa emergente segnata in questi anni dal lavoro del Festival diretto da Edoardo Donatini e, anzi, ne colloca la presenza a mo’ di “prologo” della propria stagione 2011/2012 – una sorta di «fuoco d’artificio culturale» che intende trasmettere agli spettatori e ai cittadini le intenzioni dello Stabile in termini progettuali e di politica culturale.

La città di Prato, infatti, dal 23 settembre all’8 ottobre, sarà invasa da numerosi appuntamenti con la ricerca teatrale, affermata ed emergente, italiana e internazionale. Nella sezione “Scena contemporanea” si trovano i grandi eventi della rassegna: fra tutti, la chiusura del Festival con l’Odin Teatret che da decenni continua ad essere un riferimento assoluto per un modo alternativo di fare e vivere il teatro; la compagnia guidata da Eugenio Barba è presente con uno spettacolo in prima nazionale (La vita cronica, 4-8 ottobre) e con un incontro aperto al pubblico, il 6 ottobre, coordinato dal critico Gianfranco Capitta. Ma, in quest’ambito, sono presenti anche altri ospiti internazionali – dagli svizzeri dell’Alakran, che interrogano con umorismo i luoghi comuni della società contemporanea, all’indagine sul corpo della danz’autrice belga Lisbeth Gruwez, alle curiose commistioni fra arte coreografica e culinaria di Radhouane El Meddeb – a compagnie italiane affermate, come Teatro delle Ariette, Kinkaleri e Teatro Sotterraneo. C’è poi la sempre attesissima sezione “Alveare”, in cui anche quest’anno si potranno osservare gli stimoli e le tensioni più attuali della creatività emergente, in una «zona franca» che per il 2011 si articola in 2 “volumi”, ognuno per un fine settimana di Festival. Nel primo (dal 24 al 27 settembre), i nuovi lavori di Pathosformel e di Yael Karavan, Atto semplice di Compagnia dello Scompiglio-Azul Teatro e il nuovo studio di inQuanto teatro sul progetto Nil admirari; nella seconda parte (29 settembre-2 ottobre), invece, il primo studio del nuovo lavoro di CapoTrave, e poi Matteo Fantoni, gruppo nanou & Letizia Renzini, Alessandra Coppola e David Zagari. Infine, torna a Contemporanea l’attenzione per il teatro ragazzi, in un’apposita sezione (“Contemporanea ragazzi”) in cui Kinkaleri e TPO (con Tom Dale) rilanciano i normali rapporti fra narrazione e spettatori oltre i confini consueti del teatro ragazzi.
Attraverso la sezione “Progetti speciali”, il Festival invade fisicamente la città, portando teatro e performance in luoghi insoliti o in situazioni atipiche, che rendono lo spettatore vero protagonista dell’evento performativo, come nei lavori di Cuocolo e Bosetti o nella performance di Katia Giuliani. In questo ambito, oltre all’assemblea nazionale del progetto C.Re.S.Co., anche la speciale serata d’apertura che inaugurerà il 23 settembre le attività del Festival: una Notte contemporanea negli spazi di Via Genova con performance, mostre, video-installazioni e musica.

In anni in cui la cultura e il teatro sono sempre più in condizioni di difficoltà e marginalità, per lo Stabile della Toscana, con il Festival Contemporanea, l’idea è quella di non venire meno alla propria linea di lavoro e anzi, di anticipare sostanzialmente l’apertura della stagione, affidandola a un prologo dedicato alla ricerca e alla creatività emergente. Una sorta di ambizioso augurio per l’attività teatrale di tutto l’anno, che si spera abbia un vivace riscontro nei mesi che verranno.

Roberta Ferraresi