critica spettacolo hirata

Teatro del Sol Levante ma non troppo…

Recensione a The Yalta Conference e Tokyo notes – regia di Hirata Oriza

Contemplazione ed estetismo, riflessione e fascinazione affabulatoria: gli ingredienti dell’intreccio carezzevole della produzione d’autore giapponese nell’arte audiovisiva. In altri termini, squisite e azzeccate appaiono le produzioni cine-teatrali di stampo nipponico, giocate a carte coperte tra realismo e immaginazione, quando non particolarmente caratterizzata è la piacevolezza della pura osservazione. Si pensi a Ferro 3 di Kim Ki-Duk o a Dolls del maestro Takeshi Kitano, ad onor di citazione.
Nello specifico dell’attività scenica contemporanea, il discorso assume contorni più articolati. L’osservatorio di analisi in merito, non può prescindere dal considerare quei meccanismi di rottura con il fardello della tradizione teatrale classica, influenzata intensamente dal propagandiamo politico pregnante di quel sentire “d’impero”, dominante il tessuto storico, culturale, sociale del paese. Tradizione che s’insinua nelle trame delle produzioni post-moderne, come un complesso teorico dal quale sdoganarsi, da affrontare con atteggiamenti antitetici. I nuovi sguardi, dunque, vanno altrove. Strizzando l’occhio al fare scenico occidentale, per un risultato dal gusto sopraffino. Forse di nicchia.

Fatta questa necessaria premessa, si connota cristallino il senso del lavoro del regista Oriza Hirata, in visione al Napoli Teatro Festival (1-2-3 luglio scorsi) con The Yalta Conference e Tokyo notes.

The Tokyo notes – foto Claire Pasquier

Meritevole di grassetto il secondo spettacolo, presentatoin prima serata nella principesca location del Museo di Capodimonte, nel salone delle feste. Se non altro per il retrogusto sensazionale (nell’accezione prettamente sensibile del termine) avvertito dalla nutrita platea a giochi fatti. Spettatori separati dalla scena da una fragile parete invisibile, più volte penetrata dalle suggestioni sceniche. Forte, in parole povere, l’interazione tra attori (ben 20 in scena) e paganti, posti a ridosso dello spazio d’allestimento. Colpiti da stupore spazio-temporale: loco scenico e loco fisico combaciano per esigenze drammaturgiche, scaturendo un singolare senso di straniamento. I protagonisti agiscono in un museo, in un ipotetico futuro prossimo durante il quale un’ennesima guerra mondiale sconvolge gli equilibri geopolitici europei, e le opere d’arte del vecchio continente vengono spedite in Giappone nel tentativo di proteggerle. Ipotetico futuro che ricorda trascorsi storici tragicamente accaduti: i sottotesti dei dialoghi fra i personaggi esplicitano una possibile partecipazione giapponese al conflitto, pur non assumendo nessuna posizione politicamente chiara (il riferimento alla seconda guerra mondiale è netto). Dialoghi che tessono la struttura testuale della messinscena, in discussioni frontali e collettive, dalle sembianze accostabili (azzardando paragoni) alla drammaturgia borghese di marca Bernhard. Storie che si snodano e si accavallano delicatamente, portate a braccio da una recitazione minimale e corretta degli artisti nipponici, guidati da una regia che non inciampa in formalismi o colpi di teatro.
Un paio d’ore di accattivante coinvolgimento interattivo, sottile e mai edulcorato, a rapire la curiosità degli spettatori come dolci frizioni di bambagia. E non accade nulla in scena, ma il dipanarsi di intenti, posizioni, vissuti, quotidianità, materializza un corpus narrativo dove l’evocazione s’incarna protagonista non apparente del rappresentato. L’effetto, è un dondolarsi nel godimento dell’ascolto e della visione.
Una serie di panche dislocate dinnanzi il fondale barocco della sala museale; un’edicola zeppa di monografie d’artisti (tutte giapponesi ad eccezione d’un libretto su Cézanne feticcio di contaminazioni occidentali); e una dozzina di sfere penzolanti perpendicolari allo spazio d’azione (dai colori della bandiera giapponese) compongono l’allestimento scenografico della rappresentazione. Il resto, alle storie sovrapposte degli interpreti: una famiglia di imprenditori nell’industria bellica, una donatrice l’amico e il suo avvocato, studenti, curatori del museo, coppie, sognatori e ribelli. Gente comune, portavoce d’uno strato sociale somigliante piuttosto a dagherrotipi europei.
Un lavoro riuscito, giocato intorno a tematiche ricorrenti: la guerra e l’arte, interrogate da variegati punti di vista per quanti sono gli attori alternati in scena.

L’idiozia bellica è inoltre struttura drammatica dello spettacolo The Yalta Conference, parodia del potere con Stalin, Churchill e Roosevelt a tavolino, burattinai e spartitori delle miserie territoriali di fine conflitto.
Mezz’ora, in tarda serata, d’interpretazione leggera e frizzante, senza troppe pretese. Divertissement.
Funambolismi e acrobazie del teatro del Sol Levante. Orientale, ma non troppo…

Visto al Museo di Capodimonte, Napoli Teatro Festival

Emilio Nigro